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Tra virgolette

Quando Cohn cercò di convincere Trump che i dazi sono un errore

Le statistiche contraddicevano la visione del presidente di un'America fatta solo di locomotive e di fabbriche. Il conflitto inevitabile tra l'ex capo degli economisti del tycoon e Navarro, raccontato da Woodward

Nel libro di Bob Woodward intitolato “Paura”, pubblicato nel 2018 a metà della prima presidenza di Donald Trump, c’è un capitolo (il 17) che spiega l’approccio alle questioni commerciali che, dice lo stesso Trump, è uguale da sempre per lui e ha al suo cuore lo strumento più amato: il dazio. Woodward ha fatto decine di conversazioni per scrivere questo libro, qui ci interessa riportare quella tra Gary Cohn, che era il capo degli economisti del primo Trump, e lo stesso Trump.  

Sul tema del libero scambio la posizione di Cohn era l’esatto opposto di quella del presidente e di quella di Peter Navarro, che è oggi ancora assieme al presidente, forse l’unico sopravvissuto (è andato in prigione per non aver voluto testimoniare alla commissione sul 6 gennaio, ha inventato un economista, che invece era lui stesso, per confermare le sue tesi anti cinesi e a favore dei dazi). Woodward scrive che il conflitto tra Cohn e Navarro era inevitabile. A una riunione nello Studio ovale, e in presenza di Trump, Cohn dichiarò che il 99,999 per cento degli economisti mondiali era d’accordo con lui – era vero allora e lo è ancora oggi.

 

                 

 

“La tesi di Navarro – scrive Woodward – era che i disavanzi commerciali degli Stati Uniti fossero causati dai paesi esteri come la Cina, con l’imposizione di dazi così, le manipolazioni di valuta, il furto di proprietà intellettuale, il ricorso allo sfruttamento del lavoro e il lassismo delle leggi di protezione ambientale. A suo avviso, l’accordo nordamericano per il libero scambio, o Nafta, aveva distrutto l’industria manifatturiera del paese, proprio come previsto da Trump, e tramutato il Messico in una potenza industriale, riducendo sul lastrico i lavoratori americani. Gli operai del settore siderurgico subivano licenziamenti in massa e il prezzo dell’acciaio era in caduta libera”. Il presidente doveva imporre dazi sull’acciaio di importazione, secondo Navarro, e Trump era d’accordo con lui. Cohn no, e anzi disse secco: “Se vi tappate quella cazzo di bocca e aprite le orecchie, magari potreste imparare qualcosa”.

Negli anni passati a Goldman Sachs, scrive Woodward, Cohn aveva compreso l’importanza della ricerca, dei dati e dei fatti: “Il suo principio guida era che a una riunione si arrivi preparati: l’imperativo è presentarsi con più informazioni verificate e comprovate di chiunque altro in sala”. Il giornalista riporta il seguito di quel che disse Cohn: “Il problema è che Peter spara sentenze senza uno straccio di dato per suffragarle. Io invece ho i fatti”. Aveva inviato a Trump un  dossier sull’economia dei servizi, ma sapeva che il presidente non lo aveva letto e, aggiunge Woodward, “con ogni probabilità, non lo avrebbe mai fatto: aveva sempre detestato fare i compiti”.

Durante quell’incontro il consigliere cercò di sintetizzare il suo documento: “Signor presidente, la sua visione dell’America è da Norman Rockwell. L’economia non è più quella di allora. Oggi oltre l’80 per cento del nostro pil dipende dal terziario. Pensi alla differenza tra la Manhattan di oggi e quella di vent’anni fa”, disse Cohn portando come esempio un incrocio della città che Trump conosceva bene:  due decenni prima era occupato da tre esercizi commerciali – Gap, Banana Republic e un negozio indipendente – e da una filiale di J.P. Morgan. “Oggi Banana Republic e Gap sono pressoché sparite, e il negozietto indipendente non esiste più. Le attività che ora occupano l’incrocio sono Starbucks, un salone di manicure e la filiale di J.P. Morgan”.

Cohn continuò, rivolgendosi a Trump: “Faccia una passeggiata su Madison Avenue, sulla Terza o la Seconda Avenue, e intorno a sé vedrà tintorie, gastronomie, ristoranti, caffetterie e saloni di bellezza. Niente più negozietti di abbigliamento o saloni di bellezza o a conduzione familiare. Pensi alle società locatarie degli spazi nella Trump Tower”.

