Logvynenko è il giovane e geniale fondatore di Ukraïner, progetto di comunicazione culturale e turistica dell’Ucraina (foto di Yurii Stefanyak) 

Un'inchiesta a Leopoli 

Progetti cancellati, stipendi non pagati: la memoria interrotta dell'Ucraina senza i fondi di UsAid

Francesco Chiamulera

L’email che ha sospeso il programma americano ha sancito il disimpegno di Trump dall’Ucraina aggredita dai russi. Cosa vuol dire non avere più gli aiuti che puntellano la vita democratica di tutto il mondo

Il pomeriggio di sabato 25 gennaio 2025 un amico giornalista ha telefonato a Bogdan Logvynenko. “Sta succedendo qualcosa a Washington”, gli ha detto, “tieniti pronto”. Logvynenko è il giovane e geniale fondatore di Ukraïner, progetto di comunicazione culturale e turistica dell’Ucraina che dal 2016 si inventa libri, film, articoli, documentari e altre cose per raccontare le differenze regionali del suo paese agli ucraini di oggi e agli stranieri. Al mondo, a noi. 

Contemporaneamente, l’intermediario di Logvynenko presso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, meglio nota come UsAid, gli ha intimato di non effettuare, fino a lunedì, pagamenti verso fornitori e collaboratori. Il giornalista si è molto preoccupato. Ha continuato a lavorare. Quello che è successo nelle ore successive è la stessa esperienza che migliaia di persone in tutta l’Ucraina, in tutto l’arco dell’Europa orientale – in tutto il mondo, a dire il vero – hanno avuto in modo simultaneo in un weekend di fine gennaio.

Bogdan si trovava a Kyiv, dove con Olesya Yaremchuk, a sua volta giornalista e scrittrice, era nel mezzo delle riprese di un film documentario su Mykola Akhbash, esponente della comunità greca di Mariupol, impegnato a raccontare la propria vita. Soldato e poeta, già agente di polizia nella propria città, dalla quale è riuscito a fuggire dopo l’occupazione russa, poi ferito ad Avdiivka e assegnato al settore di Pokrovsk, infine adesso a Kramatorsk, Akhbash si era preso una settimana di licenza apposta per incontrare la squadra di Ukraïner, a Kyiv. Era un film su di lui, ma anche sui suoi antenati che subirono la repressione stalinista durante l’Operazione greca (1937-1938), che falciò la comunità greca di Mariupol.

Da anni Olesya si occupa esattamente di questo: documentare le vicissitudini delle minoranze etniche e linguistiche del suo paese. Greci, ebrei, romeni, tatari di Crimea, polacchi, armeni, rom, svedesi del Dnipro, e così via. Era stata una settimana intensissima, quella passata sul set di uno dei sette episodi del film Our Others, che Bogdan con Ukraïner le aveva chiesto di realizzare. Quello precedente, girato a dicembre, era dedicato al giornalista tataro Nariman Dzhelal, condannato a diciassette anni di carcere nella penisola occupata dai russi e successivamente rilasciato. Verso le nove di sera Yaremchuk è tornata a casa, nella sua Leopoli, col solito treno lento e affidabile col quale gli ucraini girano in lungo e in largo per il proprio paese. L’iPhone di Olesya si è illuminato. Era un messaggio di una collega del Kharkiv Press Club, con la quale aveva in programma un laboratorio di giornalismo d’inchiesta per la settimana successiva, rivolto a studenti che abitano nelle aree vicine al fronte. “Ho brutte notizie. Il nostro corso è stato sospeso. Direttiva di Trump – 90 giorni… Oggi abbiamo ricevuto la lettera ufficiale, stiamo cancellando tutto quello che era stato organizzato. Sono a pezzi. Spero di aggiornarti”. Direttiva di Trump? 

