
Trump, l'America e Roma. La versione di Jonathan Safran Foer
Dall’Aventino ogni cosa è illuminata. Semestre romano per lo scrittore, che però non è in fuga da Trump: “Il dissenso si manifesta senza andarsene. Io lo farò al mio ritorno, scrivendo”. Le meraviglie dell’Italia, la felicità, il tradimento delle promesse americane. Intervista
Pochi giorni prima dell’inaugurazione della seconda presidenza Trump, Jonathan Safran Foer si è trasferito con tutta la famiglia a Roma. Dopo una lunga ricerca ha scelto di vivere all’Aventino, “tranquillo, elegante e a pochi passi da Testaccio”, quartiere che ama perché “autentico e vitale”. Per la nostra intervista ha scelto un bar che frequenta abitualmente, ma lo troviamo chiuso per la pausa del pranzo, e siamo costretti a cercare un luogo alternativo. “Ce ne sono molti in questa zona”, mi dice con l’entusiasmo del neofita, ma dopo aver girovagato a lungo, approdiamo finalmente in un ristorante dove è terminato l’orario del pranzo ma è ancora troppo presto per quello della cena. I camerieri stanno riposando e non c’è traccia dei titolari: dopo un po’ di trattative ci viene acconsentito di accomodarci in un tavolo esterno, ma senza consumare. “In questo episodio c’è una delle differenze sostanziali tra la cultura italiana e quella americana” mi spiega mentre ci sediamo, “a New York ti avrebbero consentito di sedere a patto di consumare. Qui in Italia prevale la gentilezza, ma lo spirito imprenditoriale è più debole”. Me lo dice sorridendo, è evidente che preferisce quanto avviene a Roma. Poi lo scrittore, che ha conquistato la notorietà internazionale con Ogni cosa è illuminata, pubblicato quando aveva solo 25 anni, si affretta a chiarire che la scelta della data del trasferimento in Italia “è una pura coincidenza rispetto all’inaugurazione di Trump: avevamo deciso di passare un semestre a Roma da molto tempo, e abbiamo iscritto uno dei nostri figli alla scuola americana. Non appartengo a quella categoria di persone che minacciano di andarsene ogni volta che vince la parte avversa alle proprie idee”.
Non si tratta di una vittoria come tutte le altre – gli dico –: il ritorno di Trump ha caratteristiche rivoluzionarie rispetto a qualunque altro presidente, e va ben oltre il prevalere di una parte politica.
Non c’è dubbio, e non mi sfugge quanto di grave, sconcertante e allarmante abbia fatto nei primi due mesi, mettendo in atto quanto aveva promesso in campagna elettorale. Né mi sfugge che ha avuto mandato di realizzare il suo progetto radicale vincendo democraticamente con due milioni di voti di vantaggio. Credo però che coloro che hanno a cuore il paese abbiano il dovere di impegnarsi e testimoniare il dissenso piuttosto che andar via. Ultimamente mi è capitato di discutere con una persona che lamentava in modo angosciato il fatto che la gente non scendesse per strada a protestare: mentre ascoltavo il suo sdegno mi chiedevo come mai non scendesse lui per primo in piazza.
Intanto però lei è qui sull’Aventino.
In estate tornerò nel mio paese, e la mia testimonianza avverrà attraverso quello che scrivo. Io credo che ognuno debba fare la propria parte, secondo i propri talenti e la cultura specifica: sono sempre perplesso di fronte a coloro che si improvvisano esperti di qualunque tema, a cominciare dalla politica sino all’economia e la sociologia.
Come mai ha scelto Roma anziché Milano o un’altra città?
