La prima volta
Il popolo europeo ancora da costruire e l'Unione che vuole imparare a parlare con una voce sola. Gli abbracci, un molo che ha cambiato nome e una signora che piace tanto a Bruxelles
"Ma tu resta qui
E stringimi forte a te come fai solo tu
E' l'Europa che ce lo chiede
Che poi quando sto con te
Sono più lucido e produco di più
Perciò lo vedi anche tu
Che è l'Europa che ce lo chiede"
dall'ultimo album di Dutch Nazari, "Ce lo chiede l'Europa"
7 marzo 2019
Andate a votare ragazzi, andate a votare. Nella campagna elettorale europea ci sono tantissime iniziative per convincere i giovani a presentarsi alle urne: qualsiasi sia il vostro voto, basta che vi presentiate al seggio. I ragazzi sono più apatici degli anziani, e poiché nel 2005, per la prima volta nella storia dell'Ue, gli anziani sono diventati più dei giovani, l'effetto poi si vede. Ricordate la Brexit, i nipoti che convincevano le nonnine a votare per il "remain" e poi loro non sono andati a votare e le nonnine sì? Ecco.
Per le Europee siamo di nuovo messi così.
Come si crea la mobilitazione? Se avete una risposta, potete postarla qui.
Se siete giovani e volete organizzare un evento nella settimana della gioventù europea, dal 29 aprile al 5 maggio, potete iscrivervi qui (a giudicare dalle indicazioni, i lavori sono un po' indietro).
In ogni caso seguite @EuropeanYouthEU che cerca in tutti i modi di invogliare i giovani a partecipare alle elezioni – l'hashtag è #ThisTimeIamVoting, che è anche un sito per ogni paese – e ad appassionarsi al progetto europeo: se mandi la foto più bella, hai un biglietto Interrail in regalo, se dai un'idea intelligente che convinca un amico a votare vinci un viaggio a Bruxelles, se sai anche parlare di democrazia senza far addormentare nessuno magari ti facciamo pure presidente (dell'Ue).
I più meritevoli – 300 in tutto – saranno invitati l'8 maggio in Transilvania, nel borgo a stella di Alba Iulia (a circa 50 chilometri da Sibiu, la località che la Romania, che ha la presidenza di questo semestre, ha scelto per il vertice dei capi di stato e di governo che si terrà il giorno successivo). I criteri per partecipare sono semplici: età compresa tra i 18-25 anni, residenza in un paese membro dell'Ue e "voglia di esprimere pareri sul futuro dell'Ue".
La semplicità è alla base di ogni progetto pensato per i giovani. In questi giorni è stato pubblicato un video che spiega perché è comodo per i giovani far parte del popolo europeo: puoi studiare all'estero, respiri aria pulita, mangi cibo sicuro, non paghi il roaming, usi l'euro un po' dappertutto.
E' sufficiente per andare a votare? Forse no.
Il problema dell'Ue è che la semplicità sembra banalità e che i disagi – anche soltanto il tempo perso – che c'erano prima dell'armonizzazione europea sono stati dimenticati: come coi matrimoni lunghi, come con i genitori sempre presenti, finisci per dare tutto per scontato. E "ce lo chiede l'Europa" è diventato sinonimo di un'imposizione dolorosa.
Dovrebbe essere tutto il contrario, dovrebbe essere come canta Dutch Nazari, "stringimi forte a te come sai fare solo tu": l'Europa che abbraccia.
Nel 2014, l'affluenza alle Europee è stata bassa in generale (43 per cento, simile a quella del 2009, in calo dal 1979) e minima in particolare per i giovani (28 per cento). Nell'analisi post voto di allora condotta dall'Eurobarometro, emergevano alcuni dati interessanti. Tra tutti: i giovani decidono all'ultimo se e cosa votare, hanno più fiducia nel progetto europeo rispetto agli over 55, ma hanno un "impulso a non votare" piuttosto spiccato.
Un appunto: quanti sono i giovani in Europa? Le statistiche indicano come giovani la fascia da 15 a 29 anni, che rappresenta il 17 per cento del popolo europeo (circa 87 milioni di persone). E la piramide demografica giovani-vecchi è piuttosto impressionante.