La cosa che Ukraïner, il film-documentario Our Others e il laboratorio di giornalismo d’inchiesta avevano in comune con centinaia di altre iniziative sparse per l’Ucraina è il dipendere, in tutto o in parte, dall’aiuto di UsAid. Nella prima mattina di domenica Bogdan ha ricevuto a sua volta un’email ufficiale dall’ufficio di UsAid. “Il linguaggio era vago ma perentorio: ci veniva ordinato di ‘interrompere immediatamente tutte le attività in attesa di ulteriori comunicazioni’, citando ‘la necessità di chiarire alcune circostanze’ e ‘un processo di audit’. Nella comunicazione veniva menzionato il segretario di stato Marco Rubio, ma senza ulteriori dettagli. Nessun preavviso. Nessun periodo di transizione. Nessuna rete di sicurezza”. Peggio, dice Logvynenko, “non abbiamo ricevuto la notizia tramite nessuna riunione ufficiale o telefonata. Solo una mail. Ma ciò che mi è rimasto più impresso non sono state le parole – è stato il silenzio che è seguito. Ci è stato subito chiaro che non ci sarebbe stato alcun audit. Che quella era la fine”.

Dal sabato alla domenica, nel frastagliato universo di media indipendenti, giornali, televisioni, case editrici, quotidiani locali, manifestazioni letterarie, mostre d’arte, esposizioni temporanee, emittenti radiofoniche in tutta l’Ucraina si scatena il caos. I bonifici, i bonifici: a Ukraïner, Bogdan e il suo staff fanno di tutto per completare in poche ore quanti più pagamenti possibili a favore di dipendenti e collaboratori, usando fondi già allocati ma improvvisamente “congelati” a mezzo diffida. “Alcuni li abbiamo effettuati a nostro rischio. Altre persone che avevano lavorato con noi non sono mai più state pagate con quei fondi. E’ questo che fa più male. Non siamo stati solo tagliati fuori – ci è stata tolta anche la possibilità di chiudere le cose nel modo giusto, di onorare i nostri obblighi contrattuali”. Ukraïner stava lavorando a diverse serie documentarie – ce n’era una sulla musica ucraina degli anni 90, “sulla comprensione di come la cultura abbia plasmato l’identità ucraina contemporanea. Per noi, è sempre stato lo stesso anche con i reportage dal fronte: è come il collante che tiene unita una nazione”. Tutto questo era stato reso possibile dal sostegno internazionale, incluso quello del governo degli Stati Uniti, principalmente tramite UsAid. In totale, per il solo 2025 Ukraïner aveva firmato contratti per circa 500 mila dollari. Non serve dire che il finanziamento era cruciale per la produzione in corso. Ma poi, all’improvviso, tutto si è fermato.

Si scrive UsAid, si intende la proiezione dell’influenza dell’occidente nel mondo. L’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale era nata nell’alveo del nuovo internazionalismo da Guerra fredda dell’Amministrazione Kennedy, era la concretizzazione in forma di aiuti e denaro e soft power dell’“ich bin ein Berliner” pronunciato da Kennedy davanti alla folla sventolante le bandierine americane sotto la porta di Brandeburgo. Certo, era anche l’America che aiuta umanitariamente Nigeria e Haiti, Cambogia e Thailandia terremotata, Afghanistan e Myanmar, il tutto sotto lo slogan commovente e imperioso “From the American People”. Erano le campagne contro l’Hiv volute da George W. Bush, e i vaccini, e gli ospedali da campo, e i reparti di ostetricia, e infatti in Italia si è parlato del padovano don Dante Carraro che in Uganda ed Etiopia con il suo Medici con l’Africa Cuamm si è trovato dalla sera alla mattina senza la controparte statunitense. Ma soprattutto UsAid era l’America che finanzia generosamente giornali di opposizione, testate, musei, artisti, centri di ricerca, mostre itineranti sui crimini dei dittatori, think tank. Libri, cinema, la battaglia delle idee. UsAid era la prova che esisteva una fede nella capacità delle idee di plasmare il destino delle nazioni, e dunque la necessità che gli Stati Uniti arrivassero “là” prima che arrivassero gli altri. I loro nemici.

