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Si fa presto a parlare di occidente
Welfare e altri diritti. Perché Trump non ama più questa Europa
Lo stato sociale da una parte, la povertà avvertita come una colpa dall'altra. E poi idee diverse sul risparmio e sul debito
J.D. Vance dice che il Vecchio continente ha dimenticato i suoi princìpi fondanti. Ma siamo sicuri che siano stati sempre gli stessi di qua e di là dell’Atlantico? No. A partire dalla Costituzione. Anatomia comparata di due modelli
Il 26 giugno 1963 una folla immensa accolse a Berlino occidentale John Fitzgerald Kennedy e anche il più compassato dei tedeschi sentì un brivido lungo la schiena quando ascoltò queste parole: “Duemila anni fa l’orgoglio più grande era poter dire civis Romanus sum – esordì il presidente – Oggi, nel mondo libero, l’orgoglio più grande è dire Ich bin ein Berliner. Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino”. Il 14 febbraio scorso il vicepresidente americano J.D. Vance a Monaco di Baviera ha suonato tutt’altra musica: “La minaccia che mi preoccupa di più per l’Europa non è la Russia. Non è la Cina. Non è nessun altro attore esterno. Quello che mi preoccupa è la minaccia interna, il ritiro dell’Europa da alcuni dei suoi valori più fondamentali”. Poi dai social media è emerso il suo sentimento profondo: “Odio dover salvare l’Europa”. L’11 settembre 2001 eravamo tutti americani, lo scrissero il Monde, il Corriere della Sera, il Foglio. Adesso il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, un democristiano moderato, erede di Konrad Adenauer e Helmut Kohl, confessa a microfoni aperti: “Sugli Usa non si può più fare affidamento”. Che cosa è successo? Perché Vance e Trump odiano tanto l’Europa? E perché gli europei si sentono abbandonati e traditi? Due modelli si sono confrontati per decenni, tra rifiuto e imitazione, invidia e competizione culturale, capitalismo contro capitalismo, aveva scritto nel 1991 l’economista francese Michel Albert. Una concorrenza, ma cooperativa. Adesso resta solo la rivalità?
L’isola tra gli oceani
Gli americani restano convinti di vivere in una gigantesca isola protetta da due oceani, lo ha ripetuto Trump, anche se l’11 settembre 2001 ha dimostrato che non sono più al sicuro. La pretesa inviolabilità, già sfidata dai sommergibili tedeschi e giapponesi, oggi non esiste più. L’Europa, appendice geografica dell’Asia, è stata violata continuamente nel corso dei secoli. I popoli delle steppe, Alani, Unni, Mongoli, Turchi sono arrivati sulle sponde del Mediterraneo, hanno conquistato la Grecia, i Balcani, invaso l’Italia, attraversato la Francia e la Spagna fino in Nord Africa. L’Europa con tutta la sua cultura e le sue ricchezze umane (perché la natura è stata perlopiù matrigna) è una principessa sempre rapita e stuprata come nel mito ellenico. E non è la prima volta che l’America la lascia da sola.
Facciamo un balzo indietro al 1933 quando nel pieno della depressione scatenata dal grande crac borsistico del 1929, Franklin Delano Roosevelt assunse la carica di presidente degli Stati Uniti. Nel suo discorso d’insediamento parlò di “una nazione in crisi in un mondo in crisi”. In Europa l’ascesa di Adolf Hitler sconvolgeva la Germania, in Asia il Giappone dopo aver conquistato la Manciuria si preparava ad aggredire l’intera Cina. Ma gli Stati Uniti decisero di tenersi fuori. Nel 1935 venne approvata la prima di tre leggi per decretare la neutralità americana, era l’anno in cui Mussolini invadeva l’Etiopia. Poi ci furono la guerra di Spagna, l’annessione dell’Austria, i Sudeti e la Cecoslovacchia, l’occupazione della Polonia e dell’Europa occidentale, la caduta di Parigi, la battaglia d’Inghilterra, l’attacco alla Russia. Gli Stati Uniti restarono a guardare, nella loro poco splendida solitudine, mentre si stava affermando al loro interno un movimento nazionalista chiamato America First che scelse come figura popolare Charles Lindbergh, il quale il 20 e 21 maggio 1927 aveva attraversato in aereoplano l’Atlantico in solitario e senza scalo. Un eroe nazionale, anche se di origine svedese. Ammiratore di Hitler, che gli assegnò una medaglia, sosteneva apertamente che “la razza ebraica” spingeva gli americani a entrare in guerra “per ragioni che non sono americane né patriottiche”. Furono le bombe nipponiche a cambiare tutto mentre Roosevelt parlava del “grande arsenale della democrazia”, l’antitesi radicale al “nuovo ordine della tirannide”. I nonni e i bisnonni dei Maga avevano rischiato che tutto il Vecchio continente crollasse sotto il tallone nazista. O forse volevano proprio questo.
