Paradossi

L'Argentina chiude l'accordo con il Fmi, ma resta l'incognita Trump

Luciano Capone

Milei ottiene un nuovo prestito da 20 miliardi di dollari per completare la stabilizzazione del paese, ma la guerra dei dazi del suo alleato alla Casa Bianca complica i piani della Casa Rosada

In un’altra giornata complicata sui mercati internazionali a volare sono i titoli argentini: la Borsa di Buenos Aires sale del 7% e le azioni argentine a Wall Street guadagnano fino al 10%. Non è un riflesso della guerra commerciale di Donald Trump, ma l’aspettativa della chiusura dell’accordo – già deciso nei giorni scorsi a livello di staff – tra l’Argentina e l’Fmi per un nuovo prestito da 20 miliardi di dollari. È il pezzo mancante del piano di stabilizzazione del governo di Javier Milei che, dopo l’aggiustamento fiscale, serve a rafforzare le riserve (ora negative) della Banca centrale argentina, per apportare modifiche al regime valutario e rimuovere i controlli di capitale. 

Le cose per Milei sembrano andare bene ma, paradossalmente, sono complicate dai dazi del suo amico e alleato Trump. Il governo del libertario Milei ha già ottenuto importanti risultati. Aveva ereditato un’economia disastrata, in recessione, con un forte deficit fiscale e sull’orlo dell’iperinflazione. Dopo un anno l’Argentina ha un surplus di bilancio, l’inflazione è crollata (dal 25,5% al 2,5% mensile), l’economia è in espansione (+5,5% nel 2025, secondo le previsioni) e una povertà in calo (a fine 2024 è scesa sotto il 40%, meno del livello ereditato l’anno prima). Ciò che suscita preoccupazione, soprattutto nell’ultimo mese, è un tasso di cambio con un peso sopravvalutato difficile da reggere con una Banca centrale senza munizioni.

A questo serve il prestito dell’Fmi, che però chiede degli aggiustamenti. Quali? “Il programma è importante, circa 20 miliardi, e da quello che si sa la prima tranche sarà superiore al 50% del totale, un livello più alto degli standard dell’Fmi”, dice al Foglio Pablo Guidotti, economista dell’Università Torcuato Di Tella a Buenos Aires. Nelle ultime settimane la Banca centrale ha perso riserve per l’incertezza sulla “politica cambiaria”, che inevitabilmente dovrà superare l’attuale crawling peg, un regime rigido con un deprezzamento fisso dell’1% mensile. “L’Fmi chiede un sistema più flessibile – dice Guidotti –. Non credo che abbia un’opinione sul peso, se sia sopravvalutato o meno, ma non vuole che la Banca centrale usi i fondi del programma per intervenire a difesa di un determinato tasso di cambio”.

In questa situazione delicata, in cui il governo teme qualsiasi cambiamento prima delle elezioni di ottobre che possa far rialzare la testa all’inflazione, irrompe la guerra commerciale scatenata da Trump. L’alleato di Milei complica i piani dell’Argentina? Per Guidotti non direttamente, ma potrebbe avere un effetto sull’economia globale. “Paradossalmente il vantaggio dell’Argentina è che adesso è isolata, non ha accesso ai mercati e non ha necessità di emettere debito immediatamente. Certo, questa crisi può ritardare il ritorno sui mercati, ma non è una necessità di quest’anno. Il rischio paese è risalito a 1.000 punti prima dell’accordo con l’Fmi, per tornare sul mercato deve scendere verso quota 400”.

Per Juan Manuel Telechea, autore del libro Inflazione! Perché l’Argentina non riesce a liberarsene?, “il Fmi chiede due cose: equilibrio fiscale e accumulazione di riserve. Sul lato fiscale, il governo ha fatto anche più di quanto chiedesse l’Fmi e perciò riceverà un primo esborso consistente”. Il problema riguarda la parte valutaria. “In Argentina il tipo di cambio è una questione molto delicata. Fare cambiamenti prima delle elezioni è politicamente rischioso, come pure la rimozione dei controlli di capitale: prima del voto, nell’incertezza, la gente compra dollari. Tra i dollari dell’Fmi che entrano e le sue richieste sul regime valutario c’è un trade off per il governo non semplice”.

In questa situazione fragile, precipita la guerra commerciale scatenata da Trump che “non porta alcun elemento positivo”. Il governo celebra il fatto di aver ricevuto dazi solo al 10% ma, dice Telechea, che non è affatto un privilegio politico perché “è lo stesso trattamento ricevuto dal Cile e dal Brasile, guidati da presidenti di sinistra come Boric e Lula, e dipende dalla bilancia commerciale con gli Usa”. Gli svantaggi del protezionismo di Trump, invece, per l’Argentina sono numerosi: “Il possibile aumento dei tassi di interesse Usa mette pressione sul peso. In fasi di instabilità, i capitali fuggono prima dai paesi emergenti. Poi un mercato globale più chiuso e una crescita più debole riducono la capacità dell’Argentina di esportare e generare dollari. Inoltre la discesa del prezzo del petrolio può ridurre gli investimenti nei giacimenti di Vaca Muerta”, conclude Telechea. 

Insomma, il paradosso per l’Argentina è che, ora che c’è un libertario alla Casa Rosada, si ritrova un peronista alla Casa Bianca che rende l’uscita dalla crisi ancora più difficile.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali