
(foto EPA)
L'editoriale dell'elefantino
Trump e la banalità dello schifo
Nell’indecenza stilistica del presidente degli Stati Uniti c’è l’uomo stesso, il suo ruolo pubblico, il suo programma
Questa storia che a Trump gli baciano il culo per ridurre i dazi, come lui afferma con orgoglio, è molto più di una indecenza stilistica o un obbrobrio retorico, è l’uomo stesso, il presidente, il suo aureo programma, la sua relazione profonda con la nazione che lo vota e crede in lui. Nei discorsi da spogliatoio, come sa chiunque abbia visto Al Pacino in azione in “Ogni maledetta domenica”, e nei witty banters che fanno scintillare la conversazione, c’è molta buona cultura. In Trump, quando allude al ciclo mestruale di una giornalista sgradita, quando sfotte un portatore di handicap, quando chiama shitty holes certi stati africani disgraziati e poveri, quando teorizza che la donna va afferrata per la pussy (primo mandato), si realizza al massimo grado quel meccanismo di prepotente disprezzo che consegna la politica alle passioni tristi dell’odio e della più patologica e scurrile mania. Trump sa all’occasione essere buffo senza conseguenze imbarazzanti per lui e per gli altri. Come scritto in altra occasione esiste in quel riassunto umano della volgarità universale un lato comico, il lato comico dell’Apocalisse, una vena alla Mel Brooks o alla Woody Allen o alla Groucho Marx.
Ma il presidente che trasforma l’America e vuole cambiare il mondo si stanca presto del sublime comico e lo rovescia appena può nella gradassata più convenzionale, nella sporcatura lessicale più vieta, nella banalità dello schifo. Perché lo fa? Alla base del fenomeno c’è il suo opposto, l’estrema e ridondante pulizia moralistica e il fascino discreto della buona retorica di cui sono impregnati i suoi avversari nella caccia al consenso. Quando il vice della corsa sfortunata della Harris, Walz, Tim Walz del Minnesota, aveva detto che Trump e i suoi sono gente strana, weird, aveva ragione, e la definizione per un millesimo di secondo era sembrata spiritosa, elegante, efficace. Ma se vi prendete la pena e la gioia di leggere il discorso di Barack Obama alla Hamilton School, capirete subito che l’estremo contegno, la compostezza mentale, la buona moralità e l’equilibrio del prototipo del politico democratico diversity, equality, inclusion sono il punto di forza e di debolezza insieme della classe dirigente travolta dal trumpismo peggiore, che è l’unico che c’è in effetti, perché di quello migliore risponderanno i risultati, altamente questionabili, delle sue politiche, comunque correlative al suo linguaggio anche quando mettono il mondo nei pasticci, la democrazia americana alle strette e l’Ucraina eroica alla mercé di Putin.
Obama per candidarsi in anticipo alla presidenza fece un discorso da sogno alla convention dei democratici, e scrisse un paio di libri fenomenali sulle proprie origini familiari, due Bildungsroman alla portata del lettore adulto. Per essere rieletto si affidò a Eric Schmidt, l’ingegnere capo di Google magnificamente raccontato da Giuliano da Empoli nel suo recente “L’heure des prédateurs” sui re del mondo digitale. Trump scese la scala mobile di un grattacielo d’oro che devasta il profilo già discutibile della Quinta strada con il suo tratto egomaniacale, cominciò a diffondere lo spregio per un’America che non esiste e l’amore per un’America che purtroppo esiste, e si considerava non a torto dimenticata, in coerenza con l’idea che il suo predecessore (Obama) era uno straniero illegittimo alla Casa Bianca, coronata poi dall’idea che il suo successore del primo mandato (Biden) era un golpista che meritava di essere impiccato a un albero. Alla Hamilton School, Obama ricorda i valori comuni dell’Ancien régime repubblicano e costituzionale, tra questi lo stato di diritto, la tolleranza, la laicità dello stato e la condivisione di un tratto comune del campo amico-nemico, la terra di tutti e di nessuno, mentre l’uomo che conquistò il paese sventurato anche per la fragile compostezza e il leading from behind dei democratici obamiani, non privi di sussiego e supponenza, così diversi dalla bella esperienza della banda sudista di Bill Clinton, accoglie i negoziatori eventuali dei dazi con quella bella frase sul culo baciato. Purtroppo il confine è quello tra decenza e indecenza, ma anche tra inefficacia, bolsaggine, e una tremenda capacità di rivoltare le viscere risentite di un paese in aurea decadenza.

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Fra politica e pericoli