Forse è meglio partire dal perché ho scelto l’Italia: erano anni che avevo intenzione di approfondire la conoscenza del paese e studiarne la lingua, e in questi mesi c’è stato un allineamento perfetto dei pianeti a cominciare dal fatto che il mio figlio più grande è andato all’università. Conosco Milano, è la città dove ha sede la Guanda, la casa editrice che pubblica i miei libri in Italia. Ci torno sempre volentieri, non solo per incontrare quel gran signore che è Luigi Brioschi, ma per l’energia e la serietà che la città trasmette. Ho ritenuto tuttavia che si sarebbe trattato di un’esperienza più vicina a quella che vivo quotidianamente a New York. Roma è assolutamente diversa, ed è più simile a Kyoto e a Gerusalemme. Questo non è dovuto solo alla sua storia millenaria o alla stratificazione di culture ed esperienze diverse, ma anche alla serenità che riesce ad avere nel caos e al calore che supera il disordine. Rimango sempre senza parole per la mescolanza dei monumenti della Roma imperiale con quelli barocchi, gli obelischi egiziani e l’urbanistica dei quartieri costruiti durante il Risorgimento. E’ una città meravigliosa e piena di problemi: non è perfetta ma non aspira ad esserlo. E’ impagabile la sensazione di lasciarsi prendere dai suoi tempi e trovare lo spazio e il tempo per lavorare. E goderne, prima ancora della bellezza, dei valori. In questi mesi sto apprezzando come mai prima la famiglia, il cibo i ritmi lenti, cercando di rifuggire dal distacco e il cinismo, che sono i rischi che genera una storia millenaria e una bellezza così evidente.
Nella “Dolce vita” il personaggio di Marcello parla di una palude nella quale è bello affondare.
Mi sembra un giudizio ambivalente, ma per quanto mi riguarda non sono ancora arrivato a questo tipo di consapevolezza. Mi colpisce molto l’aggettivo bello dopo il sostantivo palude.
Gay Talese, che ha voluto sposarsi a Roma proprio in quegli anni, ha definito il modo in cui la città è raffigurata nel film come un “inferno travestito da paradiso”.
Una magnifica definizione, perfetta per il film di Fellini, ma non so se la utilizzerei descrivendo la città nella quale sto vivendo in questi giorni.
Qual è l’elemento che l’ha colpita maggiormente da quando è arrivato?
E’ una città fieramente religiosa, come le altre due che ho citato. A Roma anche un ateo o un anticlericale è costretto a confrontarsi con la religione, non solo per la presenza del Vaticano e San Pietro con il suo “cupolone”.
La chiesa opera sub specie aeternitatis.
Si percepisce anche questo, ed è un elemento che affascina, arricchisce e dà una nuova prospettiva a chi come me proviene da un paese caratterizzato dall’energia della gioventù e vive ancora in una dimensione epica.
Cosa ha la Vecchia Europa, come la definì con dileggio Donald Rumsfeld, rispetto all’America?
L’idea di piazza, o meglio agorà, che prevale su quella di grattacieli impermeabili al suono. Il calore della condivisione e il sistema di valori a cui accennavo prima, dove non viene sacrificato tutto per il denaro o l’efficienza. Solo per fare un esempio: lo slow food è meglio del fast food.
Secondo lei esiste qualcosa che gli italiani non capiscono di loro stessi?
Nelle settimane precedenti al mio trasferimento, molti amici mi mettevano in guardia dal caos, l’inefficienza burocratica e le inevitabili frustrazioni che esse comportano. C’è ovviamente del vero, ma questa serenità nel disordine è l’altra faccia della medaglia di ciò che rende gli italiani speciali. Passeggiando per la città insieme a mia moglie Greta, rimaniamo colpiti da come siano ancora aperti molti cantieri, nonostante il Giubileo sia iniziato da tre mesi: a New York sarebbe assolutamente inconcepibile, perché l’efficienza viene sempre messa al primo posto. C’è da chiedersi però se non finisca per diventare un totem. Per rispondere alla sua domanda, mi sembra che spesso gli italiani non percepiscano la condizione felice in cui vivono, e lo dico ricordando che nella nostra dichiarazione di indipendenza viene garantita “the pursuit of happiness / la ricerca della felicità”. A volte ho l’impressione che noi americani non la cerchiamo nel modo giusto mentre in questo paese c’è la possibilità di goderla eppure non se ne ha la consapevolezza.
Da oltre due anni l’Italia è governata da una coalizione di destra: c’è una parte dell’opposizione che sostiene che di fatto ci sia il fascismo, o quantomeno il rischio autentico di una deriva autoritaria. Che idea si è fatta? E’ d’accordo?