Trump disse che in effetti uno dei suoi principali affittuari era la più grande banca cinese, poi c’erano tre ristoranti. Cohn si sentì rassicurato, e conciliante disse che “la Trump Tower è un esempio perfetto dell’America odierna. E in un’economia basata per oltre l’80 per cento sui servizi, in cui spendiamo sempre meno per i prodotti, è una quota di reddito maggiore da investire in servizi, o in quell’autentico miracolo che chiamiamo risparmio”.

Woodward scrive che il tono di voce di Cohn era alto, “doveva quasi gridare per costringere Trump ad ascoltarlo”. “Gli unici periodi in cui il nostro disavanzo commerciale si è ridotto – continuò Cohn – corrispondono alle crisi finanziarie, come nel 2008. Quel calo è un indice di contrazione economica. Perciò, se vuole ridurre il disavanzo, un sistema infallibile c’è: distruggere l’economia”. Continuando invece con la linea politica attuale sul commercio, lo scarto tra beni importati ed esportati sarebbe aumentato”.

Puntualmente il disavanzo continuò a crescere, e di mese in mese, scrive Woodward, Trump era sempre più agitato. L’avevo avvertita che sarebbe successo”, gli ricordò Cohn “ma è un buon segno, non un fenomeno negativo”. Trump disse che aveva visitato in Pennsylvania quelli che un tempo erano i grandi centri siderurgici, ma che ora erano come delle città fantasma, tutti disoccupati. “Può darsi”, replicò Cohn, secondo la ricostruzione di Woodward, “ma bisogna ricordare che cent’anni fa intere città si mantenevano producendo calessi e finimenti per cavalli. Anche quei lavori sono scomparsi. Il mondo cambia, e la gente deve reinventarsi da zero. In Colorado è già avvenuto, e là il tasso di disoccupazione è appena del 2,6 per cento”. Ma Trump non si convinceva, a ogni dato di Cohn rispondeva “questo non c’entra niente”.

Un giorno Cohn portò, a quegli incontri con il presidente, Lawrence B. Lindsey, un economista di Harvard che aveva ricoperto il suo stesso incarico durante la presidenza di George W. Bush. Lindsey disse che non bisognava preoccuparsi del disavanzo, “deve pensare all’economia nel suo complesso. Le merci prodotte all’estero costano meno, e già questo è un vantaggio per il consumatore. Ciò che dobbiamo fare noi è concentrarci a eccellere in altri comparti: i servizi e i beni ad alta tecnologia. La globalizzazione dei mercati ha portato benefici enormi agli americani”. Trump non si convinse nemmeno quella volta, diceva che l’America è una nazione industriale, “perché quelle merci non ce le produciamo da soli?”. 

Woodward spiega che il comparto manifatturiero non era sparito del tutto, ma che Trump aveva una visione delle cose che non combaciava con la realtà: era rimasto aggrappato a un’immagine datata, un’America fatta di locomotive, di fabbriche, di operai alla catena di montaggio. Cohn raccolse ogni possibile dato economico per dimostrargli che i lavoratori americani non avevano alcuna voglia di tornare in fabbrica. Ogni mese gli portava i risultati dell’ultimo sondaggio sull’occupazione condotto dall’ufficio di statistica sul lavoro che confermavano regolarmente la sua tesi; forse, dice Woodward, “sarebbe stato meglio smettere di rinfacciarlo a Trump, ma Cohn continuò”.

Ecco un’altra conversazione. “Signor presidente, posso mostrare questi? Vede? La percentuale più alta di lavoratori che si sono licenziati di propria iniziativa riguarda proprio il settore manifatturiero. Se a parità di stipendio lei dovesse scegliere tra un bell’ufficio con l’aria condizionata e una poltroncina comoda oppure otto ore in piedi alla catena di montaggio, che cosa farebbe? Nessuno vuole più lavorare a due passi da una fornace a duemila gradi, o scendere in miniera a respirare polvere di carbone. Se un altro tipo di impiego offre lo stesso stipendio o un pari potere d’acquisto, perché non cambiare?”.

Ma Trump, scrive Woodward, “restava inamovibile”, e Cohn era sempre più insofferente. “Perché vede le cose in questo modo?”, chiese una volta il consigliere al presidente. “Perché sì, è quel che penso da trent’anni”. Cohn gli rispose: “Una convinzione nutrita a lungo non è necessariamente vera: per quindici anni io ho creduto di poter giocare a football da professionista, ma mi sbagliavo”

Sappiamo come è andata a finire: Cohn si è dimesso, Trump ha introdotto i dazi, nella sua Amministrazione, oggi, non c’è più nessuno che gli porta dati o che lo contraddice.

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