Canada, Australia, Ungheria. L'"effetto Trump" rilancia la sinistra nel mondo

Luciano Capone

La guerra commerciale del presidente degli Stati Uniti ha rivitalizzato i leader progressisti, da Mark Carney ad Anthony Albanese, che da sfavoriti sono passati in testa nei sondaggi. Ora persino il regno di Orbán traballa

Crolla Wall Street, affondano i Treasury, declina il dollaro, frena la crescita globale. Dall’Inauguration day di Donald Trump, e in particolare dal Liberation day, ovvero dall’annuncio della raffica dei dazi “reciproci”, sembra che tutto negli Stati Uniti e nel resto del mondo stia sprofondando. Ma non è tutto così. Ci sono indici che si stanno risollevando dopo un periodo di depressione, proprio a causa dell’effetto Trump.

Non parliamo, in questo caso, delle aspettative di inflazione e del rublo, entrambi in ascesa a causa dei dazi e della posizione pro russa dell’Amministrazione americana. Anche questo è nelle cose. L’effetto Trump, inaspettato, è quello rigenerante sulla sinistra. Non tanto sui democratici americani, che sono in uno stato di morte apparente, ma sulle sinistre mondiali che erano in una fase di difficoltà e ora stanno assistendo a una crescita nei sondaggi.

Il caso più emblematico è quello del Canada. Il destino politico del paese, dopo l’uscita di scena anticipata del primo ministro Justin Trudeau, sembrava segnato: la fine del ciclo politico liberale, iniziato nel 2015, era arrivata. Il leader del Partito conservatore, Pierre Poilievre, era in testa in tutti i sondaggi e con un margine molto ampio: il 20 gennaio, giorno dell’insediamento, il divario nelle rilevazioni tra i conservatori e i liberali era di oltre 20 punti a favore dei primi (44,8% contro 21,9%). Poi è arrivato Trump, e il quadro politico canadese si è ribaltato. 

Il presidente degli Stati Uniti ha iniziato a imporre dazi sul Canada e, addirittura, a mettere in discussione la sovranità e l’indipendenza del paese, parlando di un’annessione agli Stati Uniti come 51esimo stato. Le conseguenze sono state due: la nascita di un forte patriottismo canadese, fino ad allora inesistente, e l’incredibile sorpasso della sinistra sulla destra. Si vota il 28 aprile e, secondo gli ultimi sondaggi, il primo ministro liberale Mark Carney è in vantaggio su Poilievre di quasi 4 punti: 42,3% contro 38,6%. Oltre 25 punti recuperati in tre mesi. Certo il profilo di Carney, l’ex banchiere centrale che ha gestito la crisi finanziaria, si è rivelato adatto a gestire una tempesta commerciale come questa, ma il merito principale della risurrezione della sinistra canadese è tutto di Trump.

Una situazione analoga riguarda l’Australia, dove si voterà il 3 maggio. Il primo ministro laburista Anthony Albanese stava accumulando da metà 2023 uno svantaggio crescente rispetto allo sfidante conservatore Peter Dutton, che ha una retorica trumpiana, raggiungendo il divario più ampio proprio a inizio 2025. Ancora qui l’effetto Trump ha ribaltato tutto. L’Australia ha subìto dazi ingiustificati (soprattutto perché gli Stati Uniti sono in surplus commerciale), a cui il governo laburista ha deciso di non reagire con ritorsioni o controdazi (a differenza del Canada). Il premier Albanese, che era destinato alla sconfitta, è ora davanti ai conservatori in tutti i sondaggi con un vantaggio crescente (55,5% contro 44,5%).

Il boost trumpiano non c’è stato solo per le sinistre in crisi, ma anche per quelle che erano in ottime condizioni. In Messico la progressista Claudia Sheinbaum ha vinto lo scorso anno le presidenziali con oltre il 60% dei voti. Si pensava che da lì si potesse solo scendere, anche perché l’effetto dei dazi di Trump può essere devastante per l’economia messicana così dipendente dall’export verso gli Stati Uniti. In effetti le previsioni economiche non sono positive, secondo le stime dell’Fmi il Messico quest’anno a causa dei dazi dovrebbe entrare in recessione (-0,3%). Ma la sinistra non ha perso consensi, anzi li ha aumentati. La popolarità della Sheinbaum è ora oltre l’80%.

Persino il regno di Viktor Orbán, che governa in Ungheria ininterrottamente dal 2010, sembra al tramonto. A Budapest si vota l’anno prossimo e, nei sondaggi, il principale alleato di Trump in Europa è indietro rispetto allo sfidante Péter Magyar, che da gennaio sta accumulando un ampio vantaggio (44% contro 36%).

L’unico caso che sembra impermeabile a questa ondata è l’Italia. Nei sondaggi è tutto fermo alle europee: la destra di Giorgia Meloni resta poco sotto il 30%, mentre la sinistra di Elly Schlein poco sopra il 22%. Anche il divario tra le due coalizioni è invariato. E’ probabile che l’elettorato italiano sia immune all’effetto Trump, oppure gli elettori stanno semplicemente aspettando di vedere se la vicinanza di Meloni al presidente americano si rivelerà utile per risolvere la guerra commerciale dichiarata all’Europa. 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali