nella testa del presidente

A Trump, semplicemente, piacciono i dazi

Luciano Capone

A destra è diffusa la narrazione che la strategia della Casa Bianca sia quella di arrivare a una riduzione reciproca delle tariffe. Non è così. Anche con la "sospensione", gli Stati Uniti sono ora il paese con i dazi più alti al mondo, sopra Iran e Venezeula

“Questi paesi ci stanno chiamando per baciarmi il culo. Muoiono dalla voglia di fare un accordo”, aveva detto Donald Trump. Poche ore dopo, come brillantemente sintetizzato da un titolo dell’Huffington Post, è stato Trump a “baciare il culo ai mercati”. La sospensione per 90 giorni dei dazi, oltre la soglia minima del 10% (tranne la Cina, colpita con aliquota al 145%), è certamente un segno di debolezza della Casa Bianca. Ma non per tutti. Per molti altri a Washington è un segno di speranza: che la guerra commerciale, che per ora ha provocato una fuga da Wall Street e dai Treasury, dissanguando i risparmiatori e mettendo pressione sul debito americano, possa fermarsi. La reazione positiva dei mercati ne è, appunto, la conferma.

Ma per molti sostenitori di Trump non c’è stato alcun errore: il caos di queste settimane è solo strategia. Nel mondo repubblicano è diffusa la tesi che in realtà Trump i dazi voglia ridurli. E come per ogni altro fenomeno politico-culturale americano, anche questa narrazione viene riproposta nella provincia dell’impero, cioè in Italia, fra chi tenta di giustificare le politiche trumpiane. La linea è grosso modo questa: Trump mette i dazi “reciproci” perché tutti gli altri paesi, a partire dall’Unione europea, hanno dazi molto più alti nei confronti degli Stati Uniti.

Ted Cruz, influente senatore repubblicano del Texas, dice che Trump dovrebbe usare la sua leva negoziale e la sua proverbiale Art of the deal per ridurre le barriere: “La riduzione reciproca dei dazi doganali in patria e all’estero rappresenterebbe una grande vittoria per il presidente Trump e l’America”.
Arthur Laffer e Stephen Moore, due economisti di area repubblicana e trumpiani di ferro (sono gli autori di Trumponomics e di The Trump Economic Miracle), hanno scritto sul Wall Street Journal che l’Europa e la Cina sono ipocrite a lamentarsi perché impongono dazi più alti degli Stati Uniti, ma che Trump dovrebbe evitare di infliggere all’economia i danni del protezionismo già provati sotto Herbert Hoover e Richard Nixon. E come se ne esce? “Trump dovrebbe tenere un discorso televisivo globale annunciando al mondo che gli Stati Uniti sono pronti ad azzerare dazi e sussidi industriali domani stesso su qualsiasi nazione che faccia lo stesso. Sarebbe la politica tariffaria reciproca definitiva. Il presidente Trump e gli Stati Uniti riacquisterebbero la superiorità morale nelle controversie commerciali”. 

Laffer e Moore, usando parole dolci, offrono al presidente una via d’uscita dignitosa dal vicolo cieco in cui ha infilato l’economia statunitense e mondiale. Ma difficilmente la imboccherà. Perché il Trump pro free trade non è mai esistito. È stato sempre molto chiaro: “Dazio” per lui non è solo la parola più bella del dizionario, ma anche lo strumento di politica economica buono per tutti i problemi: fisco (taglio delle tasse), geopolitica (confronto con la Cina), sicurezza (immigrazione e fentanyl con Messico e Canada). 

Lo scopo di Trump non è mai stato ridurre i dazi globali attraverso la “reciprocità”, il principio che ha guidato la politica commerciale americana per 80 anni, da Franklin D. Roosevelt a Barack Obama. Nei “dazi reciproci” di Trump non c’è reciprocità. Li ha imposti a tutti, indistintamente, con un minimo sindacale del 10%. Anche a paesi alleati come l’Argentina, l’Australia e il Regno Unito che hanno un deficit commerciale con gli Stati Uniti. O paesi come la Svizzera e Singapore, che hanno dazi molto più bassi dell’America. Per giunta, la proposta di abbassare reciprocamente i dazi è esattamente quella che è stata avanzata da vari paesi a Trump per uscire dalla crisi. Lo ha fatto, per esempio, il Vietnam. Ma è anche l’offerta “zero per zero” di Ursula von der Leyen: azzerare i rispettivi dazi. Ma la proposta dell’Ue è stata respinta durante il negoziato prima del 2 aprile.

L’altroieri i mercati hanno tirato un sospiro di sollievo, ma ieri hanno perso di nuovo il 4%. La prospettiva cambia molto se, dopo aver scontato l’inquietante punto di arrivo, si guarda il punto di partenza. Gli Usa avevano un dazio ponderato medio del 2,2%, ora sono arrivati al 24%. Anche considerando “solo” quelli generalizzati del 10%, sull’acciaio e sulla Cina, si arriva a un’aliquota media del 15%: “Questo rende gli Stati Uniti il ​​paese con i dazi più alti al mondo, superando Iran e Venezuela”, ha scritto l’economista Jason Furman sul Financial Times. 

L’obiettivo dichiarato e perseguito da Trump era smantellare il commercio internazionale, e l’unica conseguenza che la sua azione politica potesse produrre era una reazione analoga da parte degli altri paesi. Cosa che in parte si è verificata. Il negoziato ora può servire solo a limitare i danni: è impossibile tornare allo status quo ante, figurarsi arrivare a una situazione migliore di prima. Con buona pace dei liberali per Trump, una marcia indietro sui dazi dipende più dalle pressioni dei mercati e dell’elettorato americano che dalle offerte del resto del mondo nei negoziati bilaterali.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali