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In Myanmar
Perché il regime birmano sta ostacolando i soccorsi nelle zone devastate dal sisma
Le prime squadre di soccorso russe e cinesi non sono una sorpresa: Mosca e Pechino garantiscono la sopravvivenza dei militari dal colpo di stato del 2021
A Saigang arrivano meno aiuti: è una roccaforte della People's defence force, il braccio armato del governo democratico in esilio che si oppone alla giunta. Come arrivano gli aiuti "clandestini" alla resistenza e alcune buone ragioni per non fidarsi del Tatmadaw, che (ancora una volta) non dimostra interesse per i civili
Le zone più devastate dal terremoto di magnitudo 7.7 in Myanmar, quattro giorni dopo il sisma, stanno ricevendo meno aiuti rispetto alle grandi città di Mandalay e Naypyidaw, sotto il controllo della dittatura militare. A Sagaing, la città più vicina all’epicentro nella zona centrale del paese, centinaia di corpi sono ancora intrappolati nelle macerie, l’80 per cento degli edifici è crollato e nonostante i messaggi di solidarietà della comunità internazionale e le prime squadre di soccorsi inviate da Cina e Russia – i due principali sostenitori della giunta militare – il primo gruppo di aiuti internazionali è arrivato soltanto domenica sera, dalla Malesia. Ieri il bilancio è salito a duemila morti e oltre tremila feriti, e mentre il Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, proclamava una settimana di lutto nazionale, il personale umanitario, gli attivisti pro democrazia e il Nug, il governo ombra in esilio avvertivano: la giunta non ha cessato di bombardare le zone occupate dai ribelli, ostacola e controlla la distribuzione degli aiuti a suo favore, nega l’accesso al paese ai giornalisti internazionali.
Anche l’accesso a internet è sotto il controllo della giunta e secondo alcune testimonianze dalle aree più colpite è difficile persino organizzarsi tra i soccorritori, le squadre di soccorso vengono interrogate e l’autorizzazione per le operazioni viene sistematicamente bloccata. “E’ certo che i militari stiano ostacolando gli aiuti. Non hanno concesso i visti ai giornalisti internazionali perché temono che emerga la loro l’incapacità, il non essere riusciti ad aver messo in piedi un sistema di allarme sismico adeguato: è noto da tempo il rischio sismico sulla faglia, eppure non è stato fatto mai nulla”, dice al Foglio Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione Italia-Birmania insieme. Al quarto giorno di soccorsi si sono ormai affievolite le speranze di trovare altri sopravvissuti, ma i corpi senza vita sono ancora moltissimi e il caldo soffocante è uno dei maggiori ostacoli: ieri le persone sul posto hanno diffuso appelli sulla carenza di sacchi per la conservazione dei corpi, il prezzo è raddoppiato, ne mancherebbero almeno 20.000 solo a Saigang. Ranieri Sabatucci, rappresentante dell’Unione europea in Myanmar, da Yangon dice al Foglio che nei prossimi giorni continueranno a esserci difficoltà nel far arrivare gli aiuti internazionali: “Prevediamo che la macchina dei soccorsi prenderà molto tempo prima di funzionare, in una situazione di per sé già difficile: prima del terremoto un aiuto su dieci arrivava a destinazione”.
Il rischio che arrivino per la maggior parte nella zone controllate dal regime è concreto, dice il diplomatico, eppure esistono metodi per far arrivare gli aiuti anche nelle zone controllate dalla resistenza: “Preferiamo non discuterne troppo, ma esistono pratiche internazionali per far sì che si attivino gli aiuti necessari”, e ovunque, nonostante secondo le norme sugli aiuti umanitari non sarebbe possibile offrire supporto a organizzazioni combattenti come le People’s Defence Force, il braccio armato del Nug, che controllano alcune zone liberate dopo il colpo di stato. Secondo Sabatucci, al contrario di quanto affermano gli attivisti pro democrazia, la giunta non avrebbe motivo di dirottare gli aiuti umanitari nel suo arsenale per bombardare i civili – soprattutto nelle zone ancora sotto il suo controllo – e quelli forniti da Russia e Cina è probabile che vengano effettivamente destinati alla popolazione: “E’ noto che inviino armi, non hanno bisogno di nasconderlo”. Le forze democratiche e le organizzazioni etniche armate fanno però sapere dai territori liberati di aver riferito alla giunta la volontà di aiutare nei soccorsi: con un comunicato il Nug ha annunciato due settimane di tregua e ha richiesto la cessazione dei bombardamenti da parte dei militari, ma non ha ricevuto risposta.
L’esercito non ha interesse alla sua popolazione, ha una lunga storia di aiuti negati al suo popolo, “con il ciclone nel 2023 gli aiuti non arrivarono mai”, commenta Cecilia Brighi. Lo stesso accadde nel 2008, quando un ciclone fece oltre 100.000 morti e la giunta diede priorità a un referendum costituzionale. Sui social i soccorritori fanno sapere che “le persone hanno più bisogno di cibo che di soldi. La maggior parte dei negozi è chiusa e c’è una grave carenza di forniture mediche e prodotti sanitari”. Gli infermieri devono essere riabilitati, dice Brighi, la rete internet e i social media devono essere ripristinati, “Starlink dovrebbe mettere a disposizione i propri satelliti per facilitare gli aiuti: negli stati controllati dal gruppo etnico Karen già funziona”.
Le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale di “fare più pressione possibile sulla giunta affinché fermi i combattimenti e i bombardamenti”, ma per il momento l’apertura è arrivata solo dalla resistenza. L’Onu “non ha preso alcuna azione efficace mentre l’esercito spietato continua a bombardare e massacrare la nostra gente da anni. Ora, con questo terremoto, come possono fornire soccorsi di emergenza senza fermare la continua campagna terroristica e gli attacchi aerei dell’esercito?”, ha scritto in un comunicato firmato da oltre venti associazione pro democrazia la presidente dell’organizzazione birmana Progressive Voice, Khin Ohmar.