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de-dollarizzazione
I dazi di Trump, la fuga dai Treasury e l'opportunità per l'Europa
La retromarcia del tycoon non mette al riparo dalla guerra commerciale. L'emissione di nuovo debito europeo per difesa, transizione verde e infrastrutture può offrire valide alternative di investimento, promuovendo l'euro come nuova valuta di riserva
La deflagrazione del “liberation day” e la successiva retromarcia di Donald Trump hanno mobilitato eserciti di analisti a caccia di un senso economico nella guerra commerciale. Le scelte del presidente degli Stati Uniti cambiano continuamente, ma da qualche ora sono ferme a un dazio del 104 per cento sui prodotti cinesi e la sospensione per novanta giorni delle tariffe sugli altri paesi, fatto salvo il limite minimo del 10 per cento per tutti, che sale al 25 per cento per dei settori specifici.
Per cominciare, bisogna chiedersi quale sia l’esito ideale di questa prima ondata di dazi, rappresaglie e ripensamenti dal punto di vista dell’amministrazione americana. Una possibilità è che Trump voglia avviare negoziati bilaterali, promettendo dazi più leggeri in cambio della rinuncia a ritorsioni e di concessioni politiche ed economiche. Questo scenario è possibile, ma sembra poco probabile alla luce delle conseguenze dei dazi sull’economia statunitense. I partner internazionali hanno certamente molto da perdere, ma sono consapevoli del fatto che gli Stati Uniti, in una guerra commerciale con il resto del mondo, rischierebbero danni ancora più significativi. Sono già pronte contromisure credibili, tra cui ritorsioni e nuovi accordi multilaterali – come quello storico in costruzione tra Cina, Corea del Sud e Giappone. Inoltre, nel breve periodo, la contrazione della domanda statunitense di valuta estera, dovuta alla prevista riduzione delle importazioni, comporterebbe un deprezzamento dell’euro. Gli effetti positivi per la competitività dell’industria europea attenuerebbero almeno in parte i danni provocati dai dazi. In altri termini, la comunità internazionale sembra aver percepito la natura fragile e rischiosa del bluff trumpiano.
Lo scontro potrebbe evolvere secondo due traiettorie principali. La prima contempla una sostanziale retromarcia da parte di Trump, accompagnata dall’introduzione di dazi mirati e circoscritti a specifici settori e una guerra commerciale con la sola Cina. La sospensione dei dazi di ieri sera può indurre a credere che questa ipotesi sia verosimile, ma lo scenario è probabilmente più complicato, come suggerisce il “panico” finanziario degli ultimi giorni.
La seconda possibile traiettoria degli eventi in corso contempla un inasprimento della guerra commerciale, con una seconda ondata di ritorsioni e contro-ritorsioni. Questa strategia si fonda sulla convinzione – esplicitata da Stephen Miran, capo del Council of Economic Advisers di Trump – che il resto del mondo debba compensare gli Stati Uniti per il ruolo di valuta di riserva svolto dal dollaro. Un paese la cui valuta funge da moneta di riserva globale deve necessariamente registrare disavanzi delle partite correnti, in modo da fornire liquidità al resto del mondo. I paesi in surplus commerciale reinvestono i guadagni derivanti dal commercio acquistando asset statunitensi sicuri, come i titoli del Tesoro, agevolando il finanziamento della spesa pubblica al costo di una sopravvalutazione strutturale del dollaro, cui si accompagna l’erosione del sistema manifatturiero americano. Nelle intenzioni, la guerra dei dazi vorrebbe spezzare questo circuito, costringendo i partner commerciali a finanziare la spesa americana senza compromettere la competitività internazionale delle imprese statunitensi.
I dazi, tuttavia, sono uno strumento coercitivo poco efficace. Anche se in teoria un loro aumento – fino ai livelli estremi stabiliti verso la Cina – è tecnicamente realizzabile, le conseguenze sarebbero tali da rendere l’opzione economicamente e politicamente insostenibile, perfino per un presidente che mostra di non tenere in particolare considerazione il rischio di cali di popolarità.
E’ più probabile che l’Amministrazione voglia integrare la guerra tariffaria con sanzioni finanziarie – dal congelamento degli asset all’esclusione dal sistema dei pagamenti – come è stato suggerito da alcuni portavoce della Casa Bianca. Questa possibilità spiega la fuga di capitali dagli Stati Uniti cui abbiamo assistito fino a ieri sera, il deprezzamento del dollaro, e l’impennata ai massimi storici degli indicatori di incertezza finanziaria. Anche se la probabilità di un esito simile è contenuta, è sufficiente perché gli investitori rivedano le proprie posizioni sui Treasury Bond statunitensi, finora bene rifugio per eccellenza a livello globale. Nel nuovo equilibrio che si sta delineando, la prospettiva di sanzioni finanziarie ha reso i Treasury Bond meno attraenti per gli investitori internazionali, che se ne sono liberati in massa causando un aumento drastico dei loro rendimenti.
E’ proprio la fuga dai titoli americani ad aver determinato l’inversione a U di Trump. Gli economisti della Casa Bianca sembrano aver trascurato che i principali acquirenti di asset statunitensi non sono le banche centrali come un tempo, ma attori privati. Le loro decisioni non rispondono a logiche di riserva di lungo periodo, ma dipendono dai rendimenti finanziari e dalla percezione del rischio, che risentono profondamente dell’incertezza politica.
La fuga dagli asset americani crea un’opportunità per i paesi colpiti dai dazi. Per l’Europa, l’emissione di nuovo debito per finanziare la difesa, la transizione verde e le infrastrutture consentirebbe di offrire valide alternative di investimento in un contesto globale segnato da un’abbondanza di risparmio. Queste dinamiche sosterrebbero l’affermazione di un nuovo equilibrio in cui il sistema valutario sarebbe più diversificato e il mondo avrebbe bisogno di molti meno dollari. Un’eventuale de-dollarizzazione dell’economia mondiale infliggerebbe danni enormi agli Stati Uniti e promuoverebbe l’euro quale nuova principale valuta di riserva. Se, da un lato, Trump vuole indebolire la sua valuta per ridurre il deficit commerciale e rilanciare le manifatture, il presidente ha più volte ribadito la sua determinazione a preservare il ruolo dominante del dollaro.
L’Amministrazione Trump confida di poter evitare lo scenario peggiore attraverso le minacce (dai dazi alle sanzioni finanziarie, senza escludere opzioni più estreme) e il controllo indiretto sui sistemi di pagamento, ma sottovaluta il ruolo ormai preponderante degli investitori privati, che reagiscono all’incertezza in modo molto più rapido e massiccio delle banche centrali. Nonostante il “tramonto” del dollaro resti uno scenario poco probabile non è mai sembrato così plausibile come ora.

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