Dopo il 1945 l’Europa occidentale si è americanizzata, ma a modo suo, costruendo un modello con molte varianti nazionali. La globalizzazione ha aumentato le convergenze reciproche, con l’Europa che ha dato più spazio al mercato e l’America che ha introdotto elementi del welfare state europeo. Ma i due modelli restano diversi ed è proprio questa differenza che Trump e i suoi ideologi non accettano. Cominciamo dai valori.
La Bibbia e la Costituzione
Gli americani giurano sui loro due libri sacri. Gli europei hanno rifiutato di affermare per iscritto le radici ebraico-cristiane (magari aggiungendo anche greco-romane) non solo per non turbare i Sottomessi alla parola del Corano, ma per non introdurre una discriminante religiosa in un mondo che ha fatto della laicità un valore fondante. Nessun presidente europeo giurerebbe sul Vangelo, nemmeno a Roma, la patria della cristianità. Date a Cesare quel che è di Cesare. Nella stessa democrazia americana c’è un sottofondo teocratico che non è in sintonia con l’Europa contemporanea. I fondatori degli Stati Uniti, una élite colta che si è formata su Voltaire, Rousseau e Diderot (“fratelli fondatori” li ha chiamati lo storico Joseph J. Ellis) sono stati via via rimpiazzati da generazioni di coloni quaccheri, puritani, mormoni, e poi evangelici, cattolici, espulsi dal Vecchio continente perché perseguitati dal potere politico-religioso e dalla fame. Sono vissuti insieme, ma si sono anche uccisi a vicenda. L’America raccontata da Alexis de Tocqueville è cambiata profondamente dopo la Guerra civile che ha lasciato ferite aperte ancor oggi: basta vedere le bandiere confederate che sventolano in Tennessee o in Georgia. I valori condivisi tra l’Europa contemporanea e l’America dopo il 1945 sono stati il libero scambio in economia e la liberal-democrazia in politica; entrambi, secondo gli ideologi del trumpismo, a cominciare da Peter Thiel, sono ormai obsoleti e vanno rimpiazzati da una sorta di liberal-tecnocrazia. L’assalto al Congresso è stato solo il primo atto.
L’arena della legge
La Costituzione americana è la prima nella quale è sancita l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario affidato a una Corte suprema i cui membri sono designati dal presidente e approvati o respinti dal Congresso; restano in carica a vita così come tutti i giudici federali. Nell’insieme del sistema, tuttavia, sia il giudice sia il pubblico ministero sono sottoposti al voto popolare. E’ così in 42 stati. Un tempo considerate elezioni ovattate, in questi vent’anni sono diventate ad alta tensione politica e mediatica. E’ un meccanismo che mette i giudici di fronte a quella che viene chiamata una “majoritarian difficulty”, insomma tendono a rispondere alla maggioranza che li ha scelti. Gli Usa sono l’unico paese al mondo in cui la stessa pubblica accusa è elettiva, cioè i pubblici ministeri un tempo nominati dal Congresso oggi vengono votati dal popolo. E’ un cambiamento che avviene anch’esso nel corso dell’Ottocento, prima del 1860 quindi prima della Guerra civile. I prosecutor locali vengono eletti su basi partitiche in tutti gli stati tranne New Jersey, Connecticut, Alaska e District of Columbia, mentre gli attorney general, i procuratori generali, sono votati in 43 stati su 50. Anche in questo caso si apre un potenziale conflitto tra imparzialità e legittimazione democratica. Non ci sono carriere separate e il legale che ha fatto a lungo il difensore può diventare accusatore. Non solo: l’avvocato ha un ruolo e un peso che lo rende vero protagonista.
