I campus e la libertà

Harvard resiste contro le ingerenze di Trump

Paola Peduzzi

L'Amministrazione ha congelato parte dei fondi e continua a fare pressioni. Molti pensavano che il presidente dell'università, Alan Garber, non avrebbe fatto opposizione, ma in realtà nell'ultimo mese si è preparato "per non finire come la Columbia"

L’Amministrazione Trump ha detto di voler congelare 2,2 miliardi di dollari in fondi federali destinati all’Università di Harvard, dopo che quest’ultima non ha accettato le dieci richieste fatte dal governo per cambiare le politiche interne all’ateneo. Il presidente di Harvard, Alan Garber – che ha preso il posto di Claudine Gay, che si era dimessa in seguito alla malagestione delle proteste nel campus dopo l’attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre 2023 – ha scritto in una lettera indirizzata alla comunità dell’ateneo che “nessun governo, indipendentemente dal partito al potere, deve dettare che cosa un’università privata può insegnare, chi può essere ammesso o assunto e a quali aree di studio e di indagine deve dedicarsi”. Non è la prima volta, da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, che il governo invita gli atenei a rivedere le loro politiche interne se non vogliono rischiare di perdere i fondi pubblici (per Harvard in discussione c’erano 9 miliardi di dollari), ma è la prima volte che un’università risponde al governo che la sua ingerenza è una violazione del Primo emendamento e che non gli spettano le decisioni che vanno al cuore del funzionamento di un ateneo. Garber scrive che lo scopo dell’Amministrazione Trump va ben oltre quello esplicitato: “La lettera mette in chiaro che l’intenzione del governo non è quello di lavorare in modo costruttivo per combattere l’antisemitismo.  La maggior parte delle richieste rappresenta una regolamentazione diretta del governo delle ‘condizioni intellettuali’ di Harvard”.  Per questo, l’ateneo non rinuncerà alla propria indipendenza né rinuncerà ai propri diritti costituzionali”.

Nella lettera di cinque pagine inviata dal ministero dell’Istruzione e della Sanità, si chiedono cambiamenti nella governance di Harvard, nel suo organigramma e nelle misure disciplinari previste per gli studenti, introducendo una supervisione da parte del governo “almeno fino alla fine del 2028”. L’Amministrazione chiede che ci sia una revisione “sulla base del merito” di tutti i docenti, vuole anche avere accesso alle ammissioni degli studenti e chiede una revisione nelle regole di ammissione degli studenti stranieri, per evitare di accogliere quelli “ostili ai valori e alle istituzioni americane iscritti nella Costituzione degli Stati Uniti e nella Dichiarazione di indipendenza, compresi gli studenti che sostengono il terrorismo e l’antisemitismo”. Il governo chiede anche ad Harvard di segnalare gli studenti internazionali, compresi quelli in possesso della green card, che sono accusati di aver violato le regole di condotta, e di assumere un revisore esterno per valutare la “diversità dei punti di vista” degli studenti, dei docenti, della direzione e del personale assunto. Naturalmente – ma questa è ormai è diventata per i trumpiani un requisito minimo – il governo chiede anche la chiusura degli uffici che si occupano dell’inclusione, i Dei (che sta per diversity, equality e inclusion).

Il presidente di Harvard, Alan Garber, ha potuto rispondere come ha fatto, dicendo a Trump che non ha nessun diritto di interferire nelle politiche interne di un’istituzione privata, perché era pronto. Garber, settant’anni fra tre settimane, medico, laureato ad Harvard, è tornato nella sua alma mater nel 2011 come docente e come prevost, una specie di direttore dei corsi accademici, fino a quando, nel dicembre dello scorso anno, dopo un 2024 di proteste, lotte, sospensioni e sit in nel campus, è stato nominato presidente. Nel 2016, si era opposto al processo di sindacalizzazione degli studenti, che era stato invece introdotto alla Columbia e che sembrava il modello da seguire: “Continuiamo a pensare – scrisse allora agli studenti – che la relazione tra gli studenti e l’ateneo riguardi primariamente l’istruzione e che la sindacalizzazione distruggerebbe i programmi accademici, le libertà, il mentoring e la ricerca ad Harvard”. Come è facile immaginare, la decisione non fu presa bene e certo Garber non si fece una fama da progressista. L’anno scorso, nel mezzo delle proteste pro pal, mentre molti dei grandi “amici” di Harvard, miliardari che contribuiscono a tenere in vita l’ateneo (e a renderlo oggi tanto coraggioso rispetto ai fondi pubblici), ritiravano i loro fondi perché consideravano la direzione incapace di combattere l’antisemitismo, Garber impedì a tredici studenti di prendere le loro lauree durante la cerimonia finale perché avevano partecipato alle proteste pro pal: ci fu una mezza rivolta, alla fine l’ebbe vinta lui, ma di nuovo: non è considerato un progressista.

