
A caccia di accordi
Il rischio di negoziare alla cieca con tutti, dalla Russia all'Iran
Steve Witkoff, l’inviato speciale di Trump, venerdì era con Putin e oggi a negoziare con Teheran. Se Khamenei ha accettato i colloqui con gli Stati Uniti sul nucleare lo ha fatto solo per salvare il regime
Chi prepara Steve Witkoff per tutti gli incontri? Ieri l’inviato speciale di Donald Trump, che in origine aveva ricevuto il compito di occuparsi delle guerre intorno a Israele, in modo particolare dei negoziati con Hamas, era in Russia per parlare con il capo del Cremlino Vladimir Putin. Witkoff ha incontrato Putin tre volte in tre mesi, ogni incontro ha portato a una telefonata diretta tra il leader russo e il capo della Casa Bianca. Dopo la seconda visita, durante la quale a Mosca l’inviato si era sentito rifiutare la proposta di un cessate il fuoco fra Russia e Ucraina, era tornato negli Stati Uniti parlando dei referendum nelle quattro regioni di Zaporizhzhia, Kherson, Donetsk e Luhansk, in cui la “stragrande maggioranza della popolazione ha indicato di voler essere sotto il dominio russo”. I referendum di Mosca si sono svolti in un territorio occupato, il risultato del voto non è legittimo, l’inviato speciale della Casa Bianca era andato a incontrare Putin senza nessuna competenza diplomatica. Agli occhi del Cremlino, la mancanza di competenza dell’uomo che Trump invia ovunque ci sia bisogno di negoziare è un vantaggio, e lo stesso percepiscono gli iraniani che oggi incontreranno lo stesso Witkoff in Oman.
La prima volta che il Foglio ha sentito la domanda: “chi prepara Witkoff?”, era un funzionario israeliano a farsela e lo stesso quesito, gonfio di maggior scetticismo e paura, lo abbiamo sentito ripetere in ambienti politici ucraini. Witkoff agisce con un mandato che viene direttamente da Donald Trump: negoziare e portare a casa un accordo il più rapidamente possibile. I russi e gli iraniani invece puntano all’opposto: allungare i tempi dei colloqui all’infinito. “E’ inusuale che un funzionario abbia un mandato così ampio, una varietà di compiti tanto vasta. Tuttavia credo sia possibile parlare con i russi della fine della guerra in Ucraina e poi con gli iraniani di un accordo sul nucleare”, dice al Foglio Jason Brodsky, il direttore dell’organizzazione United against nuclear Iran che si occupa di monitorare le minacce della Repubblica islamica e studia le politiche di Teheran, i vecchi accordi e le tattiche negoziali. “Gli iraniani preferiscono negoziare con lentezza, Trump vuole fare tutto velocemente. Questo è il primo punto che può creare tensioni. Il secondo è l’obiettivo del negoziato: gli Stati Uniti puntano allo smantellamento del programma nucleare anche civile, Teheran invece al massimo a una forma di monitoraggio”. L’Amministrazione americana ha provato a legare la Russia alla soluzione dei problemi con l’Iran, Mosca si è offerta di fare da facilitatrice in un negoziato, ma ha già avuto questo ruolo in passato: “Bisogna essere realisti, Trump non è riuscito ad avere un accordo sull’Ucraina, perché la Russia dovrebbe aiutarlo con l’Iran? Sarebbe un errore coinvolgerla, ci aveva provato Joe Biden per rivitalizzare i negoziati nel 2021, ed è stato un errore”.
Il New York Times ha ricostruito un incontro tra la Guida suprema Ali Khamenei e alti funzionari del regime. L’obiettivo era rispondere alla lettera in cui Donald Trump invitava Teheran a negoziare un nuovo accordo sul nucleare. L’idea di Khamenei era di non cedere, ma chi ha partecipato all’incontro gli ha suggerito di negoziare, “anche direttamente se necessario, altrimenti il governo della Repubblica islamica potrebbe essere rovesciato”. Khamenei ha cambiato idea quando i suoi funzionari, soprattutto membri della magistratura e del Parlamento, gli hanno spiegato che con un’economia in rovina, con carenza di gas, elettricità e acqua, l’effetto di un confronto militare con Israele e gli Stati Uniti è una minaccia seria e se avesse continuato a rifiutare i negoziati, un attacco ai siti nucleari di Natanz e Fordo sarebbe stato inevitabile. Dopo un attacco del genere, Teheran avrebbe dovuto rispondere, innescando una guerra che non ha le capacità di combattere, quindi avvicinando il regime al collasso. Khamenei si è arreso soltanto dopo ore, ha scelto, come sempre, la salvezza del regime prima di tutto. Ha acconsentito a discutere “rigorosi meccanismi di monitoraggio e una significativa riduzione dell’arricchimento dell’uranio”. Non contempla nel negoziato i rapporti con i gruppi alleati che circondano Israele (Hezbollah, Houthi, milizie in Siria e in Iraq e Hamas). “Ci sono molte opinioni in Iran – dice Brodsky – ma è la Guida suprema che prende ogni decisione, soprattutto sul nucleare. Non bisogna cadere nella trappola del dialogo tra moderati e intransigenti”. In Oman a negoziare con Witkoff andrà un “intransigente”: il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, diplomatico esperto che ha gestito già i colloqui sul nucleare, “rappresenta la linea dura, è un membro del corpo delle Guardie della Rivoluzione”. Non è detto che lui e Witkoff si incontrino, l’obiettivo in Oman è fissare i parametri del negoziato con colloqui che l’Iran continua a chiamare indiretti, quindi con i diplomatici dell’Oman che faranno la spola da una stanza all’altra. Per Teheran però Trump si sta rivelando un’opportunità inaspettata, è ossessionato dal fare accordi, crede di poter imporre ogni decisione a Israele inclusa quella di non attaccare Teheran. Ieri, secondo Axios, la direttrice dell’intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, ha nominato in una posizione chiave dentro al dipartimento William Ruger, conosciuto principalmente come scettico di un attacco all’Iran.


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