(foto di Aidin Geranrekab su Unsplash)

L'editoriale del direttore

L'altro conclave che serve per decidere il futuro dell'Europa

Claudio Cerasa

Dall’intelligenza artificiale alla cybersicurezza, la tecnologia è la forza costituente del nuovo ordine mondiale. Ma su questo terreno  il Vecchio continente è drammaticamente in ritardo. Che fare: qualche idea da Giuliano da Empoli e Mario Draghi

Trump, l’Italia, l’Europa, i nuovi equilibri, e l’altro conclave necessario: quello per decidere il futuro dell’Europa. Il Grand Continent è una rivista molto ambiziosa che da alcuni anni prova a offrire spunti di riflessione interessanti su diversi temi cruciali, “strateggici” come direbbe Giorgia Meloni. L’idea di fondo che anima le pagine del Grand Continent è che l’Europa, per poterci proteggere, deve diventare più grande, più matura, più sovrana, oltre che più integrata, e per andare in quella direzione l’Europa, la stessa Europa che sta cercando disperatamente di spingere Donald Trump lontano dall’isteria populista, e dentro un codice linguistico comune, come hanno provato a fare sabato scorso al funerale di Papa Francesco i leader che hanno dialogato con il presidente americano, deve imparare a ragionare sul futuro non in modo fideistico ma in modo critico e a volte anche autocritico. L’europeismo del Grand Continent è un europeismo che ci fa sentire a casa perché la sfida dell’europeismo di oggi non è solo resistere all’onda d’urto dei populismi ma è capire quali sono i vizi e i tabù che la battaglia contro gli estremismi di vario conio può permetterci di individuare con forza, per poterli superare.

Nell’ultimo numero del Grand Continent, il curatore del saggio in uscita, Giuliano da Empoli, dedica un lungo intervento a una questione cruciale nei rapporti tra Europa e Stati Uniti. E quella questione, poi approfondita in un altro passaggio della rivista da Mario Draghi, potrebbe diventare ancora più interessante se davvero, come si dice, uno dei temi della trattativa fra Ursula von der Leyen e Donald Trump dovesse diventare il terreno delle regole per le Big Tech. La questione riguarda un argomento che come avrete capito abbiamo a cuore, ovvero l’intelligenza artificiale. E la tesi di Giuliano da Empoli è suggestiva. Secondo Da Empoli, il mondo è entrato in una nuova fase in cui si combina il potere imperiale con la tecnologia. Questo modello, incarnato dal duo Trump-Musk, unisce l’autoritarismo alla promessa di un futuro “abbondante e completamente controllato da macchine intelligenti”, rappresenta una visione post democratica del potere e mira a trasformare Stati Uniti e Cina in imperi capaci di controllare popolazioni e territori anche oltre i confini terrestri attraverso AI, satelliti, armi autonome e cybersorveglianza. Secondo Da Empoli, l’Unione europea è l’unico argine possibile al progetto tecno-imperiale. Ma il grave problema dell’Unione europea riguarda l’immobilismo delle sue élite, che sottovalutano l’entità dello scontro in atto. Una via d’uscita però c’è. E non è nell’indignazione sterile, né nella nostalgia per l’ordine perduto, ma è in una nuova “sovranità digitale europea”. In sintesi. L’Europa deve imparare a dominare la tecnica senza farsi dominare da essa. Deve costruire un ecosistema tecnologico coerente con i propri valori, e deve farlo presto. Da Empoli questo non lo dice, ma il punto è evidente ed è attuale. Se davvero Meloni vuole aiutare Trump ad allentare le regole europee contro le Big Tech, e non ci sarebbe nulla di male, l’Italia dovrebbe trovare un modo per diventare un motore della trasformazione dell’Europa, provando a fare della sovranità tecnologica una leva utile per costruire una nuova forma di patriottismo europeo. Già, ma in che modo?

 

Qualche risposta per provare a capire come muoversi, come aiutare a dare un senso oggi all’Europa anche sulle sfide tecnologiche, la offre Mario Draghi, sempre sul Grand Continent. L’ex premier parte da una constatazione lineare e oggettiva: il campo di battaglia della politica mondiale, oggi, è diventato l’infrastruttura tecnologica. E dunque, cloud, intelligenza artificiale, data center, semiconduttori, standard industriali, sistemi di pagamento. Sono questi i nuovi “territori sovrani” da presidiare. In questo nuovo mondo, l’Europa è drammaticamente in ritardo. E non è solo un ritardo industriale – nessuna grande industria europea tecnologica, pochi produttori di chip strategici e una quota minima nei brevetti di frontiera. E’ soprattutto un ritardo strategico. Perché Cina e Stati Uniti investono nella tecnologia con una visione geopolitica e imperiale, mentre l’Europa continua disgraziatamente a trattarla come una questione di mercato. Draghi scrive che “la tecnologia è diventata una forza costituente”, capace di ridefinire le gerarchie globali e di plasmare i rapporti tra stati, cittadini, imprese e istituzioni. Ricorda che il vecchio ordine mondiale – quello che ha accompagnato l’integrazione europea per 70 anni – si reggeva su due presupposti: il libero commercio globale come motore della prosperità, e una protezione militare e tecnologica garantita dagli Stati Uniti. E ricorda che entrambi i modelli sono venuti meno. E l’Europa, nonostante questo, ha continuato a comportarsi come se il mondo fosse quello di ieri, senza comprendere però che il mondo parla un po’ meno la lingua del Wto e parla un po’ più la lingua dei blocchi, dei decoupling, delle sanzioni incrociate, delle catene del valore militarizzate.