Il Wall Street Journal ha ricostruito tutto quel che Garber ha fatto durante il mese di marzo per evitare di “finire come la Columbia”. L’università di New York è stata infatti la prima a subire il trattamento Trump, anche perché è stata l’epicentro delle proteste pro pal lo scorso anno: l’Amministrazione ha sospeso 400 milioni di dollari in fondi pubblici e contratti e poi ha fatto richieste riguardo alle politiche interne per aprire il negoziato e scongelare i fondi. La Columbia ha accettato. Garber ha rimosso le clausole Dei dalle domande di assunzione dei docenti; ha lanciato un programma di “vivacità intellettuale” che ospita il dialogo tra studenti e tra professori; ha patteggiato in due cause in tribunale in cui Harvard era accusata di antisemitismo; ha convinto (eufemismo) a lasciare l’ateneo i docenti, considerati controversi perché non riportavano mai il punto di vista di Israele, del Centro per gli studi mediorientali, e lo stesso è avvenuto nel programma di studi israelo-palestinese nella scuola di teologia; ha interrotto la partnership con l’Università Birzeit, in Cisgiordania, che secondo molti deputati repubblicani sostiene Hamas; ha introdotto nuovi metodi di revisione dei corsi accademici in modo che siano votati “a una culturale plurale e conforme ai valori” dell’università.

Molti professori e dirigenti di Harvard hanno pensato che più che prepararsi a resistere a Trump, il loro presidente avesse già scelto di sottomettersi: lo sanno tutti, hanno scritto in una lettera al consiglio di amministrazione dell’ateneo, che il governo non è davvero interessato all’antisemitismo, ma Garber sta facendo finta che sia così, assecondando una stretta sulla libertà d’espressione e di insegnamento ad Harvard. Garber aveva risposto dicendo: “Ho sperimentato io stesso l’antisemitismo, anche da presidente, e so quanto questo possa essere dannoso per uno studente”, e aveva anche spiegato che i fondi federali erano importanti per una ricerca e un’innovazione “sane” da parte dell’università. Per questo molti erano convinti che, come altri atenei (nel mirino della “revisione” trumpiana ce ne sono sette per il momento), anche Harvard avrebbe ceduto. 

Garber invece ha assunto due avvocati conservatori con un profilo pubblico e ha deciso di resistere. Uno dei due lo conosciamo bene: si chiama Robert Hur, aveva lavorato assieme allo special counsel Robert Muller sulle ingerenze russe nelle elezioni del 2016 (il Russiagate: le ingerenze furono ampiamente dimostrate, la collusione di Trump con il Cremlino no), poi era stato nominato procuratore generale del Maryland, ma furono i democratici – precisamente il ministro della Giustizia dell’Amministrazione Biden, Garland – a dargli l’incarico di investigare i documenti riservati ritrovati nel garage dell’ex presidente Joe Biden e, di conseguenza, anche la sua salute. Hur disse che Biden era “un uomo anziano con una memoria scarsa” ma non aveva voluto portare avanti nessuna accusa o processo all’allora presidente (è lì che il suo rapporto con il trumpismo si è chiuso: l’attuale presidente non perdona). Il secondo avvocato è William Burck, oggi membro del Board of Directors di Fox Corp ed ex special counsel della task force del gruppo repubblicano al Congresso che lo scorso anno ha indagato sul tentato assassinio di Donald Trump in Pennsylvania. Burck ha lavorato alla Casa Bianca di George W. Bush, è un buon amico del giudice supremo Brett Kavanaugh, ha lavorato con un altro giudice supremo, Anthony Kennedy, ed è molto considerato negli ambienti conservatori. 

Il fatto che Garber e Harvard abbiano deciso di affidarsi a questi due avvocati vicini ai repubblicani, di cui uno anche nominato da Trump, mostra che la battaglia in corso va ben oltre le accuse che l’Amministrazione muove agli atenei americani: siete di sinistra e ci censurate. E’ un regolamento di conti che si gioca sulla sopravvivenza della libertà d’espressione, con derive illiberali che si sostituiscono una all’altra, senza mai compensare il buco che si è creato nel dibattito pubblico, dove una volta c’era la capacità di dialogare di persone che non la pensano allo stesso modo.

  

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi