
Alleanza Harvard
Alan Garber, il rettore che voleva il dialogo e ora guida la resistenza a Trump
Ha firmato ieri, assieme ad altri cento rettori e docenti di altre università, un appello “per parlare con una voce sola contro l’inaudito eccesso di potere del governo e l’interferenza politica” nella gestione dell’istruzione superiore
Per definire lo scontro in corso tra Harvard, la più antica università d’America, e la nuova Amministrazione di Donald Trump gli aggettivi più ricorrenti sono: monumentale, titanico, epocale – che è proprio quel che il presidente vuole: lasciare un segno indelebile nel sistema, sconvolgendone le regole. Lo fa con le università, ma anche con la pubblica amministrazione, con la politica commerciale, con gli immigrati, con i confini, con i nemici e (ahinoi) gli amici globali: nulla sarà più come prima, ha detto più volte Trump, e ha spesso aggiunto che poi lo ringrazieremo. Per ora la direzione di Harvard non ringrazia e anzi reagisce, resiste, porta l’Amministrazione e la sua volontà di ingerenza in tribunale, dove la strada sarà lunga e potrebbe arrivare fino alla Corte suprema, che è il luogo in cui molte contese in corso finiscono, ma non vengono risolte perché l’Amministrazione non dà retta nemmeno alle sentenze dei giudici supremi. E’ così che si sta consumando una crisi costituzionale che non avevamo ancora visto, e va a un ritmo indemoniato – il ritmo di Trump.
A marzo, il governo federale ha inviato una lettera a Harvard dicendo che l’ateneo era sotto indagine perché non aveva “frenato o combattuto” l’antisemitismo nel campus, durante le proteste seguite all’attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre del 2023. Una lettera simile era stata inviata anche alla Columbia University, con il successivo annuncio della revisione di 5 miliardi di dollari in fondi pubblici, cui l’ateneo di New York ha risposto apportando alcuni cambiamenti che sono stati letti dall’Amministrazione Trump come una vittoria (cioè una capitolazione della Columbia). La Casa Bianca aveva inviato lettere simili anche a Princeton, Cornell e Northwestern, sospendendo parte dei fondi pubblici e l’11 aprile ha inviato a Harvard un elenco di revisioni chiedendo “cooperazione immediata”, se l’ateneo voleva mantenere “la relazione finanziaria” attualmente in vigore. La lista includeva l’eliminazione dei programmi di inclusione Dei (questa è la richiesta minima, vale anche per agenzie e ministeri, ma anche per gli studi legali) ma anche la possibilità di accedere ai sistemi di ammissione degli studenti e alle relazioni tra insegnanti e studenti. Tre giorni dopo, Harvard ha pubblicato la sua risposta in cui diceva che non avrebbe “ceduto la sua indipendenza o rinunciato ai suoi diritti costituzionali”. L’Amministrazione Trump ha così congelato 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni e contratti pluriennali, ha iniziato a studiare come rivedere la posizione fiscale di Harvard (le esenzioni) e ha messo in discussione la capacità della scuola di ospitare studenti internazionali. L’ateneo, la sera del 21 aprile, ha citato l’Amministrazione e altre agenzie federali alla Corte distrettuale del Massachusetts, dicendo che il governo usa i finanziamenti pubblici “come leva per ottenere il controllo del processo decisionale accademico a Harvard”.
Il presidente di Harvard, Alan Garber, ha firmato ieri, assieme ad altri cento rettori e docenti di altre università, un appello “per parlare con una voce sola contro l’inaudito eccesso di potere del governo e l’interferenza politica” nella gestione dell’istruzione superiore: “Siamo aperti a una riforma costruttiva e non ci opponiamo alla legittima supervisione del governo, ma dobbiamo opporci all’indebita intrusione del governo nella vita di coloro che imparano, vivono e lavorano nei nostri campus”. Garber, 70 anni tra un paio di settimane, aveva fatto di tutto per evitare questo scontro, aveva già preso provvedimenti sulla questione dell’antisemitismo (con molte critiche interne) ed era considerato da molti del tutto disinteressato a discutere di questioni di principio con l’Amministrazione Trump.
Il Boston Globe ha ricostruito tutti i passaggi della breve presidenza di Garber – sottolineando quanto fosse improbabile che questo medico economista dai modi pacati diventasse il capo della resistenza universitaria americana – e ha descritto tutte le aperture al dialogo via via ignorate dal governo. Di certo Garber può permettersi questo scontro: Harvard è la più ricca università del mondo, come la definisce il Wall Street Journal (giornale conservatore che la settimana scorsa ha pubblicato un editoriale in cui diceva: no, presidente Trump, lei non può fare il rettore di Harvard, è contro la Costituzione), 64 miliardi di dollari nell’ultimo anno fiscale, tra donazioni, borse di ricerca, sussidi e rette. Ma l’80 per cento di questo patrimonio costituisce l’endowment, la dotazione di Harvard, che può certo essere intaccato nelle emergenze (e questo è il caso) ma che è pieno di restrizioni imposte dai donatori ed è, sopra a tutto, un marker of prestige, segna il prestigio dell’ateneo. Per questo dallo scontro epocale usciranno tutti cambiati, e di nuovo: è proprio questo l’obiettivo di Trump.