Un libro uscito nel 2016 – "Young People’s Voting Behaviour in Europe. A Comparative Perspective", di Nicola Maggini, membro del Cise, il Centro di studi elettorali – spiega l'andamento del voto giovanile in alcuni paesi europei (compresa l'Italia) e individua alcuni elementi comuni: l'effetto generazionale, che conta più dell'età stessa, e l'effetto cosiddetto di "periodo", cioè un evento che influenza il voto di tutti, indipendentemente dall'età. C'è anche un altro aspetto interessante: cresce il numero di chi si dichiara di "centro". Il centro è considerato uno "spazio sicuro", lontano dalle lotte più ideologiche, e in controtendenza con il mito del giovane rivoluzionario, questo spazio diventa allettante.
O forse è soltanto disinteresse, chissà.
Cosa accadrà a fine maggio allora?
Secondo gli studi attualmente disponibili:
- I due gruppi tradizionali al Parlamento europeo non piacciono ai giovani. In particolare, il Partito popolare europeo, che dovrebbe comunque essere il primo partito, è molto basso nelle intenzioni di voto giovanili. Ma anche il S&D, che raccoglie i partiti di sinistra, è in forte calo, a causa anche della diserzione dei giovani
- I giovani tendono a votare ciò che è, o che percepiscono, anti establishment. La definizione di "anti establishment" può variare considerevolmente. Per esempio: Emmanuel Macron era anti establishment alle presidenziali francesi del 2017? Per i giovani no, che al primo turno votarono al 30 per cento per la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon e al 21 per la destra estremista di Marine Le Pen
- La "rinascita verde", per quanto esagerata, è trainata dai giovani. In Germania, dove i Verdi stanno quasi sovrapponendosi alla sinistra, i giovani sono un elettorato decisivo, non soltanto per i Verdi, ma per i moderati tutti.
---> In America si registra lo stesso fenomeno: per mobilitare i giovani, il Partito democratico vuole usare la questione ambientale. David Axelrod, ex capo della strategia di Barack Obama, dice che durante l'Amministrazione precedente il cambiamento climatico non era tra le preoccupazioni maggiori dell'elettorato "ma sono passati dieci anni e le inondazioni e gli incendi sono diventati sempre più visibili". L'ambiente è uno dei pilastri di quel che l'Economist ha definito "il millennial socialism", che è la novità politica di questa stagione.
- I giovani europei non sono tutti progressisti. Gli esperti indicano come caso emblematico la Polonia. Alle parlamentari del 2015, due terzi dei giovani votò a destra (il PiS al governo prese il 27 per cento del voto giovanile, cui va aggiunto il 21 per cento per i populisti di destra di Kukiz'15, con cui vorrebbero allearsi i Cinque stelle). Le regionali dello scorso anno hanno confermato il trend. Anzi c'è un elemento ulteriore: la gioventù a est è tendenzialmente più di destra rispetto ai paesi dell'ovest.
Secondo gli esperti, il problema dell'Europa (ma in generale delle democrazie) con i giovani è la memoria. Yascha Mounk, saggista e autore del recente "Popolo vs Democrazia" (Feltrinelli), lo spiega in modo molto chiaro:
"Una possibile spiegazione del disamore giovanile per la democrazia è che i ragazzi non hanno molto idea di che cosa significhi vivere in un sistema politico diverso. I millennial, in occidente, non hanno quasi conoscenza diretta della Guerra fredda e forse non conoscono nemmeno di persona qualcuno che ha combattuto il fascismo. Per loro, l'importanza di vivere in una democrazia è molto più astratta che in passato"
Per i giovani è più facile confrontarsi con gli choc più recenti e desiderare quindi un cambiamento rispetto a quelli, con nuovi leader e nuovi partiti. E per questo sono più aperti alla sperimentazione di voti diversi.
Nel 2015, nei panni di capo della Dna, la Direzione nazionale anticorruzione romena, Laura Codruța Kövesi riuscì a incriminare quattordici persone. Quattro ministri e dieci sindaci di città romene. L’Unione europea, che aveva lasciato entrare Bucarest nel 2007 a patto che risolvesse i suoi problemi di corruzione, fu entusiasta del lavoro della Kövesi. I romeni, che avevano a lungo sospettato di avere una classe politica corrotta, non furono sorpresi dal trovare un fondamento ai loro sospetti. E infine, alcuni politici, soprattutto quelli che speravano che la giovane procuratrice non fosse poi così scomoda, si infastidirono e iniziarono a pensare a come mandarla via.