La prima cosa che mi ha colpito è che è stata la destra, e non la sinistra, a fare eleggere una donna giovane primo ministro. Da straniero mi mancano molti elementi per dare un giudizio approfondito, ma la sensazione è quella di scelte politiche che esaltano i principi cardine della destra, a cominciare dall’identità e la patria. Non mi sembra tuttavia di trovarmi in uno stato oppresso dal fascismo o da una qualunque dittatura: una decina di giorni fa c’è stata una grande manifestazione organizzata in assoluta libertà da un giornale di opposizione, e da quando sono arrivato ho visto molti altri segni di protesta. Così come mi capita di vedere in televisione trasmissioni schierate con veemenza contro il governo. Tutto ciò sarebbe inconcepibile se ci fosse veramente il fascismo.
Capovolgiamo la prospettiva: cosa ha l’America che non ha l’Europa?
Oltre all’energia della gioventù, ha il potere, non solo economico. La capacità di creare e imporre tendenze, anche culturali, e soprattutto un patrimonio unico come la diversità: razziale, culturale e religiosa.
Ritiene che tutto ciò cambierà con Trump?
Il suo obiettivo è “rendere l’America nuovamente grande”, e certamente farà di tutto perché il potere e la capacità di imporre tendenze venga addirittura amplificato. Per quanto riguarda la diversità, ha ripetutamente dimostrato di cambiare la propria linea per ottenere i risultati che si è prefissato. Da questo punto di vista potrebbe riservarci alcune sorprese.
Quali sono a suo avviso i libri che Trump dovrebbe leggere per capire meglio cos’è l’America che è stato chiamato a governare e rappresentare?
Più che un libro mi viene in mente il discorso che fece Barack Obama a Philadelphia quando lanciò la sua candidatura a presidente. Credo sia stato uno dei suoi migliori discorsi, perché è pieno di sfumature, di rischi e quindi di vulnerabilità, su quanto sia complicata la storia americana e come ogni progresso sia stato conquistato attraverso passaggi dolorosi. La forza di quel discorso è nel riconoscere i limiti, propri e persino dei propri progetti. Dubito fortemente che Donald Trump si metta a leggere un discorso di Barack Obama, ma ritengo che ne sarebbe arricchito.
E quali libri dovrebbe invece rileggere per capire l’Europa che sta demonizzando?
Mi sembra evidente che non abbia alcun desiderio o curiosità di leggere i libri. Ma è importante inquadrare ciò all’interno di una situazione culturale che investe l’intero paese: la percentuale dei libri non di lingua inglese sul mercato americano sfiora il 4 per cento. Stiamo parlando di traduzioni, e fa impressione constatare che in Europa la percentuale delle pubblicazioni in una lingua diversa da quella dei singoli paesi è mediamente del 40 per cento, dieci volte tanto. Quindi purtroppo non c’è nulla di troppo sorprendente: Trump rappresenta un’insularità prettamente americana.
Ai piedi della statua della libertà è posta la poesia “Il Nuovo Colosso” di Emma Lazarus, che dice “Date a me le vostre stanche, povere masse oppresse e soffocate / che bramano di respirare libere, / I miserabili rifiuti delle vostre sponde brulicanti. / Mandate costoro, i senza-patria, sbattuti dai marosi a me. / Io qui levo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro”. Mi sembra evidente che questa amministrazione si stia muovendo in direzione opposta, negando un pilastro fondamentale della promessa americana.
