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L'editoriale del direttore

Un argine all'estremismo del presente. Così Trump ha rivitalizzato la globalizzazione

Claudio Cerasa

Dai dazi alla Fed fino a Musk. La difesa della nostra democrazia e della nostra libertà passa dai mercati. Storie, esempi e numeri per aggiungere un tassello al venticinque aprile 

Ieri i partigiani, oggi i mercati. Lo sappiamo, certo, siamo ingenui ma non fino a questo punto. E lo sappiamo che è solo un sentimento momentaneo, e che poi tutto tornerà come prima. Ma almeno il momento lasciatecelo godere. E almeno il momento lasciatecelo incorniciare. Il momento è quello che è, ovvio, e non può essere un bel momento, lutti papali a parte, il momento in cui l’America fonte dei nostri sogni è diventata l’America fonte dei nostri incubi e il momento in cui il paese esportatore delle libertà, non diciamo della democrazia per non far borbottare il cretino collettivo, è diventato il paese promotore di tutto il suo contrario. Eppure, in un certo senso, Trump, con i suoi modi, i suoi strumenti, le sue minacce, ha avuto degli effetti imprevisti.

Trump, se ci pensate bene, ha rivitalizzato molto di ciò che ha sfidato, Europa compresa, e ha reso incredibilmente popolare una parola che fino a qualche mese fa veniva considerata svuotata, finita, screditata, persino sputtanata: la globalizzazione, bellezza. Lo sappiamo, per carità, non sarà un affetto stabile, come forse direbbe Giuseppe Conte. E sappiamo che la globalizzazione oggi è tornata di moda solo grazie a uno schema collaudato, consolidato, in base al quale il nemico del mio nemico è sempre mio amico – e così oggi è con i mercati. E alla fine anche le cape più toste stanno capendo che per combattere il modello Trump, per non assecondarlo, occorre difendere tutto quello che Trump sta provando a distruggere (e forse lo ha capito anche Elon Musk, che osservando il collasso di Tesla, il cui utile netto trimestrale è calato del 71 per cento, prima ha attaccato il teorico dei dazi del trumpismo, Peter Navarro, definendolo un idiota, e poi ha fatto sapere di essere pronto, da maggio, a tornare a occuparsi più delle sue aziende, prima di litigare a muso duro alla Casa Bianca con il segretario al Tesoro Scott Bessent, proprio sui temi di politica economica).

 

                 

 

Ci sono antiprotezionisti e antiprotezionisti, certo. Ci sono antiprotezionisti di cuore, per il libero mercato. Ci sono gli antiprotezionisti che criticano i dazi solo perché non vogliono rispondere ai dazi di Trump con altri dazi, per non farlo arrabbiare (modello Salvini). Ci sono gli improvvisi amici della globalizzazione che usano una parola un tempo demonizzata, oltraggiata, come uno scudo dietro al quale nascondere i propri peccati (come la Russia di Vladimir Putin, genialmente ostile ai dazi di Trump perché questi sarebbero una “minaccia per il Wto”, lo hanno detto davvero, e come la Cina di Xi Jinping, che dopo l’exploit del 2019, quando in seguito ai primi dazi di Trump fece a Davos un incredibile discorso a favore della globalizzazione, oggi è diventata il principale nemico del protezionismo trumpiano, arrivando addirittura a suggerire all’ambasciata cinese a Washington di citare le argomentazioni di Ronald Reagan contro il protezionismo di Trump). Ci sono antiprotezionisti e antiprotezionisti, ovvio. Ci sono amici del mercato veri e amici del mercato di circostanza, lo sappiamo. Ma il dato, a oggi, è questo: il mercato, finora, è l’unico argine al trumpismo. E fino a che l’amore improvviso per la globalizzazione sarà al centro della scena, vale la pena godersi lo spettacolo. Il Times di Londra, tanto per dirne una, pochi giorni fa, assaporando lo spettacolo come stiamo provando a fare noi, ha dedicato un articolo gustoso agli effetti prodotti dal trumpismo proprio sulla globalizzazione. Il crollo del valore di mercato delle aziende statunitensi – 6.600 miliardi di dollari nelle prime 48 ore dopo il “giorno della liberazione” di Trump – è stato, scrive il Times, un indicatore del valore che gli investitori attribuiscono al libero scambio

