Lo stato dell'unione democrazia-capitalismo

Trump, Musk e la dimensione del politico che sta tornando nell’alveo della pura forza e quella economica che tende a diventare neo-prometeica. Il capitalismo deve continuare a essere un “sabba” scatenato o  la politica può porvi un argine? Un girotondo

Esiste un conflitto tra Democrazia e Capitalismo? O meglio, arriva un punto dello sviluppo del capitalismo in cui questo risulta entrare in contrasto con il sistema democratico? Un punto in cui la rapidità d’azione richiesta dal capitalismo (e qui con capitalismo s’intenda un’economia di libero mercato basata sullo sviluppo tecnologico) entra in contrasto con i tempi inevitabilmente lunghi della democrazia e con le sue esigenze di rappresentanza pluralistica? Vi è una “verità” possibile della democrazia che è superiore a quella del benessere generato dal libero mercato e dalla produttività? A volte diamo per scontato, perché così è stato almeno negli ultimi otto decenni, che un sistema di libero mercato vada a braccetto con un sistema liberal-democratico. Schumpeter, come sappiamo, ha scritto il suo capolavoro “Capitalismo, socialismo, democrazia” pensando che il capitalismo dovesse finire per sprofondare nel socialismo in virtù del suo stesso sviluppo, della scomparsa progressiva della borghesia, e di altri vari fattori non di poco conto. Quell’analisi, con tutte le sue imperfezioni, è sempre da tenere presente. Ma per noi, il problema appare diverso. Si tratta di capire se la forma di capitalismo oggi dominante non entri inevitabilmente in contrasto con la democrazia. E quindi bisognerebbe capire se capitalismo e democrazia potranno continuare ad avanzare insieme e, se sì, a quale prezzo. Altrimenti? Chi dei due dovrà cedere il passo? 


Pur tenendo sempre presente la formidabile analisi di Schumpeter, persino lui paga lo scotto dell’epoca. In estrema sintesi, penso sia giusto ritenere, in questa epoca liminale, capitalismo e democrazia niente altro che due “nomi”. Nel senso che oggi ci troviamo dinanzi a due orizzonti: uno economico (l’azione umana, per dirla con von Mises) e l’altro politico (la decisione, per dirla con Schmitt). La dimensione del politico sta ritornando nell’alveo della pura forza (lo chiede, paradosso, la democrazia – i cittadini rappresentati dal voto chiedono più decisione ossia di essere meno rappresentati, o di essere rappresentati più rapidamente). La dimensione economica tende a diventare neo-prometeica, ma questo cosa comporta? E’ attorno a una tale questione che si svolge il grande “dramma” che qui si prova a indagare. Ossia se il capitalismo può/deve continuare a essere un “sabba” scatenato e senza limiti, o se è possibile che la politica vi ponga un argine. 
Se esiste una “verità” del capitalismo penso sia, appunto, la schumpeteriana distruzione creatrice. O meglio, si dovrebbe chiamare capitalismo (termine scivolosissimo) proprio il meccanismo della distruzione creatrice. E’ questa la verità “esistenziale” del capitalismo e il motivo per cui esso appare insuperabile e “naturale” ossia propriamente umano. E il motivo per cui, in fin dei conti, a un certo punto la politica diventa, deve diventare se vuole ancora vincere, una funzionaria della distruzione creatrice. Ma così è solo in Occidente? O tale diviene progressivamente il sistema politico-economico in ogni sistema avanzato, ovvero in ogni sistema in cui esiste un benessere diffuso (persino Xi Jinping ha stupito ultimamente con la sua apertura all’iniziativa privata)? Personalmente propendo per questa secondo ipotesi. Ma se così fosse, ciò significa che tutto è subordinato all’economico, e che quest’ultimo finisce per incarnare attraverso figure prometeiche di imprenditori anche tutte quelle istanze extra-razionali che un tempo erano sublimate nelle ideologie politiche o nelle credenze religiose. 
In tale scenario alla politica, in questo caso non più necessariamente democratica (in quanto la democrazia diviene un modo buono come un altro per attivare le forze della distruzione creatrice – e il modo migliore si imporrebbe), non resterebbe altro compito che quello di fornire il terreno più fertile su cui il sabba della distruzione creatrice possa dispiegarsi nella maniera più efficiente. 
Michele Silenzi