Prendiamo il caso delle assicurazioni automobilistiche. In Europa sono obbligatorie, quando si ha un incidente ci si scambiano i numeri delle compagnie le quali, poi, pensano a tutto. Negli Usa invece si va subito dall’avvocato, spetta a lui entrare in contatto con l’assicurazione e raggiungere un accordo per il risarcimento. C’è una differenza non solo procedurale, ma di principio. Il modello europeo continentale è basato sul diritto romano, con norme scritte valide per tutti. Negli Usa vige la common law che assume caratteristiche particolarmente litigiose, anzi conflittuali. In molti paesi, tra i quali l’Italia, la stessa procedura penale si è americanizzata, con accusa e difesa l’un contro l’altra armate davanti a un giudice arbitro che si suppone imparziale. La relativa convergenza, però, non cambia la differenza sostanziale. Se in Europa ci sono troppe regole, come lamenta Vance, la colpa in fondo risale a Cicerone.
Il diritto alla violenza
Il titolo è forte: “Una nazione bagnata di sangue”. Il libro, pubblicato da Paul Auster nel 2021 e illustrato dalle foto di Spencer Ostrander, è nello stesso tempo la testimonianza del rapporto con le armi dello scrittore (“ero un texano anche se vivevo nel New Jersey”) e degli americani. Un rapporto in realtà più ambiguo di quanto si ritiene quando si pensa agli Stati Uniti come al paese occidentale più violento in assoluto. L’ambiguità fa parte dello stesso Secondo emendamento della Costituzione che recita: “Poiché la sicurezza di uno stato libero richiede una milizia ben organizzata, non sarà violato il diritto dei cittadini di possedere e portare armi”. Auster sottolinea che l’espressione bear arms in inglese è sempre riferita all’ambito militare. E la “milizia ben organizzata” era allora un esercito popolare. Il diritto di portare armi non è illimitato, lo ha sentenziato un importante giudice conservatore come Antonin Scalia, anzi nel corso della storia si è più volte cercato di limitarlo, ma in ogni caso gli americani non hanno mai accettato di affidare solo alle istituzioni pubbliche il monopolio della violenza “per la sicurezza di uno stato libero”. E’ una divergenza culturale che ci conduce alle due libertà, concetto ben presente in entrambi i continenti anche se la bilancia pende in America verso quella individuale, mentre in Europa su quella collettiva. Nella sua reprimenda Vance non lo ha capito o ha fatto finta di non capirlo.
Chi protegge chi
Non ha cominciato Donald Trump ad accusare gli europei di concorrenza sleale. Lo dimostra la lunga lotta tuttora in corso tra Boeing e Airbus che per il momento va a favore dell’impresa europea. Durante la campagna elettorale del 1992, l’estrema destra repubblicana guidata da Pat Buchanan denuncia che, mentre il cittadino Joe spende i suoi quattrini per difendere il mondo dal comunismo, europei e giapponesi insidiano l’industria americana (e quindi distruggono posti di lavoro) nell’auto o nell’aeronautica. Il candidato democratico Bill Clinton, pur usando termini meno aggressivi, promette di difendere e rilanciare il primato tecnologico e industriale americano. Airbus-Boeing diventa un dossier dei negoziati sul commercio internazionale. La compagnia americana mette sotto accusa quella europea per concorrenza sleale e aiuti di stato: gli azionisti di Airbus sono i governi francese, tedesco, spagnolo e britannico (direttamente finché nel 2001 il consorzio non è diventato un’azienda), quindi i contribuenti dei diversi paesi forniscono le risorse per aumentare il capitale. L’anomalia esiste, sia chiaro, in questo gli americani hanno ragione. Ma gli europei replicano che anche Boeing ha usufruito di consistenti aiuti del governo, non solo quelli politici per vendere gli aerei, non solo le commesse della difesa, ma anche sostanziosi sostegni per ricerca e sviluppo le cui spese sono di fatto sostenute dal tax payer americano. Uno studio della Gellman research, finanziato da Boeing nel 1990, ha calcolato che i governi britannico, tedesco e francese hanno dato ad Airbus 13,5 miliardi di dollari. I tedeschi hanno contribuito per il 58,9 per cento, i francesi per il 25 e gli inglesi per il 16. Dal canto loro, Boeing e McDonnell Douglas – secondo una ricerca commissionata da Airbus – hanno ricevuto, nello stesso periodo, 23 miliardi di dollari di aiuti diretti e indiretti da parte di Washington (il 45 per cento dei quali destinati a ricerca e sviluppo, il 20 attraverso i sussidi per contratti della difesa). Chi è senza aiuti di stato lanci la prima pietra, il modo è diverso, la sostanza resta la stessa.