Nel 2016, per volontà del presidente della Romania, Klaus Iohannis, la Kövesi viene rinominata a capo della Dna. Lo stesso anno vennero indagate 1.270 persone. I numeri piacevano sia a Bruxelles sia agli elettori romeni, un po’ meno alla classe politica che dopo la vittoria dei socialdemocratici di Liviu Dragnea alle elezioni parlamentari iniziò a fare di tutto per allontanarla.
Uscirono scandali sulla sua tesi di laurea, fu accusata di plagio, ricevette anche alcune minacce, fino a quando il ministro della Giustizia non chiese la sua destituzione. La Romania reagì in modo inaspettato, scese in piazza, chiedeva che a Laura Kövesi fosse restituito il posto che le era stato assegnato e riprendesse la sua lotta contro la corruzione.
Più i socialdemocratici di Dragnea destinavano alla procuratrice parole avvelenate, più i romeni organizzavano manifestazioni reggendo in una mano la bandiera europea e nell’altra le manette.
Ora la battaglia è arrivata a Bruxelles, dove per il 2020 Consiglio e Parlamento designeranno il capo della nuova, nuovissima procura europea, un’autorità comune che potrà indagare sui paesi europei che aderiranno all’iniziativa, l’adesione non è obbligatoria. Tra i nomi che vengono proposti, ricorre più di tutti quello di Laura Kövesi: chi meglio di lei potrebbe occuparsi di inchieste su frodi ai danni dei fondi europei? Nessuno. La Kövesi per le istituzioni europee è una garanzia di serietà e di dedizione, ma fino a luglio il Consiglio, al quale spetta la decisione assieme ai parlamentari, è sotto la presidenza della Romania, che è ancora sotto il governo dei socialdemocratici.
A Bucarest spingono affinché la carica vada a Jean Francois Bohnert, il candidato francese, e la parola della Romania conta moltissimo in questa elezione.
Anversa, principale città delle Fiandre, si appresta a celebrare il settantacinquesimo anniversario della sua liberazione e da alcuni anni ha scoperto di essere stata un piccolo e crudele esperimento dello sterminio nazista del popolo ebraico.
Da ultimo è stato il rettore dell’università della città, lo storico Herman Van Goethem, a presentare un libro dal titolo “1942, l’anno del silenzio”. Il protagonista è Leo Delwaide, sindaco, poi deputato dell’Unione cattolica e assessore fino al 1978, il quale ha avuto una parte attiva nella deportazione e nelle violenze compiute contro gli ebrei.
Anversa era un microcosmo, un esperimento di antisemitismo.
Delwaide si convinse che il nazismo fosse ormai una condizione irreversibile, che la democrazia fosse un sistema superato e la città doveva partecipare in ogni modo a questo nuovo ordine, a questa barbarie. Decise di istituire un’accademia di polizia dove insegnare le regole dell’obbedienza “senza giudizio e senza comprensione”.
Poi arrivò il 1942, silenzioso, arrivarono le prime sconfitte, la Germania nazista non era più un qualcosa di irreversibile che stava deformando il resto dell’Europa e Anversa passò dall’altra parte, dalla parte di chi doveva resistere al nazismo, cancellare le tracce dell’antisemitismo. Leo Delwaide nel 1944 si dimise e riuscì a sfuggire al processo. Il suo rientro in politica qualche anno dopo fu ben accolto, e nel 1949 fu eletto in Parlamento. Morì e il suo nome rimase legato alla resistenza e alla rinascita della città. Non all’antisemitismo e non per aver reso Anversa un esperimento della violenza nazista.
Il lungo molo del porto di Anversa che per anni era stato a lui dedicato oggi si chiama “Molo della liberazione”.
“Dobbiamo migliorare la capacità di parlare con una sola voce quando si tratta della nostra politica estera (...). Non in tutto ma in questioni specifiche: diritti umani e missioni civili. Sulla base dei trattati attuali, questo è impossibile e credo sia giunto il momento di fare uso di quella clausola che ci consente di passare al voto a maggioranza qualificata prevista dal Trattato di Lisbona”.