Rendere i nostri sistemi meno ingabbiati, senza credere di dover diventare autoritari


Il problema della relazione e della disconnessione tra capitalismo e democrazia non deve coglierci di sorpresa, perché è stato trattato già da autori fondamentali per la “invenzione” e comprensione del concetto di capitalismo come Sombart, Weber, Schumpeter e Polanyi. Anche uno studioso acuto come Luciano Pellicani si è interrogato sul tema, mentre sulle pagine del Foglio criticava certe “superstizioni anticapitaliste”, riprendendo Pareto.


In tre libri dedicati al concetto di capitalismo politico, ho usato come chiave di lettura della questione del nostro tempo, il conflitto tra Stati Uniti e Cina, l’allargamento della sicurezza nazionale. Attraverso le vicende delle aziende e dei sistemi giuridici, ho mostrato come, sia in sistemi autoritari che in sistemi democratici, la sicurezza nazionale si allarghi e incida su gruppi sempre più ampi di settori industriali e di tecnologie, condizionando politicamente le dinamiche del mercato. Ma i mercati devono continuare a esistere, perché è grazie a filiere interconnesse che possiamo avere i prodotti che rendono possibile la nostra vita professionale e il nostro benessere. Già nel 2017 Donald Trump ha proclamato l’identità tra sicurezza economica e sicurezza nazionale, e tutti i governi o quasi hanno elaborato nutrite strategie di sicurezza nazionale e tentativi di condizionare le filiere industriali e tecnologiche. In un mondo conteso e contestato, questi fenomeni continueranno. Il capitalismo politico, con le sue ambiguità, non si fermerà. Su cosa possiamo concentrarci, in questo contesto? Soprattutto su due punti.


In primo luogo, il dibattito sul rapporto tra capitalismo e democrazia, seppur nobile, è legato a una storia occidentale che non riflette più le dinamiche produttive del mondo e la presenza di nuovi attori, soprattutto quelli asiatici, che vedono diversamente questi concetti e queste relazioni. Per esempio, la nozione di “democrazia” in India è molto eterogenea, da Amartya Sen a Narendra Modi, e a meritare studio e attenzione sono i rapporti reali tra il mercato e la democrazia nelle varietà del capitalismo in Asia.


In secondo luogo, spesso la difficoltà della democrazia davanti alle esigenze del capitalismo e dello sviluppo si sublima in un elogio dell’efficienza autoritaria, considerata come una sorta di invincibile monolite. Solo i regimi autoritari, secondo questo stereotipo, sarebbero in grado di costruire, realizzare infrastrutture, portare avanti progetti di lungo termine. Spesso, gli stessi sistemi autoritari mostrano crepe e divisioni. Basti pensare a varie sostituzioni di ministri di Esteri e Difesa negli ultimi anni in Cina. Inoltre, nulla obbliga in modo costitutivo i sistemi democratici a vivere di lungaggini, ad annunciare investimenti che non vengono realizzati, a perdere tempo. Dobbiamo e possiamo ritrovare la fiducia di rendere i nostri sistemi più semplici e meno ingabbiati, senza per questo credere di dover diventare autoritari. Anche perché potremmo invece ritrovarci autoritari e confusionari.
Alessandro Aresu


Un equilibrio che, finché va bene, genera prosperità; quando entra in crisi scoppia tutto


Se penso al rapporto tra capitalismo e democrazia, mi viene in mente una scena della serie tv sul disastro di Chernobyl. Per spiegare le cause dell’esplosione del reattore 4 della centrale, il fisico Valery Legasov disegna due colonne su una lavagna: da una parte i fattori che contribuiscono all’aumento della reattività del nucleo, dall’altra i sistemi progettati per stabilizzarla. Il funzionamento del reattore dipende da un equilibrio: se questo si rompe, la reazione a catena accelera in modo incontrollato, portando all’esplosione.


