
Foto ANSA
La stragegia
Tutto quello che noi economisti non capiamo quando si parla di Trump
Ai suoi elettori ha raccontato storie inventate e accattivanti, mantenute vive proprio grazie ai dazi. Se l’economia americana arretra a lui non importa, purché il suo elettorato non se ne accorga e rimanga miope
La decisione dell’amministrazione Trump di imporre dazi praticamente a tutto il mondo ha gettato nello sconcerto, tra tante altre, una specifica categoria di distinte persone: gli economisti. Tutti gli economisti del pianeta strabuzzano gli occhi e non si capacitano di come il governo del più grande e potente paese della Terra possa essere diventato improvvisamente così analfabeta nelle materie economiche. È noto da almeno due secoli come le guerre commerciali protezionistiche facciano del male a tutti, a cominciare da coloro che le scatenano. Il “male” in questione riguarda il benessere economico collettivo, cose come la progressione della ricchezza e del prodotto, la stabilità dei prezzi, insomma tutto ciò che sta a cuore agli studiosi e ai praticanti di economia. La teoria del commercio internazionale è una delle branche più antiche e nobili della teoria economica. Il risultato più consolidato e condiviso di quella teoria è notissimo: il libero commercio internazionale, dunque privo di barriere sia tariffarie sia non tariffarie, è la migliore delle condizioni possibili per tutti i partecipanti. Per il loro benessere economico presente e futuro.
Però, già un grande economista del passato, Albert Otto Hirschman, aveva chiarito in un libro che scrisse a trent’anni, nel 1945, come il commercio internazionale potesse anche essere un’arma per affermare il potere di una nazione, politico o militare, indipendentemente da obiettivi economici. Non ebbe molto seguito. Qualche anno fa, ispirandosi alle idee di Hirschman, è nata la geoeconomia, una corrente di pensiero che innova in parte la vecchia teoria del commercio internazionale. Sta appena muovendo i primi passi, solo due mesi fa l’American Finance Association le ha dedicato una sessione apposita del suo congresso annuale. La geoeconomia vorrebbe spiegare anche quello che sta accadendo negli Stati Uniti, ma i modelli generali che costruisce mal vi si prestano.
Il punto di partenza di quei modelli è comunque che, nel perseguire obiettivi politici, un governo può servirsi di strumenti che agiscono sul terreno dell’economia senza badare agli effetti sull’economia stessa. Per quel che si capisce, Trump ha un solo obiettivo in mente: mantenere il sostegno del suo elettorato, a cui ha promesso che avrebbe reso di nuovo grande l’America. Questo slogan è basato su una falsità economica, perché l’America non è mai stata in complesso cosi prospera come fino a qualche giorno fa. Ma quel terzo del paese che costituisce il suo elettorato la prosperità dei finanzieri di New York o dei tecnologi della Sylicon Valley non la vede. Vede invece che la vecchia industria automobilistica deperisce, che il mais non si vende più facilmente come prima, che la propria modesta condizione sociale è minacciata da chi sta un gradino ancora più sotto. A questi suoi elettori Trump ha raccontato storie largamente inventate, ma accattivanti, che deve continuare a raccontare.
Inondare il mondo di dazi serve a mantenere vive quelle storie. Se l’economia americana arretra a lui non importa, purché il suo elettorato non se ne accorga. E non se ne accorgerà, anche quando la spesa al supermercato sarà più cara. I modelli degli economisti contemplano tutto questo? No, perché immaginare che il governo di un grande paese si serva di azioni economiche per alimentare un’illusione collettiva non è concepito da quei modelli. Qualche decennio fa si diffuse una corrente di pensiero economico detta “political economy”, che ambiva a spiegare all’interno di quei modelli anche il comportamento individuale degli agenti politici. Ma mai essa è giunta all’estremo di immaginare che questi ultimi potessero consapevolmente ignorare le conseguenze economiche delle loro azioni, anche quando catastrofiche, avendo reso i propri elettori del tutto miopi di fronte a esse, almeno per un lungo tempo.


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