Non si può che inorridire di fronte alla recente foto di Kristi Noem con alle spalle gli immigrati clandestini dietro le sbarre. Anche non volendo infierire sull’orologio costosissimo che esibiva in quell’immagine, non si può non rimanere sgomenti su quello che significa una foto del genere, proprio in relazione alla promessa americana a cui faceva riferimento: ne rappresenta senza mezzi termini il tradimento. Tuttavia dobbiamo partire proprio dal rapporto tra questa immagine terribile e dalla poesia di Emma Lazarus per fare una serie di considerazioni: quella promessa è stata sempre mantenuta? O si tratta invece di un obiettivo mitico a cui aspirare? Non c’è alcun dubbio che l’America abbia accolto le emigrazioni come nessun altro paese e con assoluta apertura, e io ne sono testimone in prima persona: i miei antenati sono sfuggiti ai pogrom sovietici e alle persecuzioni naziste, mostruosità avvenute nella civilissima e colta Europa. Ma gli Stati Uniti sono un paese ancora in fieri, e come tutti i grandi imperi, a cominciare da quello romano, si è affermato anche nel sopruso sanguinario, pensa al genocidio degli indiani e alla schiavitù, anche se in questo ultimo caso non si deve dimenticare che era in uso in Europa, e che in alcuni paesi l’abominio della schiavitù è rimasta in vigore dopo che è stata abolita in America attraverso la guerra civile. La seconda osservazione da fare è che il numero di deportati durante le amministrazioni Obama e Biden è superiore a quello della prima amministrazione Trump: la differenza è nell’esibizione mediatica, simbolica, terribilmente simbolica. Se nel primo caso c’è molta ipocrisia, in questa amministrazione c’è un elemento di violenza che atterrisce. Quello che io temo è una radicalizzazione che conduca all’esplosione di episodi di violenza: non si può dimenticare la profanazione di Capitol Hill, dove sono morte varie persone e si è stati a un passo dall’uccisione del vicepresidente Pence, “colpevole” di aver certificato i risultati elettorali sfavorevoli a Trump. Viviamo in un’epoca di grande incertezza, nella quale invece di capire le motivazioni e le ragioni di chi si oppone a noi, tendiamo ad essere tutti binari: il bene da un lato e il male dall’altro.
Uno degli effetti di questa situazione è un rigurgito di antiamericanismo.
E’ un fenomeno che in realtà è stato sempre presente e nasce dal fatto che l’America è il paese più potente del pianeta. E si tratta di un fenomeno rozzo, volgare e violento come l’immagine degli americani immaginata da chi li detesta. In questo momento è certamente molto più difficile apprezzare quello che il paese offre sul piano della libertà e delle opportunità: c’è chi non riesce a distinguere i cittadini dal leader del momento e chi non vuole farlo. Conosco degli studenti israeliani che per paura evitano di parlare ebraico nei campus di New York: ovvio che il definanziamento della Columbia è un atto grave ma non si può negare che ci siano stati episodi di violenza antisemita. Mi auguro che non succeda mai che un americano abbia paura di parlare la propria lingua.
Nel cosiddetto Signal-gate emerge l’idea di un’America che considera l’Europa “parassitaria”.
E’ l’America più reazionaria che la pensa così: quel mondo insulare che non partecipa alle conversazioni globali e ne ignora la storia piena di contraddizioni ma comunque gloriosa. A proposito di antiamericanismo, mi ha colpito come è stato riportato un passaggio della famosa chat: il vicepresidente ha detto che odia “bail out” l’Europa e in molti, anche in Italia, hanno tradotto “odio salvare l’Europa”, mentre l’espressione significa “pagare il conto per”. E’ molto più che una sfumatura: salvare è un’azione nobile, mentre è naturale che pagare il conto per altri generi irritazione.
Non crede che uno degli elementi del trumpismo sia una reazione rozza e violenta agli eccessi della correttezza politica e della cultura woke?
C’è certamente qualcosa di vero, e non c’è dubbio che qualcosa nato con le più nobili intenzioni abbia generato degenerazioni grottesche, censorie e insopportabili. La reazione è stata ed è tuttora violenta e ha finito per radicalizzare entrambe le parti. Prima parlavamo del rapporto fra Trump e la letteratura, ma credo che sia un’impostazione superata dai tempi: per tentare di comprendere il fenomeno Trump bisogna rifarsi ai social media, che lui utilizza in maniera straordinariamente efficace. Mai come nel suo caso il messaggio è il mezzo con tutto ciò che esso comporta come semplificazione culturale. Rispetto alla lettura di un libro, che stimola la sensibilità e il dubbio, preferisce il messaggio apodittico, che propone, anzi impone certezze. O l’immagine, basta pensare alla foto ufficiale della Casa Bianca, dove si è fatto riprendere con un’espressione torva e minacciosa, qualcosa di impensabile prima di lui. In questi giorni assistiamo a una radicalizzazione del mondo liberal intorno ad Alexandria Octavio-Cortez, la quale a sua volta sa utilizzare con molta efficacia i social media, ma non illudiamoci che anche nel suo caso non si vada incontro a semplificazioni e all’affermazione di certezze.
Non crede che uno degli elementi della sconfitta della sinistra sia la percezione dell’elitismo di quel mondo?