Ed è stato proprio quando la perdita di valore delle azioni ha iniziato a riversarsi sui mercati obbligazionari, minacciando un collasso finanziario, che Trump ha ceduto sui dazi (anche il passo indietro fatto sul licenziamento di Jerome Powell alla Fed nasce da qui: Trump ha minacciato Powell, i mercati hanno parlato, Trump si è spaventato e ci ha ripensato). Il presidente americano, scrive ancora il Times, ha combattuto la globalizzazione, e la globalizzazione ha vinto, almeno finora. E la globalizzazione, se vogliamo, sta vincendo anche se si sceglie di osservare altre dimensioni. Prendete, per esempio, gli accordi di libero scambio: un trionfo, un tripudio. Dal primo febbraio, tanto per dirne una, è in vigore l’accordo tra Unione europea e Cile. La Nuova Zelanda, poche settimane fa, ha eliminato il 98 per cento dei dazi con gli Emirati Arabi. Bhutan e Thailandia, poco tempo fa, hanno liberalizzato il commercio bilaterale. L’India è in trattativa avanzata per un nuovo accordo di libero scambio sia con il Regno Unito sia con l’Ue. L’Ue, Mercosur a parte, punta a rilanciare le intese con Messico e Australia e ha annunciato la ripresa dei negoziati per un accordo di libero scambio con la Malesia. Niente male, no? Janan Ganesh, la scorsa settimana, sul Financial Times, ha scritto un articolo dedicato proprio a questo tema: “Il regalo di Donald Trump alla globalizzazione”. Ganesh sostiene una tesi semplice: “Il libero scambio non è mai stato così popolare come oggi”.

 

                                    

Ha notato che il protezionismo si può rivelare popolare solo in campagna elettorale finché nessuno è costretto a fare sacrifici materiali. E ha concluso il suo ragionamento arrivando a dire, con tono trionfale, che le vecchie verità liberali, almeno per qualche settimana, sono di nuovo preferibili alle verità che animano il fronte unico del partito della chiusura. L’editorialista del Financial Times, aggiungendo un tassello ulteriore al nostro mosaico ottimista, dice che il sentimento di felicità, per il ritorno della globalizzazione, nasconde anche un sentimento di tristezza, di rimpianto, perché la verità è che l’affermazione del protezionismo in America non si è manifestata per caso ma è arrivata al punto in cui si trova oggi, ovvero alla Casa Bianca, anche grazie al fatto che tutti coloro che nel mondo avevano il compito di difendere la globalizzazione, quando potevano farlo, ricordando per esempio quanto la globalizzazione sia stata una leva per generare benessere, crescita, ricchezza e uscita dalla povertà per milioni di persone nel mondo, semplicemente non lo hanno fatto. E questo perché molti liberali, scrive ancora Ft, spesso tendono a preferire il “sentirsi bene piuttosto che il pensare seriamente”.

Il gran ritorno della globalizzazione è evidentemente legato in buona misura alla volontà di considerare nostri amici i nemici dei nostri nemici, quando si parla di Trump. Ma è sufficiente fermarsi un attimo per capire un’altra verità importante: se Trump, con le mosse protezionistiche, ha dimostrato di essere un nemico della libertà, per difendere la libertà, oggi, è necessario difendere tutto ciò che il presidente americano sta aggredendo, almeno quando si parla di economia. E anche se l’equilibrio potrebbe cambiare nel tempo, il risultato al momento c’è e vale la pena goderselo: Trump zero, globalizzazione uno. A voi studio. E buon 25 aprile a tutti, ricordando mai come oggi di coccolare e abbracciare i nuovi partigiani della difesa della democrazia e della libertà: i mercati, bellezza.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.