Cicale o formiche
Gli europei sono gran risparmiatori, gli americani invece vivono al di sopra dei propri mezzi. Trump chiama gli europei scrocconi, gli europei accusano gli Stati Uniti di aver inondato il mondo con i loro debiti, finanziati dai risparmi degli altri paesi. Il predominio del dollaro ha consentito tutto ciò, ma c’è dietro la differenza di fondo tra i due capitalismi. Negli Usa comprare con i propri risparmi è un comportamento da gente mediocre, un po’ meglio se si risparmia per spendere subito dopo, ma il non plus ultra è prelevare fondi basandosi solo sul proprio nome: ecco l’arte pura dei signori della finanza. Ed è anche la molla che scatta all’improvviso provocando sfracelli. Succede di nuovo in questi giorni per colpa di Trump e dei suoi dazi sciagurati. Ogni grande crisi finanziaria è scoppiata prima negli Stati Uniti ed è diventata poi mondiale. Se gli americani risparmiassero di più, anche il loro disavanzo con l’estero sparirebbe senza dazi, se gli europei investissero di più sarebbero maggiormente competitivi e innovativi. La grande macchina mondiale ha funzionato quando vizi privati e pubbliche virtù si sono compensati marciando in sintonia; ora che si prendono a bastonate, sono guai.
La colpa di essere poveri
La povertà in Europa è una condanna collettiva, occorre un’amorevole mano pubblica in grado di soccorrere i perdenti, i vinti, chi non ce la fa. I francesi lo chiamano “stato provvidenza”, i tedeschi stato sociale, gli inglesi stato del benessere. Il modello britannico si deve a un liberale, William Beveridge, quello tedesco nasce addirittura con Bismarck, quello americano con Franklin Delano Roosevelt e il New Deal, poi si espande negli anni 60 con la Great Society di Lyndon Johnson, ma solo con Barack Obama viene introdotto un sistema di assistenza sanitaria più vicino a quello europeo. Anche se l’Obamacare resta un compromesso, non un servizio di copertura universale. L’assicurazione la pagano le imprese finché si è occupati. Per chi perde il lavoro o non è protetto interviene entro certi limiti lo stato. In Europa il servizio sanitario pubblico garantisce anche le cure più costose, in America è un’altra cosa. La salute non è per tutti. La stessa povertà resta per alcuni versi una colpa (nella variante più luterana) e per altri uno stimolo. Leggiamo “Elegia americana”, l’autobiografia di J.D. Vance: “Il lavoro di cassiere (in un supermercato, ndr) mi ha trasformato in sociologo dilettante. Ho capito anche come la gente truffava il sistema del welfare. Acquistavano due casse di bibite con i buoni e poi le rivendevano a prezzi scontati. Passavano alla cassa parlando al cellulare. Non riuscivo a capire come mai quelli che vivevano di sussidi pubblici si godevano gingilli che io non mi sognavo nemmeno”. L’assistenza pubblica, dunque, riduce lo stimolo a cercare un posto e crea una sottoclasse incapace di tornare al lavoro. La lotta per la sopravvivenza, invece, aguzza l’ingegno e rafforza la volontà.
La classe operaia non va a Yale
Il libro di Vance ci introduce anche a un’altra grande anomalia. Le migliori, le più rinomate università sono americane, private e costosissime, da lì vengono i premi Nobel, i magnati della finanza e dell’industria, i presidenti. La scuola pubblica, sia quella secondaria sia quella universitaria, è un disastro. In parte è vero, in parte è un luogo comune da riesaminare, vista la decadenza anche dell’istruzione europea. Ma c’è un problema della scuola di massa che accomuna tutti i paesi. Vance proveniva da una famiglia dissestata e dopo aver servito in Iraq come marine entra a Yale, una delle top three insieme a Harvard e Stanford, una della Ivy League. Così scopre che non gli costa praticamente nulla, il pacchetto di aiuti offerto dall’ateneo va oltre ogni aspettativa non perché fosse il più bravo, ma perché era il più povero. Il sistema fiscale americano non è così progressivo come quello europeo, il sistema scolastico privato lo è di più. La vera barriera, però, non è tanto economica, quanto “di classe sociale”, scrive Vance. “Non mi ero mai sentito così fuori posto in tutta la mia vita… Il 95 per cento degli studenti della Law School apparteneva alla classe medio alta. Pochissimi allievi erano come me. Nonostante l’ossessione per la diversità, praticamente tutti, bianchi, neri, ebrei, musulmani, venivano da famiglie modello senza alcuna preoccupazione finanziaria”. Vance non ci rivela nulla di nuovo, il sogno americano parte sempre dal basso, spezza i soffitti di legno, cemento o cristallo che siano. Il vero problema è che oggi quei soffitti sono sempre più impenetrabili.
