Guida iraniana sul nucleare: vendere un patto con il nemico come una vittoria

Micol Flammini

Teheran e Washington sono ottimiste sulla possibilità di un accordo. Trump finora non delinea le linee rosse, mentre a Teheran fioccano parallelismi religiosi per giustificare i colloqui

Il più improbabile dei patti si sta rivelando per Donald Trump il meno complesso. Dopo essersi incontrate a Roma sabato scorso, le delegazioni dell’Iran e degli Stati Uniti hanno fissato un nuovo round di colloqui sul nucleare per il prossimo fine settimana e tutti parlano di ottimismo. Gli americani, con Steve Witkoff, inviato di Trump in medio oriente, dicono di essere molto fiduciosi e hanno apprezzato l’atmosfera serena in cui si sono svolti i negoziati mediati dall’Oman. Gli iraniani, con il ministro degli Esteri Abbas Araghchi, parlano di spiragli e sottolineano che il primo passo da compiere è allentare le sanzioni a Teheran. Non si sfugge: la formula che probabilmente verrà trovata per concludere un accordo sul nucleare dell’Iran probabilmente ricalcherà il Jcpoa, il piano concluso da Barack Obama e che Trump aveva stracciato definendolo inutile,  spalancando la porta per l’accelerazione iraniana verso l’arricchimento dell’uranio a livelli consoni per la costruzione di armi nucleari. Secondo molti osservatori il ritorno al Jcpoa è scontato, a Trump non sembra più un pessimo accordo né tanto meno inutile, mentre  gli iraniani, che  a parole sono disposti a un ritorno dell’arricchimento dell’uranio per scopi civili,  escludono invece lo smantellamento totale del loro programma. 
Anche dentro alla leadership iraniana il dibattito non è semplice,  però la guida suprema Ali Khamenei, dopo essersi convinto, sarebbe riuscito anche ad ammansire i più duri tra i sostenitori del programma nucleare per scopi militari. La giornalista Myriam Sinaiee ha raccontato su Iran international che all’interno del regime ha iniziato a circolare un parallelismo storico per giustificare i negoziati sul nucleare, che all’inizio erano stati esclusi da Khamenei per primo. La guida suprema si è convinta per motivi esistenziali: un “no” al negoziato avrebbe portato a un attacco militare, un attacco militare sommato ai problemi economici, sommati all’opposizione interna avrebbe condotto alla fine del regime. Per Khamenei la prosecuzione del regime viene prima di tutto. Per convincere i più intransigenti, scrive Sinaiee, religiosi, politici, opinionisti hanno iniziato a paragonare l’accordo tra Stati Uniti e Iran a un trattato concluso  da Maometto con i suoi avversari alla Mecca nel 628 dopo Cristo. Era il trattato di Hudaybiyyah e prevedeva una tregua di dieci anni per  garantire l’accesso ai musulmani alla Mecca  in cambio di non poche concessioni ai loro nemici. L’ayatollah del Golestan, Kazem Nourmofidi,  durante un sermone ha detto che all’epoca quella pace venne vissuta come una sconfitta, invece si rivelò una “chiara vittoria”. Lo stesso parallelismo è stato cavalcato dall’agenzia di stampa Tasmin, che risponde agli interessi del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica. Il simbolismo religioso è alla base della propaganda del regime e infatti anche nel 2013, quando Khamenei accetto di avviare i colloqui che condussero all’accordo stretto da Obama, giustificò i negoziati come sintomo di una “flessibilità eroica” che tanto ricordava quella dell’imam Hassan che nel Seicento accettò una tregua per proteggere se stesso e i suoi seguaci da uno scontro sicuramente cruento. 
La voglia di negoziare esiste, un nuovo accordo fa comodo sia agli Stati Uniti, ansiosi di mostrare un successo diplomatico, sia alla Repubblica islamica dell’Iran, che ha fretta di vedersi eliminare le sanzioni. Quel che resta da rimuovere sono le linee rosse, su cui Trump e Wikoff sono ancora vaghi.  
 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)