L’equilibrio tra capitalismo e democrazia somiglia al funzionamento di una centrale atomica: finché va bene, genera prosperità; quando entra in crisi scoppia tutto. Ma fermi un attimo: cosa intendiamo per “capitalismo” e “democrazia”? La crisi è già nelle parole, perché troppe definizioni differenti si accavallano. Proviamo ad aggirare l’ostacolo terminologico e poniamoci una domanda più generale, ovvero: c’è qualcosa nel modo in cui generiamo crescita economica che entra in conflitto con il modo in cui garantiamo la coesione sociale, e viceversa? I primi studiosi a porsi questa domanda, negli anni Settanta, evocavano una contraddizione tra sottosistema economico e sottosistema politico: al massimo grado di efficienza produttiva, il capitalismo reale sembra generare eccessive ineguaglianze di reddito o di status, con effetto erosivo sulla legittimazione delle istituzioni; mentre nella sua forma più partecipativa, la democrazia reale può incentivare decisioni scarsamente funzionali. Il problema è che i due sottosistemi dipendono l’uno dall’altro: negli stati liberali, la coesione è condizione della crescita economica e la prosperità che ne consegue è il prezzo della coesione. Almeno finché non scoppia tutto.
Com’è accaduto che il circolo virtuoso diventasse un circolo vizioso? Il successo alle urne dei movimenti anti sistema, in tutto l’Occidente, esprime un sentimento di delusione. Abbiamo toccato con mano le vette dell’opulenza materiale, ma non è mai stata soddisfatta la vera promessa della modernità liberale, ovvero la realizzazione personale di ognuno di noi. Così le urne sono diventate il campo di battaglia di una rivolta contro il mondo moderno, le sue istituzioni, i suoi rappresentanti, i suoi paradigmi, incapaci di realizzare quella promessa impossibile.


Pare di intravedere una legge della fisica politica: quando la crescita economica non riesce più a stare al passo della domanda sociale – ovvero a fornire opportunità soddisfacenti di allocazione dei patrimoni della classe media – si innesca una reazione a catena. Sulla lavagna che descrive il disastro, ci sono da una parte i rendimenti decrescenti di un’economia matura e dall’altra le aspettative crescenti di mobilità ascendente. L’elevazione trasversale del livello di vita in Occidente, in termini assoluti, non è bastata a rendere più tollerabili le ineguaglianze relative, il restringimento degli spazi di autonomia, la perdita del senso del lavoro. Il serbatoio del consenso si svuota poco a poco, l’economia declina, il corpo politico si disgrega.


C’è modo di rimettere in funzione il reattore? Visto che siamo in tema di metafore atomiche, non ci resta che citare Oppenheimer: quando il genio è uscito dalla bottiglia, non può essere ricacciato dentro. Se è impossibile invertire la freccia del tempo, probabilmente è altrettanto inutile sperare di poter riavvolgere un ciclo di sviluppo. In due secoli di storia, il plesso democrazia-capitalismo ci ha regalato alcune soddisfazioni; ora è diventato Morte, distruttore di mondi.
Raffaele Alberto Ventura

 

Un nuovo connubio in America. Chi non si adatta, e piange il mondo di ieri, è perduto

Perché Elon Musk ci seduce? Egli rappresenta la forma più pura dell’imprenditore-inventore dentro un’epoca in cui il capitalismo sembrava destinato alla burocratizzazione, alla proiezione di un messaggio pedagogico-moralistico, a muoversi attraverso gli algoritmi automatizzati. E, invece, il Napoleone dei razzi fa prendere vita a macchine che proiettano ancora l’umano oltre i suoi limiti. Musk ci ammalia perché parla all’ambizione prometeica e al viaggio di Ulisse che cova dentro ognuno di noi.