Non c’era stata ancora la crisi venezuelana, ma con queste parole nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione nel settembre scorso, Juncker avvertiva la necessità di fare un passo avanti, superare l’unanimità in politica estera a favore di un voto a maggioranza qualificata.
Ma parlare “con una sola voce” non vuol dire necessariamente parlare con la voce di tutti e 28, a breve 27, stati membri dell’Ue.
Il 9 maggio a Sibiu, dopo l'evento per i giovani, all’ultimo vertice prima delle Europee e il primo, in teoria, dopo la Brexit, la Commissione spera di prendere una decisione sulla politica estera comunitaria e i suoi meccanismi.
- Chi è a favore. Già lo scorso giugno a Meseburg, Francia e Germania avevano manifestato il loro sostegno all’idea di superare l’unanimità. Anche Belgio e Paesi Bassi non si sono dimostrati contrari, si tratta di stati che con facilità sposterebbero con il loro voto le decisioni in materia di politica estera.
- Chi è contro. Quasi tutti gli stati più piccoli rimangono sulla difensiva e non stupisce che i più ostili siano le nazioni dell’est Europa. Per Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e anche Romania, superare l’unanimità vorrebbe anche dire rischiare che l’attivazione delle procedure di infrazione per violazione dello stato di diritto – che attualmente vedono imputate Varsavia, Budapest e Bucarest – non potrebbero essere più bloccate dal voto contrario dei paesi amici.
Il superamento dell’unanimità apre però un problema di legittimità. Nel discorso sullo stato dell’Unione Juncker parlava di questioni umanitarie o missioni civili, come nel caso del Venezuela. Ma cosa succede se il voto riguarda qualcosa di più grande e di più lacerante? Per dire: si può decidere una guerra senza essere tutti d'accordo?
Il cambiamento sarà comunque un processo lungo che richiede colloqui e ratifiche ingombranti. Ma nel caso un paese, anche il più piccolo dei paesi, si trovasse in disaccordo con gli altri, potrebbe invocare una specie di veto chiamato “freno di emergenza”. Insomma, la proposta finale è sostituire il “veto” dell’unanimità con il “quasi veto”: forse non è del tutto una rivoluzione.
Quel che abbiamo letto e commentato in questi giorni:
- Nella più grande famiglia europea, il Ppe, c'è un gran casino. A causarlo è stato il governo ungherese di Viktor Orbán, con la sua campagna pubblicitaria contro i suoi stessi alleati europei
- Emmanuel Macron ha ripreso la sua campagna europea dove l'aveva lasciata con il discorso alla Sorbona. Con la sua lettera aperta agli europei sul "Rinascimento europeo", il presidente francese ha recuperato lo slancio del 2017, il dialogo diretto con i cittadini e la sua visione di un'Europa che protegge. Ci sono molti temi di dibattito nella lettera (qui un thread di Jeremy Cliffe ne evidenzia alcuni) che ci riguardano, mentre Macron deve fare le liste per le Europee e prepara un'offensiva sull'ambiente
- Per restare in tema: un articolo molto interessante sui gilet gialli, con un punto di vista più americano
- A queste elezioni si fa un po’ fatica a trovare dove sono i centri, soprattutto il centrodestra. In alcune nazioni (c'è pure l'insospettabile Spagna) stanno addirittura sparendo
- Americani e cinesi sono campioni industriali e digitali, va bene, ma l'Europa può almeno provarci, a essere competitiva, dice il liberale Guy Verhofstadt
- I cittadini globalizzati sono davvero “citizen of nowhere”, come sostenne Theresa May nel suo primo discorso da leader del Partito conservatore, nell’ottobre 2016? Anche la premier britannica probabilmente ci ha ripensato: il cosmopolitismo non è sinonimo di mancanza di ideali, anzi. Cosa ci resta se dimentichiamo che siamo tutti cittadini di “un piccolo, caldo e intensamente vulnerabile mondo”? Poco o niente, scrive Kwame Anthony Appiah sull’ultimo numero di Foreign Affairs, “elsewhere has never been more important”. L’altrove non è mai stato più importante.
Eccoci, il quarto appuntamento è andato: non avremmo voluto essere altrove..
I nostri trascorsi:
Alla prossima settimana.