 

Quando Kennedy chiese al Congresso di istituire UsAid nel 1961, fondò la sua missione sugli interessi strategici dell’America e sui suoi “doveri morali in quanto leader saggio e buon vicino”, riconoscendo che povertà e instabilità nel mondo minacciano la prosperità e la sicurezza degli Stati Uniti. Questa convergenza tra interessi e valori è stata mantenuta sotto amministrazioni sia repubblicane che democratiche. Negli anni di Joe Biden il budget annuale di UsAid è stato mediamente di circa 50 miliardi di dollari, di cui nel solo 2023 oltre 16, forse più, spesi per l’Ucraina (in assoluto e di molte distanze la maggiore destinazione dei fondi) per “governo e istruzione”, voce di bilancio che, riporta il New York Times, comprende proprio queste che il mitico Reinhold Niebuhr nel ’44 considerava le armi di difesa dei “figli della luce”: nella perenne battaglia tra questi ultimi, ovvero i cittadini delle democrazie, e i figli delle tenebre, cioè gli schiavi delle dittature, non si può andare al fronte stringendo nelle mani soltanto fiori e buone intenzioni. Per contrastare i bot putiniani e il circo goebbelsiano della controverità russa che annuncia la tregua mentre bombarda Sumy, che proclama la liberazione della Crimea mentre mette in galera migliaia di crimeani, per smascherare le “voci di opposizione” a libro paga di Mosca dentro e fuori l’Ucraina, per spiegare che quel video di un pestaggio fuori da un centro commerciale contro un ragazzo che vuole parlare russo è un deepfake, per documentare cos’è successo a intere città e villaggi ucraini durante l’occupazione, per denunciare le sparizioni seriali, i rapimenti di migliaia di bambini servono emittenti, controreportage, antenne e stazioni radiofoniche, istituti di ricerca, programmi tv, centri di documentazione. Voci libere che penetrino il dibattito. E allora come si fa?

Si investe. Per esempio nello Ucbi, Ukrainian Confidence Building Initiative, uno dei tanti programmi lanciati da UsAid in questi anni. Olha Mukha è una filosofa e manager culturale di Leopoli. Ha cofondato e dirige il programma dell’Associazione per gli studi culturali di Leopoli, ed è dirigente presso il Museo memoriale del terrore. Grazie allo Ucbi cioè a UsAid, la mostra itinerante di cui è curatrice, Unseen Force, è diventata realtà nel 2024. Unseen Force documenta la resistenza nonviolenta attuata dalla popolazione ucraina nei territori occupati, dal 2014 e poi dal 2022. Dai diari degli appartenenti al movimento Nastro Giallo di Kherson, nel 2022, all’artista crimeano Antik Danov, che racconta la realtà schizofrenica della vita sotto l’occupazione, al gruppo Angry Mavka che agisce a Melitopol dal 2023, fino ai Crimean Combat Seagulls e Atesh, veri e propri gruppi partigiani del 2025 (qualcuno lo dica all’Anpi), che forniscono informazioni tattiche alle Forze armate ucraine, fino a installazioni e opere d’arte di artisti come Maria Kulikovska, Alevtina Kakhidze, Liia Dostlieva, Yulia Po, Emine Ziyatdinova, Diana Berg, Yulia Danylevska e Yana Holubiatnykova, oltre a caricature di cartone dei leader-fantocci piazzati dai russi realizzate da Serhii Zakharov, e a molto altro. La mostra di Olha, dopo il debutto a Kyiv a maggio 2024, doveva andare in tour fino ad aprile 2025, toccando Leopoli, Dnipro e Odessa. L’investimento in Unseen Force di UsAid è stato di circa 110 mila dollari. Olha si preparava all’apertura della tappa di Odessa, al Fine Art Museum. Mancava una settimana esatta all’apertura, a inizio febbraio, quando ha ricevuto una mail. L’oggetto: “Grant Suspension Letter”. Il testo: “UsAid. From The American People. A seguito dell’ordine esecutivo del presidente Donald J. Trump si comunica a tutti i partner in Ucraina che il programma Ucbi è sospeso con decorrenza immediata. Si richiede al direttore dell’organizzazione di firmare e restituire il documento allegato, e di interrompere immediatamente tutte le attività che possano comportare nuovi impegni finanziari”. Olha non poteva crederci. La lettera parlava, anche qui vagamente, di una revisione della durata di 90 giorni, ma non forniva ulteriori informazioni, a eccezione di un modulo Q&A allegato per eventuali domande.

