
(LaPresse)
tecnodestra e maga
I Big tech che puntavano sull'America first di Trump ora pagano il suo protezionismo
Gioielli tecnologici, a causa dei dazi e delle ostilità nelle relazioni internazionali, rischiano di contare problemi produttivi e di rimanere senza mercato extra-Usa. Musk e gli altri leader della tecnodestra americana, immaginavano di potersi sfamare al banchetto dell'America first ma forse non sarà così
Persino i Maga più oltranzisti hanno vacillato nel sentire il segretario al Commercio, Howard Lutnick, affermare testualmente in un’intervista con la Cbs che l’Amministrazione Trump avrebbe riportato negli Stati Uniti la manifattura di device tecnologici, oggi realizzati in minuscole cellette da lavoratori che versano in condizioni inumane. L’idea di trasformare i blue collar statunitensi in schiavi assemblatori di smartphone, come maldestra vendetta contro la globalizzazione, è parsa un po’ troppo persino ai trumpiani ortodossi. Ma la gaffe, chiamiamola così, di Lutnick è solo la punta emersa di una spaccatura tra visioni radicalmente dissonanti all’interno del governo Usa e che sta producendo vibrante malcontento in quel complesso tecno-industriale che ha sostenuto Trump conducendolo alla rielezione.
Le realtà del Tech, che in certa misura si sono fatte esse stesse parte integrante dell’attuale Amministrazione, masticano amaro, dissanguano i loro patrimoni e vedono contrarsi le prospettive contrattuali extra-americane. E con loro, i convertiti sulla via del trumpismo che, dal ventre della Silicon Valley, immaginavano di potersi sfamare al banchetto dell’America First. Molti dei miliardari sostenitori di Trump ritenevano che una politica muscolare, innervata in un incandescente scenario internazionale, avrebbe innescato una dinamica accelerata e convergente verso innovazione tecnologica e armamenti. Una dinamica che li avrebbe favoriti, potendo essi contare su un notevole vantaggio competitivo. Questo vantaggio avrebbe consolidato la dipendenza tecnologica, devoluta alla difesa e alla sicurezza nazionale, di molti paesi nei confronti di realtà americane; si pensi a un gigante della connettività, anche a uso militare, come la muskiana Starlink, al produttore di droni autonomi Anduril che dal 2024 ha saldi rapporti con la tedesca Rheinmetall e con il governo inglese, o ai servizi offerti dal colosso Palantir che già opera in Europa.
Il mercato europeo è estremamente appetibile per le realtà americane, non solo piattaforme social, specialmente ora che i venti di guerra schiudono nuove potenziali miniere d’oro. L’umorale inaffidabilità trumpiana però, culminata in conflitto commerciale, ha spinto l’Unione europea a un brusco cambio di rotta e il fondo Safe, una delle parti salienti del piano di finanziamento per il riarmo europeo, va a privilegiare con una clausola Europe First l’approvvigionamento nei confronti di produttori localizzati in Europa e considerati affidabili. Da qui, l’idea di Anduril di ubicare proprie linee di produzione anche nel Regno Unito. Due infatti sono i fronti su cui i giganti americani del “capitalismo politico”, per usare l’espressione di Alessandro Aresu, si stanno già orientando; i droni e gli oceani. Nella guerra iper-tecnologizzata del futuro, nel generale quadro di ecosistemi geopolitici contraddistinti dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, chi non avrà il dominio della connettività, della produzione di droni e del mare rischia di divenire un mero vassallo. Non per caso, Anduril, oltre ai droni, ha appena presentato Seabed Sentry, un sottomarino autonomo per la protezione delle infrastrutture critiche oceaniche. Gioielli tecnologici che a causa di dazi e ostilità nelle relazioni internazionali rischiano di scontare problemi produttivi e di rimanere senza mercato extra-Usa, uno smacco per società che, pur solide government contractor, hanno altro genere di ambizioni su scala planetaria e, nel caso di Starlink e SpaceX, interplanetaria.
In questa prospettiva vanno lette le ultime esternazioni di Elon Musk. Prima al congresso della Lega, dove il miliardario a capo del Doge ha auspicato la creazione di un’area a dazi zero per il commercio tra Usa e Unione Europea, e poi su X dove ha postato il celebre video di Milton Friedman che spiega, attraverso la composizione materiale di una matita, quanto i dazi siano nocivi, visto che la produzione di un bene in un’economia globale è collaborativa e interconnessa. Lo sa bene Musk: Tesla, ad esempio, è fortemente legata a Giga Shanghai, complesso cinese che secondo la stessa Tesla avrebbe capacità di produzione di 750 mila veicoli su base annua. Musk e con lui gli altri Big della tecnodestra americana rischiano di pagare a caro prezzo il protezionismo trumpiano, sorta di perfezionata metafora dell’apprendista stregone a cui la materia animata sfugge dalle mani. Fino al cambio di rotta o all’inevitabile redde rationem.

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