 

Questa asimmetria, aggiunge ancora l’ex premier, si è vista chiaramente con l’intelligenza artificiale. Le principali piattaforme di AI sono americane o cinesi. I dati che alimentano i loro modelli sono perlopiù globali, inclusi quelli europei. Ma le regole che governano il loro sviluppo sono stabilite altrove. E’ mai possibile andare avanti così? L’Europa, dice Draghi, rischia di diventare una “colonia regolatoria”: elabora norme avanzate ma non controlla le piattaforme che dovrebbero applicarle. Ed è come scrivere il codice etico di una macchina che non si possiede. Per Draghi, dunque, il cuore della questione non è economico, ma è politico. L’Europa può e deve avere una propria visione della tecnologia. Ma per farlo deve “accettare il conflitto”, non evitarlo. Deve smettere di pensare che l’ordine mondiale si costruisca per “gravità morale”. E deve riconoscere che sovranità, oggi, significa scegliere da che parte stare. Perché la tecnologia non è solo uno strumento, ma è anche una struttura del potere. E se è vero che il progetto europeo si regge su tre pilastri (economia sociale di mercato, stato di diritto, democrazia liberale) nessuno di questi può sopravvivere in un mondo in cui l’infrastruttura tecnologica è controllata da altri. Il passaggio necessario è quello di essere un po’ meno regolatori e un po’ più protagonisti industriali. Come si fa? Draghi ha qualche idea. Serve un bilancio federale per la tecnologia. Serve un bilancio europeo di dimensioni federali (paragonabile almeno al Recovery Fund) dedicato allo sviluppo di tecnologie strategiche, strutturato non come “aiuti di stato” ma come investimento sovrano in beni pubblici europei. Serve un fondo strategico per l’AI pubblica e Draghi propone la creazione di un modello europeo open source, addestrato su basi culturali europee, gestito con supervisione pubblica, e destinato ad applicazioni civiche, sanitarie, educative e giudiziarie (l’alternativa è “utilizzare ChatGPT per governare e sperare che funzioni”). Serve capire che la cybersicurezza non è una questione militare, ma sistemica. Serve comprendere che l’Europa deve trattare la resilienza digitale come una politica industriale. Serve capire l’Europa ha bisogno di una “Nato del cyber”, capace di difendere l’infrastruttura critica e le informazioni sensibili. Serve un’integrazione tra Difesa, Spazio e AI perché l’AI, dice l’ex premier, non è neutra nemmeno nel settore militare. L’ostacolo maggiore, dice Draghi, e ci uniamo alla critica, è la cultura europea del rinvio. Perché ogni volta che si apre una finestra di opportunità, l’Europa tende a rimandare, a negoziare al ribasso, a mediare fino all’irrilevanza, ostaggio di un’ossessione (l’unanimità) e di una paura (non saper gestire il conflitto). “Se aspettiamo che tutti siano d’accordo, avremo perso tutto”, scrive ancora Draghi. E il rischio non è solo perdere sovranità. E’ perdere il senso stesso del progetto europeo.

 

Se non sapremo integrare l’AI nei nostri valori, è il senso del saggio del Grand Continent, saranno altri a farlo, e lo faranno in nome della potenza, del controllo, dell’efficienza. L’Europa fondata sulle regole, sulle barriere, sulla rigidità, è un’Europa che può usare la sua fermezza per negoziare con Trump. Ma l’Europa che sceglie di trasformare le norme in visione è un’Europa che non solo non ha futuro. E’ un’Europa che oltre a rinunciare a domare l’intelligenza artificiale – tema che appassionava anche Papa Francesco, lo sappiamo, e che però i leader italiani dovrebbero imparare a maneggiare non solo parlando di etica, di morale, di cultura, ma parlando prima di tutto di industria – sceglie di rinunciare ad avere un’intelligenza per trasformare la rivoluzione tecnologica in un’opportunità per guardare con ottimismo ai nuovi orizzonti. Serve un conclave, ne serve un altro, non solo per decidere il prossimo pontificato ma anche per mettere finalmente a tema il domani della nostra Europa. Si scrive sovranità, si legge futuro.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.