E’ certamente un altro problema, che va di pari passo con l’abilità con cui Trump ha conquistato le classi meno abbienti. Una parte consistente del suo elettorato è parte di un mondo che vive al confine della disperazione in un paese che sta cambiando anche demograficamente: tra pochi decenni lo spagnolo sarà più parlato dell’inglese e già da ora ciò ha generato xenofobia e razzismo. Io credo che quel mondo, che ritiene che le promesse di Trump aprano le porte alla loro rivalsa sociale, finisca per votare contro i propri interessi, ma l’atteggiamento giusto è quello di saperlo capire e interpretarne le aspirazioni e i bisogni. L’opposto di quello che fece Hillary Clinton, la quale rivelò il suo elitismo definendo gli elettori di Trump “deplorevoli”: non solo un gravissimo errore politico, ma un atto moralmente sbagliato e in una sola parola stupido.
Una delle grandi novità di questa amministrazione è la presenza di Elon Musk: non crede che porti con sé il rischio di uno stravolgimento strutturale del tessuto del paese?
Stiamo parlando di una persona che non è stata eletta e appare più potente dello stesso presidente. Il suo obiettivo è quello di eliminare il governo, e questo è allarmante, anche al netto degli eccessi di regole e di sprechi: il rischio è che si uccida il malato invece di curare il male. E non dimenticherei un altro elemento di cui non si parla molto: Elon Musk è un uomo bianco cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid.
Come molti altri potentissimi miliardari, Musk era schierato a sinistra sino a pochi mesi fa.
Infatti mi fa sorridere la loro improvvisa demonizzazione. La fedeltà di questi personaggi è nei confronti degli interessi e dei guadagni: si chiama capitalismo, un sistema che è stato sposato dalla destra come dalla sinistra.
Nel suo discorso inaugurale Ronald Reagan disse che “il governo non rappresenta la soluzione al problema, ma il problema stesso”.
Questo avveniva 45 anni fa e testimonia come questo modo di pensare sia una costante dei governi repubblicani. Tuttavia quanto sta avvenendo oggi con Musk e Trump ha modi e dimensioni estremamente più brutali significativi: personalmente, penso che il governo sia nello stesso tempo la soluzione e il problema.
Esistono oggi ancora dei temi e delle battaglie che si possono identificare con la destra e la sinistra?
Certo, a fronte di quanto abbiamo appena detto sulla destra relativa all’esaltazione dell’individuo sulla società e la tendenza a minimizzare il governo, abbiamo dall’altro lato temi prettamente di sinistra: la difesa dell’ambiente, i diritti delle donne e delle minoranze, l’assistenza medica e la difesa del welfare.
Su alcuni temi che sono da sempre una bandiera della sinistra, quali ad esempio l’aborto, lei ha assunto una posizione di dialogo.
Personalmente sono per la libertà di scegliere, ma ho il massimo rispetto per chi non la pensa come me e ritiene che con un aborto di fatto si sopprima una vita. E’ lo stesso atteggiamento che cerco di tenere anche nei confronti della mia scelta vegetariana. Come sa, ne ho scritto a lungo, e credo che sia più che un grande errore continuare a cibarsi di animali. Ma non me la sento di impedire a una persona di mangiare una bistecca, e, per rimanere nel campo dei danni che facciamo all’ambiente, io sono il primo a utilizzare costantemente gli aerei. Non si tratta solo di una questione di rispetto, tolleranza o consapevolezza dei miei limiti: viviamo in un mondo corrotto che abbiamo reso ancora più imperfetto e nei confronti del quale non possiamo seppellire i nostri talenti, che portano sempre con sé responsabilità.
Ritiene che l’America abbia gli anticorpi per contrastare la rivoluzione trumpiana?
Vorrei dirle di sì, ma non ne sono del tutto convinto. Finora i giudici sono riusciti a contrastare i suoi ordini esecutivi, e mi ha colpito che anche la Corte Suprema in alcuni casi si sia opposta, nonostante ben tre dei giudici siano stati nominati proprio da Trump. Questo è un segnale molto valido e promettente, tuttavia vedo toni e azioni sempre più minacciose, e nella popolazione sta crescendo un sentimento che nell’immediato si identifica nella paura di perdere il posto e nel futuro può degenerare in violenza.