Il dollaro e l’euro
La moneta unica europea ha eroso in parte la posizione del dollaro sia per i commerci sia come valuta di riserva nelle banche centrali, anche se la distanza resta incolmabile: il biglietto verde rappresenta il 58 per cento delle riserve (l’euro è secondo al 19,7 per cento) e ben l’88 per cento negli scambi di ogni genere. Trump vorrebbe il 100 per cento e anche per questo usa le criptovalute, soprattutto le stable coin legate al dollaro. Ma con The Donald al comando il biglietto verde non è più sicuro, l’euro sì, come il franco svizzero o la sterlina. Una delle grandi differenze tra Europa e America riguarda proprio la moneta, chi la genera e chi la controlla. La Federal Reserve, che regola il dollaro attraverso i tassi d’interesse, non è una banca di stato, ma un sistema di banche private; è nata nel 1913 con una legge varata in reazione a un’altra grande crisi finanziaria. La Banca d’Inghilterra, chiamata Old Lady, è stata fondata nel 1694 dal governo inglese e approvata dal re Guglielmo III. Quando si parla di quello americano come modello anglo-sassone si commette un errore, una fondamentale distinzione è proprio il ruolo delle istituzioni pubbliche e dello stato centrale.
O la borsa o la banca
Uno degli aiuti economici più diffusi negli Stati Uniti è fornito dalle banche. Il debito studentesco l’anno scorso è arrivato a 1.700 miliardi di dollari con un aumento del 40 per cento negli ultimi dieci anni. Un quarto degli adulti sotto i 40 anni è indebitato, in media per chi ha un diploma si arriva a 25 mila dollari, per un master si superano i centomila. Quanti saranno in grado di restituirli? Bill Clinton voleva passare a un modello pubblico (prendendo a prestito direttamente dal bilancio federale). Bush, Obama, Biden hanno provato ad alleviare l’onere in vario modo, ma resta un macigno che minaccia il sistema bancario il quale, come si vede, nella vita quotidiana è più importante di quanto si pensi, mentre il denaro per le imprese viene soprattutto dalla Borsa, non dal credito bancario come in Europa. Investire in Borsa è un comportamento capillare, tanto da far parlare di capitalismo di massa o popolare. Una fetta consistente dei redditi, anche dei più bassi, è costituita dai guadagni in Borsa, anche per questo quando arrivano le perdite l’impatto è molto più vasto e profondo che non in Europa. I conti 401(k) alimentati dagli accantonamenti salariali investono per il 60 per cento in azioni e per il 40 per cento in obbligazioni. Se Trump continua così, susciterà una rivolta popolare, non solo dei ricconi che perdono miliardi. Può darsi che Wall Street sia un casinò come si dice, ma è Las Vegas, non Montecarlo.
Walter Lippmann e TikTok
La democrazia europea passa per istituzioni statali, divisione dei poteri e corpi intermedi. Il mondo germanico coltiva il culto del consenso, non quello del conflitto e della concorrenza come negli Stati Uniti. Ma i social media negli ultimi due decenni hanno via via avvicinato le opinioni pubbliche. Si deve a un americano, grande giornalista e politologo, Walter Lippmann, la sistemazione del concetto di opinione pubblica. “La creazione del consenso non è un’arte nuova e non è affatto morta con la democrazia – scrisse nel 1922 – Anzi la persuasione è diventata un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare. Nessuno di noi è in grado di vederne tutte le conseguenze, ma non è azzardato pensare che la conoscenza dei modi per creare il consenso altererà tutti i calcoli e modificherà tutte le premesse politiche”. Lippmann aveva messo a fuoco il tema chiave della politica nella società di massa. Chissà che cosa scriverebbe oggi guardando X, Facebook o TikTok. I social media enfatizzano il ruolo dell’opinione pubblica e la plasmano oltre ogni limite, creando una cacofonia che favorisce l’avvento di un solista il quale metta in sintonia tutti gli strumenti. Si crea il caos per formare un nuovo ordine. Il presidente che secondo i “fratelli fondatori” non doveva essere un re, nemmeno elettivo, nel secolo americano s’è ammantato di panni imperiali, come ha scritto Arthur M. Schlesinger. Con Trump indosserà la corona dell’autocrate?