 

Così muore, con qualche frasetta a metà tra il minaccioso, il gelido-legalistico e l’autoritario, un programma di aiuti antico decenni, irrisorio economicamente rispetto alle dimensioni complessive di un bilancio come quello federale americano eppure efficace, influente, indispensabile, e rinnovato potentemente dall’Amministrazione Biden a seguito della brutale aggressione del 2022. Macché di aiuti, di puntello vero alla vita democratica. La linea del tempo della nuova America first l’ha ricordata il New York Times: il 27 gennaio, l’Amministrazione statunitense ha messo in congedo decine di funzionari UsAid; il 1° febbraio ha punito i responsabili dell’agenzia per aver negato l’accesso al team di Elon Musk; il 2 febbraio Trump ha definito UsAid un’agenzia gestita da “pazzi radicali”; nei giorni successivi ha prima vagheggiato la possibilità di chiuderla, poi ne ha avviato lo smantellamento, nominando il segretario di stato Marco Rubio alla sua guida. Il 4 febbraio ha costretto quasi tutti i dipendenti di UsAid a mettersi in congedo; il 6 febbraio ha pianificato la riduzione dell’organico dell’agenzia a soli 290 dipendenti; il 7 febbraio ha chiesto la chiusura tout court di UsAid, accusandola di corruzione dilagante; l’11 febbraio ne ha licenziato l’ispettore generale; il 21 febbraio ha licenziato centinaia di dipendenti impegnati negli aiuti umanitari, due giorni dopo ha proceduto con il licenziamento di altri circa duemila. Il 10 marzo l’Amministrazione americana ha annunciato la cancellazione dell’83 per cento dei programmi gestiti da UsAid, l’11 marzo ha ordinato ai dipendenti di distruggere o bruciare documenti classificati e dati personali. Infine, il 19 marzo ha nominato due funzionari che come nuovi direttori dell’Agenzia hanno il preciso compito di smantellare UsAid. L’agenzia impiegava oltre 10 mila persone. A breve saranno 15 (quindici).

 

Intanto tutta l’Ucraina oggi è così: una specie di sottobosco di oggetti culturali incredibilmente interessanti, dove le idee e l’energia e la resistenza sono autoctoni, ma l’innaffiatoio è stato prevalentemente americano, e in seconda battuta europeo. E con un po’ di acqua gli alberi avevano messo su grandi foglie. Al Veteran Hub, realtà presente in tutta l’Ucraina, il decespugliatore Trump/Musk ha sfrondato interi programmi rivolti all’assistenza fisica, psicologica, e sì, anche intellettuale e artistica, per i veterani. Quelli che hanno combattuto prima a EuroMaidan, massacrati dal regime di Yanukovich per essere andati in piazza con le bandiere dell’Europa (mentre noi ci domandavamo sul divano se l’Ue era buona o cattiva), poi nel Donbas e Luhansk nel 2014 e negli anni a seguire, e infine nell’aggressione su vasta scala. A Vinnytsia, per dire, il Veteran Hub ha perso circa due terzi delle proprie entrate. Vale ricordare che molti dei dipendenti del centro sono parenti di soldati attualmente al fronte, caduti in combattimento o rimasti feriti. Al Pen Ukraine i tagli sono stati violenti. Cosa ne sarà delle infografiche che giravano nelle scuole elementari e medie di tutto il paese, con le quali veniva spiegato ai bambini il pericolo rappresentato dai diversi tipi di mine, una realtà quotidiana, stampate tutte grazie a UsAid? E dei giornali indipendenti, grandi medi e piccoli, che contavano anche su quegli aiuti, dall’Ukrainska Pravda a Tsukr, da Gwara Media a Bihus.Info, al Kramatorsk Post, al Severodonetsk Online a decine di altri? Cosa ne sarà, in definitiva, di tutta l’infrastruttura di controinformazione e puntello liberaldemocratico nell’intero arco dell’ex Patto di Varsavia e in generale nell’Europa centrorientale, paese per paese? “In questo momento, abbiamo coperti gli stipendi di tutti per i prossimi due mesi, ma dopo non c’è alcuna certezza. La maggior parte dei media indipendenti in Moldavia è sostenuta da finanziamenti esterni”, ha dichiarato Anastasia Condruc, direttrice di Moldova.org, testata indipendente. “Lo stato finanzia un canale televisivo pubblico e una radio pubblica. Molti progetti legati alle infrastrutture stradali, al business, all’agricoltura e all’istruzione in Moldavia sono stati sospesi, è difficile stimare i danni provocati, soprattutto nel lungo termine. Temo che il vuoto lasciato dagli Stati Uniti possa essere colmato dalla Russia. Vediamo politici locali filorussi che festeggiano il congelamento dei finanziamenti”. In Polonia, le sovvenzioni dagli Stati Uniti arrivavano ad almeno trenta redazioni, tra testate nazionali e stampa locale: tra le altre, Krytyka Polityczna, Kultura Liberalna e Tygodnik Powszechny. In Finlandia, a essere colpita è stata perfino la Fondazione di Helsinki per i diritti umani, nata nel 1989 sull’onda del formidabile movimento del dissenso dei decenni precedenti; nella Serbia del filorusso Vucic, un progetto sempre di UsAid per “promuovere la diversità, l’equità e l’inclusione nei luoghi di lavoro e nelle comunità imprenditoriali” è stato oggetto di un comunicato derisorio della Casa Bianca che lo ha preso come esempio di spreco e sperequazione del denaro degli onesti contribuenti americani da parte delle amministrazioni precedenti.

