LaPresse

Trump festeggia, ma la Corte suprema non gli ha dato ciò che vuole

Lorena Evangelista

Tre decisioni in due giorni hanno dato l'impressione che la più alta corte di giustizia americana volesse dare ragione a Trump su questioni cruciali del suo mandato. Ma, nonostante gli entusiasmi Maga, non è esattamente così. Ecco perché

Negli ultimi giorni Donald Trump sembra aver ottenuto dalla Corte suprema alcune vittorie significative su temi simbolici del suo mandato: le deportazioni dei migranti irregolari e i licenziamenti di dipendenti pubblici coordinati dal Doge di Elon Musk. Le cose sono un po’ più complicate di così.


La prima decisione è arrivata lunedì scorso. Il presidente della Corte John Roberts ha sospeso la scadenza, fissata per mezzanotte, per rimpatriare Kilmar Armando Abrego Garcia, erroneamente deportato nella prigione di massima sicurezza di El Salvador lo scorso 15 marzo. Abrego Garcia si trovava negli Stati Uniti da cinque anni, legalmente, ma è stato accusato di appartenere a una gang criminale senza  prove. Si trova adesso in una megaprigione voluta dal presidente salvadoregno Nayib Bukele e diventata simbolo della lotta alla criminalità organizzata. Il Cecot (Terrorism confinement center) ospita gli individui che hanno subito la deportazione di massa ordinata da Donald Trump, il quale si è appellato all’Alien Enemies Act, una legge del 1798 che consente di espellere o arrestare cittadini stranieri perché ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale, senza che vengano processati. Abrego Garcia è tra questi, a quanto pare per un “errore amministrativo” – così ha ammesso l’Amministrazione  – e  non è possibile rimpatriarlo perché adesso si trova sotto la custodia di El Salvador. Ma lo scorso venerdì Paula Xinis, giudice distrettuale del Maryland, aveva ordinato al governo federale di rimpatriarlo entro e non oltre le 23:59 del 7 aprile: il tempo sarebbe scaduto, se la Corte suprema non avesse accolto la richiesta di Trump di una sospensione amministrativa, con la quale la scadenza è stata estesa fino a un pronunciamento definitivo dei giudici.


Ancor più rilevante è la sentenza pronunciata poco dopo: la Corte suprema ha stabilito che il presidente potrà, per il momento, appellarsi all’Alien Enemies Act  per procedere all’espulsione forzata dei migranti irregolari. L’Aea era originariamente parte di un pacchetto di quattro leggi, gli “Alien and Sedition Acts”, con il quale furono introdotte restrizioni sull’immigrazione e sulla libertà di espressione. Sono state tutte abolite nei primi anni dell’Ottocento, tranne quella risultata preziosa per Trump, che riguarderebbe, però, specifiche condizioni di guerra: i cittadini di un paese nemico e in conflitto con gli Stati Uniti possono essere giudicati pericolosi in quanto stranieri e dunque espulsi o arrestati per ordine del presidente. Fino a un mese fa era stata applicata solo tre volte, nel 1812 e durante le  guerre mondiali. Trump l’ha invocata il 15 marzo per autorizzare la deportazione a El Salvador di circa 250 persone sospettate di far parte della gang criminale venezuelana Tren de Aragua. Il giudice di Washington James Boasberg, nell’ambito di una causa intentata dall’American Civil Liberties Union (Aclu), aveva chiesto con un’ordinanza il rientro dei tre voli di espulsione, ma il governo l’ha sostanzialmente ignorata, approfittando della simultaneità degli eventi (gli aerei erano già in viaggio nel momento in cui il giudice si è pronunciato). La sfrontatezza mostrata dall’Amministrazione contro la sentenza di un giudice federale, tra l’altro, ha quasi aperto una crisi costituzionale. E da quel momento l’utilizzo dell’Alien Enemies Act per deportare i migranti è stato bloccato.


Ora la decisione di Boasberg è stata annullata dalla Corte suprema, cui il governo aveva fatto appello. A votare contro sono stati i tre giudici progressisti  e la conservatrice Amy Coney Barrett, nominata da Trump nel 2020 al posto di Ruth Bader Ginsburg, che è stata quindi redarguita da esponenti del mondo Maga (“Amy Commie Barrett”, la chiamano ora). Il presidente ha festeggiato in un post su Truth il  “gran giorno per la giustizia in America!”. Anche la procuratrice generale Pam Bondi su X ha parlato di una vittoria storica dello stato di diritto sulle velleità di un “giudice attivista” di sostituirsi al presidente. Nonostante gli entusiasmi dell’Amministrazione, il voto della Corte suprema è molto meno “trumpiano” di quanto sembri: annulla infatti solo la validità dell’ordinanza di Boasberg – perché emessa nel contesto di un ricorso intentato nel tribunale sbagliato, cioè a Washington e non in Texas, in cui i migranti sono detenuti – e soprattutto stabilisce che ai migranti sia concesso il tempo necessario per fare ricorso contro l’ordine di espulsione. La Corte non si è ancora espressa sulla legittimità in sé dell’utilizzo dell’Alien Enemies Act (che è la questione cruciale), ma nel frattempo l’arbitrio del governo federale nel procedere a espulsioni sommarie e senza processo è parzialmente indebolito. E infatti già due giudici, del Texas e di New York, si sono appellati alla sentenza della Corte suprema per tentare di bloccare le deportazioni di migranti irregolari dei rispettivi distretti. 


E meno trumpiana di quanto sembri è anche la sentenza della Corte arrivata martedì contro l’ordinanza di un giudice distrettuale della California, William Alsup, che aveva stabilito il reintegro di circa 16 mila dipendenti in prova in risposta a una causa intentata da sindacati e organizzazioni no-profit, che la Corte ha ritenuto prive di legittimità giuridica per intentare la causa. Un tema più di metodo, che di merito, e la questione resta in ogni caso aperta. E’ infatti ancora in piedi un’altra causa legata ai licenziamenti di dipendenti federali, quella su cui si è pronunciato il giudice distrettuale del Maryland James Bredar, e che include una platea molto più ampia di lavoratori.


Il tempismo e la dimensione delle questioni toccate lascerebbero pensare alla più alta corte di giustizia americana improvvisamente schierata con il potere esecutivo, un’influenza che per sua natura, però, non ha mai avuto. A guardare più da vicino, infatti, la Corte suprema sembra ancora il pilastro del funzionamento della democrazia americana. Saranno i trumpiani a doverlo accettare