 
Ma Musk, con il suo coté variopinto della Silicon Valley, è andato oltre il suo ruolo storico: ha proiettato i rischi e i conflitti del capitalismo nella politica democratica, scegliendo Trump come ariete. Il governo da sottoporre a una cura dimagrante drastica, il legalismo da rimpiazzare con la deregulation, il denaro pubblico da spendere per tornare su Marte e rafforzare l’apparato militare-industriale, i media tradizionali da sgretolare in favore di una opinione pubblica fondata sull’ordine spontaneo del free speech. C’è malafede e sete di potere? Probabile, ma c’è anche una scossa adrenalinica alla democrazia che fa il paio con l’ascesa del capitalismo tecnologico e della nuova manifattura di frontiera. Finito il tempo della neutralizzazione del conflitto attraverso il conformismo progressista, del proliferare di burocrazie della sorveglianza woke, della frattura tra élite e senso comune. E’ tornata la “bellezza della lotta”, nel mercato e nella politica. Competizione e decisione rientrano nel discorso comune, soppiantano diritti e democrazia troppo spesso utilizzati dal mondo politico-intellettuale per forgiare mentalità illiberali e autodistruttive. Trump ha messo su tutto questo una spruzzata di brutalità e di realismo. L’ultimo imprenditore e il megafono dell’America viscerale hanno avviato il ricircolo paretiano della classe politica, sradicato dalle sedie il vecchio liberalismo globale, tradotto gli impulsi dell’ultimo bar americano in una politica di potenza che passa da satelliti, chip, dazi e rotte antartiche. L’America, descritta da troppi commentatori come malata, sconfitta, depressa, sull’orlo della guerra civile si ripresenta al mondo nella sua vivacità del capitalismo democratico. 

 

 I suoi vertici, dilaniati dalla polarizzazione politica fino a qualche mese fa, sembrano tornare uniti per realizzare promesse ventennali di riequilibrio del mondo. 
Così il processo di razionalizzazione, la grande stabilizzazione del post guerra fredda, viene momentaneamente interrotto. Si congelano le procedure, gli esperti, i manager. Torna il tempo della decisione, del rischio, dell’imprenditore-inventore. Le conseguenze per il mondo potrebbero essere dolorose, come molti profetizzano. E’ inutile negarlo. La frammentazione delle democrazie è possibile, la spartizione imperiale probabile. Ma il nuovo connubio tra democrazia e capitalismo in America potrebbe anche essere l’opportunità per far ritrovare all’Occidente il proprio nucleo primigenio – la libertà d’impresa per generare innovazione e accelerazione e il ricambio delle élite politiche per garantire legittimità al sistema politico – dopo anni spesi a fare di tutto per cancellarlo. Chi non si adatta, e piange il mondo di ieri, è perduto.
Lorenzo Castellani

  

La “tecnodestra” e l’ipotesi dello stato come una società per azioni guidata da un presidente-ceo


La grande trasformazione in corso da circa quarant’anni nel capitalismo mondiale pare sia giunta a una sua nuova configurazione. Spieghiamoci meglio e prendiamo per riferimento il capolavoro di Schumpeter “Capitalismo, socialismo, democrazia”, dove si prevedeva la trasformazione della forma democratico-costituzionale à la Constant-De Stael, alveo consustanziale al progredire dell’impresa nel mercato, in forma politico-autoritaria per consentire la pianificazione da economia diretta, così da sostenere la trasformazione del mercato per l’impresa in poliarchia monopolistica dell’impresa-big corporations.
Ma questo modello non prevedeva che, invece della centralizzazione capitalistica planetaria à la Hilferding, si sarebbe opposto, nella Seconda guerra mondiale, il contrasto imperialistico con la creazione post-bellica dell’economia diretta oligopolistica del capitalismo misto dei gloriosi trent’anni,  dove l’oligopolio con progresso tecnico à la Sylos Labini era, sì, sempre più possente, ma via via colpito – come magistralmente previsto da Baran e Sweezy grazie all’analisi del capitalismo anglosferico – dalla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. La reazione fu quella ad alta leva finanziaria con collateralizzazione dei debiti Clintoniana-Cardosiana e Dalemiano-Blairiano-Hawkiana (perché tutto iniziò in Australia, lo si ricordi sempre…) in primis celebrata in quel fiorentino Salone dei cinquecento a Firenze nel 1989, dove si decretò l’inizio della centralizzazione capitalistica, chiamata globalizzazione, con la fine del welfare state, l’inaugurazione della regressione neoclassica da scuola austriaca che avrebbe portato alla dissoluzione sociale oggi in corso, con reazioni post-populistico-jingoiste che nel trumpismo trovarono e trovano la loro forma politica essenziale. 


