A Washington

La nuova diplomazia di Marco Rubio

Giulia Pompili

La riorganizzazione del dipartimento di stato americano sembra un piano per fare la Russia e la Cina di nuovo grandi. La visita in Africa cancellata all'ultimo momento

Ad ascoltare chi tutte le mattine entra nel palazzo intitolato a Harry S Truman a Washington, quartier generale del dipartimento di stato americano, nelle ultime settimane l’aria fra i diplomatici e gli impiegati governativi era già sufficientemente tesa, tetra. Ma il clima è peggiorato l’altro ieri, quando è stata confermata la notizia di una riorganizzazione significativa all’interno del dipartimento che gestisce la diplomazia americana, confermata dal segretario di stato Marco Rubio.

 

 


Nell’edificio della capitale federale degli Stati Uniti che più rappresenta la proiezione americana nel mondo, nel giro di un paio di mesi sono scomparsi tutti i riferimenti a ciò che l’Amministrazione Trump considera “politica woke” – ai dipendenti sono stati vietati perfino i laccetti portabadge color arcobaleno e sono stati fatti sparire dalle bacheche i volantini contro la violenza di genere e le discriminazioni. Della riorganizzazione che avrebbe compiuto Rubio si parlava da tempo: il dipartimento di stato, considerato tradizionalmente il più liberal dei dipartimenti federali, difficilmente sarebbe sopravvissuto alla furia devastatrice trumpiana. In un breve messaggio pubblico, Rubio ha scritto che “per concretizzare la politica estera dell’America first del presidente Trump, dobbiamo fare il dipartimento di stato Great Again”. Come hanno fatto tutti gli altri membri della Casa Bianca di Trump, Rubio accusa le amministrazioni precedenti di aver creato una struttura burocratica e costosa: “Ma lungi dal vedere un ritorno sugli investimenti, i contribuenti hanno visto una diplomazia meno efficace ed efficiente. La burocrazia tentacolare ha creato un sistema più legato a un’ideologia politica radicale che alla promozione degli interessi nazionali fondamentali dell’America”. Il piano di tagli pubblicato sul sito del dipartimento è ancora parziale, ma da giorni i media americani si concentrano sulla più ampia strategia diplomatica della Casa Bianca. Secondo il New York Times la prima fase si concentrerà sulle “modifiche alle operazioni a Washington, ma i tagli riguarderanno anche il lavoro delle ambasciate e dei consolati all’estero”. Il cambiamento più preoccupante, secondo i critici, è l’eliminazione dell’ufficio del sottosegretario per la democrazia e i diritti umani, che era incaricato di promuovere i valori americani nel mondo e che invece per Trump era soltanto un macchinoso ufficio che promuoveva valori anti americani. Sarà eliminato anche l’Ufficio per la giustizia penale globale e l’Ufficio per le operazioni nei conflitti e per la stabilizzazione. Christopher Le Mon, che era vicesegretario del bureau per la democrazia durante l’Amministrazione Biden, ha detto al New York Times che certi tagli inviano “un chiaro segnale sul fatto che l’Amministrazione Trump non si preoccupa tanto delle libertà fondamentali quanto di stringere accordi con autocrati e tiranni”.  

 


Prima dell’insediamento di Trump, il segretario di stato Rubio sembrava l’uomo meno vicino al movimento Maga e più tradizionalmente repubblicano neocon, figlio di immigrati cubani e convinto oppositore dei regimi con una notevole capacità di studiare dossier di politica estera anche delicati (sembra scontato, ma non lo è in questa Amministrazione). Ma la sua flessibilità l’ha reso una pedina nel grande piano trumpiano di riorganizzazione funzionale alla guerra contro “il wokismo”, i cui effetti collaterali (sempre che siano collaterali) riguardano la fine della proiezione dei valori democratici americani nel mondo. Il numero di uffici del quartier generale del dipartimento passerà da 734 a 602, cioè il 22 per cento in meno, mentre altri 137 uffici saranno spostati “in altra sede per aumentare l’efficienza”, anche se la riorganizzazione sarebbe tutta gestita da Rubio e non dal Doge di Elon Musk. Dopo la cancellazione di UsAid e dell’ufficio che all’interno del dipartimento di stato si occupava di combattere la disinformazione, i tagli di Rubio toccano gli uffici americani e presto arriveranno alle sedi diplomatiche all’estero. Per diversi analisti, la riorganizzazione della diplomazia americana non potrebbe arrivare in un momento più complicato: la Repubblica popolare cinese negli ultimi anni ha raddoppiato i suoi sforzi, anche economici, per rafforzare la sua presenza all’estero. Secondo un documento circolato qualche settimana fa, tra le ambasciate che la Casa Bianca vorrebbe chiudere ce ne sono sei in Africa, dalla Repubblica Centrafricana all’Eritrea al Gambia. Domenica prossima, il segretario di stato sarebbe dovuto partire per il suo primo tour africano, in Kenya e in Etiopia, ma il viaggio è stato cancellato all’ultimo momento. Secondo Africa Intelligence, la decisione è stata presa poche ore dopo la partenza del presidente del Kenya William Ruto per una visita di stato di cinque giorni in Cina. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.