 

La cultura corrosiva del sospetto e del risentimento è proprio quella che porta le persone oggi in occidente ad alzare il sopracciglio scettico su una cosa che è stata il sacrosanto pilastro dello sviluppo e del progresso ben prima di UsAid: l’idea che si possa far coincidere il giusto e l’utile, che una cosa buona agli altri faccia anche e soprattutto bene a chi dona, per difenderne la proiezione internazionale. Appena due giorni dopo la sospensione degli aiuti, il sito di Ukraïner è stato colpito da un massiccio attacco DDoS. Un campanello di allarme, un atto di intimidazione. Di lì a poco Bogdan Logvynenko è diventato il bersaglio di una campagna diffamatoria da parte di un blogger ucraino che ora si trova nell’Ue, “probabilmente in collaborazione con i servizi segreti russi”. Contemporaneamente, racconta Bogdan, intere bot farm hanno lanciato una campagna aggressiva contro le sue pagine social. “E’ stato un vero e proprio assalto digitale. L’obiettivo era evidente: minare la nostra credibilità, soffocare la nostra voce, screditare il nostro lavoro agli occhi dei sostenitori”.

Lo scudo americano viene meno. Che fare? Alla redazione di Grechka, un giornale online locale di Kropyvnytskyi, con circa 230 mila visitatori al mese, in un giorno è scomparso circa l’80 per cento dei fondi. Dall’inizio dell’invasione su larga scala, quattro quinti delle entrate erano finanziamenti a fondo perduto provenienti da vari donatori, direttamente o indirettamente sostenuti dagli Stati Uniti, anche attraverso Internews Network, cofinanziata da UsAid, che ovunque finanzia i media locali. Sono sempre piccole cifre, minuscole rispetto ai budget per la Difesa o per le infrastrutture: 50 mila dollari, distribuiti in due anni.
Quelli di Grechka, racconta la redattrice del giornale Anastasia Dzyubak, hanno subito fatto domanda per un sostegno d’emergenza allo European Endowment for Democracy (Eed). L’hanno ottenuto. Fino a marzo 2026 sono coperti. Sono molto grati. Sarebbe bello chiudere con questo lieto fine: e venne l’Europa. Magari a rilevare dagli Stati Uniti la praghese Radio Free Europe/Radio Liberty, come si è speculato in queste settimane. E venne l’Europa, nel suo risveglio, a fare quello che gli americani hanno fatto per sessantaquattro anni anche per lei. Peccato però che le cifre dicano una storia diversa, almeno per adesso. Prendiamo ad esempio l’Eed, nato nel 2013 in seno alle istituzioni comunitarie, per iniziativa della Polonia di Donald Tusk, con il compito di fare esattamente quello che fa UsAid, solo però per la parte di puntello democratico, per conto dell’Europa. Lo ricordate, il budget UsAid di 50 e passa miliardi di dollari? Ecco, l’intero bilancio del suo consimile europeo per il 2024, a due anni dall’invasione su vasta scala di un paese europeo, è stato di 44. Milioni, però.

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