Mentre questa dissoluzione-trasformazione capitalistica s’inverava, l’Urss crollava e quel nuovo capitalismo finanziarizzato trovava il suo profilo come destino politico del mondo, prima che economico; trovava non solo la sua inverazione storico-generale, ma la sua consacrazione politica, come sancì la disgregazione del comunismo internazionale, l’inveramento di un neo-socialismo di mercato liberale mai visto prima che si faceva – e che si fa ancor e più oggi stolidamente – teorizzatore (i meriti e i bisogni e altre stranezze…) della più feroce pratica della disuguaglianza sociale come mai s’era prima inverata sulla faccia del pianeta
Ma di converso, e nell’insieme, un altro grande fenomeno sommuoveva e sommuove il corpaccione dei capitalismi mondiali: il proliferare della piccola e media impresa sospinta a emergere dalla forza della comunità e della società naturale della famiglia nucleare o allargata che sia, come è tipico dell’impresa artigiana.
Tutto aveva già previsto una delle menti più lucide della scienza economica novecentesca, Maestra tra Baghdad e Oxford di generazioni di economisti: la grande e dimenticata e troppo poco studiata Edith Penrose, che precedette tutti nel prevedere che la dimensione media delle imprese sarebbe continuata a scendere, contestualmente a processi di concentrazione tipici del nuovo owner capitalism da managers stockoptionisti che ha distrutto il capitalismo manageriale per trasformarlo in capitalismo oligarchico ad altissima disuguaglianza. Tutto viene di seguito.


La cultura woke e il transumanesimo alto borghese liberal multilateralista hanno fornito le armi per l’inveramento ideologico della nuova oligarchia subliminando nella filosofia alla Derrida della decostruzione sociale e dei diritti e dei doveri sociali, la distruzione della società e l’annichilimento del lavoro. I lavoratori… riducendoli in nuovi schiavi. E’ la prima volta che le forme di capitalismo sempre cangianti riattualizzano forme precapitalistiche, come lo schiavismo, come oggi accade (ma senza occuparsi della famiglia dello schiavo, come era un tempo). Foucault e Derrida hanno fornito le armi post moderne sotto la forma delle pistole della cultura woke che ha sprofondato l’umanità – o ciò che ne rimane – nella droga e nella leaderizzazione dei politici senza partiti, tipici del neo-caciquismo oggi imperante.


Questo nuovo capitalismo ad alta leva finanziaria e a torsione neo-imperialistica, come dimostrano le sue forme di reazione alle guerre nelle terre degli slavi del sud e dell’attaccato – dal fondamentalismo genocidario palestinese e da ogni lato – stato ebraico, elabora una sua distintiva proiezione ideologica che si staglia nel landscape à la Appadurai con una forza inusitata.


Come ha magnificamente sintetizzato recentemente Francesco Teodori nelle pagine della rivista di Nicola Porro: “Diversissimi dai neo-con, i quali possedevano una proiezione universale del ruolo americano (in quanto ex trotzkisti), l’alt-right americana si nutre delle teorie di pensatori poco mainstream e oscuri. I più significativi sono probabilmente Nick Land e Curtis Yarvin (noto con lo pseudonimo di Mencius Moldbug). Questi ultimi, molto apprezzati da Peter Thiel e punti di riferimento per quella che da noi viene definita superficialmente ‘tecnodestra’, vedono con sospetto la democrazia liberale nella sua forma classica e la considerano obsoleta alla luce dei progressi della tecnologia e del perdurare dei conflitti sociali. Essi immaginano lo Stato come una società per azioni, guidata da un presidente-ceo dotato di poteri assoluti e senza corpi intermedi (vedere per credere il dipartimento affidato a Musk e le ultime nomine di Trump nei gangli vitali della nazione). La democrazia perde la sua aria di sacralità e viene sostituita dalla libertà individuale, sempre entro i limiti consentiti dalla nuova ‘governance’ dello stato. […] Le categorie novecentesche di destra e sinistra c’entrano poco in questo quadro così sfumato e squisitamente postmoderno”. Basta mi fermo qui, non devo aggiunger più nulla.
Giulio Sapelli
 

 

 

 

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