Ti presento i miei
Le riunioni di famiglia, il tempo perso e quello conquistato, l'intervista ad Ágnes Heller, e un gatto di nome Brexit
"Ho finito per chiamare il mio gatto Brexit. Mi sveglia miagolando ininterrottamente perché vuole uscire. Quando apro la porta resta lì, nel mezzo, indeciso, e quando poi lo metto fuori mi fa lo sguardo della morte”.
Nathalie Loiseau, ministro francese per gli Affari europei
21 marzo 2019
I vertici europei sono le riunioni di famiglia dell'Ue, il momento in cui ci si presenta, ci si ritrova, ci si confronta, si discute (tantissimo), si mangia, ci si incrocia, si fanno battute, conferenze stampa, incontri privati, e si prendono decisioni.
Ci sono molte foto di baci e di abbracci, ai vertici europei. Anche di spalle voltate, di occhi ribaltati, di cattiverie sussurrate che poi diventano notizie.
Ma i sorrisi appena accennati, complici della cancelliera tedesca Angela Merkel e del premier greco Alexis Tsipras qui sotto raccontano un pezzetto della nostra storia recente in modo perfetto: sembrava che l'Ue si sarebbe spezzata, che i greci se ne sarebbero andati, che non saremmo mai stati più come una volta. E invece.
Ci siamo fatte raccontare da @davcarretta la storia dell'Europa attraverso i vertici. Lui è un veterano, già pronto a seguire – per Il Foglio, per Radio Radicale e per l'Agi – il summit che si apre oggi, l'ultimo a Bruxelles di questa legislatura (il 9 maggio, c'è un vertice di capi di stato e di governo a Sibiu, in Romania).
In sintesi: per sopravvivere alle riunioni di famiglia, ci vuole molto alcool.
Vale per noi, per la prima volta che abbiamo portato a casa un fidanzato e per quella in cui abbiamo detto che era tutto (già) finito, figurarsi se non vale per questa meravigliosa famiglia disfunzionale che è l'Europa.
Eccoci qui, quindi. Pronti a litigare, a cena insieme.
Cinque anni.
Il 18 marzo del 2014, il presidente russo Vladimir Putin ratificò l'annessione della penisola di Crimea alla Repubblica federale della Russia. Due giorni prima, la Crimea aveva dichiarato la propria indipendenza dall'Ucraina dopo che un referendum aveva sancito – con percentuali oltre il 90 per cento: il concetto di "risultato bulgaro" sembra riduttivo – la volontà degli abitanti della penisola di "ricongiungersi" con la Russia.
All'inizio della settimana si sono festeggiati questi primi anni di libertà, con la consueta sobrietà. Stando ai resoconti: i fuochi d'artificio come d'abitudine (qui quelli del 2015, il primo anniversario). A Sevastopol, è stata inaugurata una statua di bronzo enorme dell'aquila a due teste, simbolo imperiale, della tradizione bizantina al grido: "Il destino nazionale ci sta portando dentro a una nuova era imperiale". Parate militari con inni agli "omini verdi", che hanno contribuito grandemente all'annessione della penisola (Mosca ha da sempre negato la loro esistenza: erano militari russi con una divisa verde, hanno preso anche delle medaglie). I Night Wolves, biker sostenitori del Cremlino, hanno attraversato la Crimea con la bandiera russa, i simboli ortodossi e immagini di Stalin. Il premier della Crimea, Sergei Aksyonov, ha detto: "Nulla sarebbe stato possibile se il nostro presidente Vladimir Putin non avesse personalmente diretto le operazioni". Meglio di così non si poteva sintetizzarla, questa annessione.
L'annessione della Crimea è riconosciuta da venti paesi, tra cui: Iran, Siria, Venezuela, Corea del nord.
Steven Pifer della Brookings Institution spiega perché togliere la pressione internazionale sulla questione della Crimea è sbagliatissimo.
I media legati al Cremlino ribadiscono il successo dell'operazione Crimea: 13,5 miliardi di euro investiti in cinque anni, più che in ogni altra regione. Un ponte di collegamento – quello sul mare d'Azov fatto apposta più basso per non far passare i mercantili ucraini – e un'autostrada di 250 chilometri che sono costati circa 6 miliardi di euro. Ora Putin ha annunciato due centrali elettriche nuove per garantire l'autonomia energetica della penisola.
Tutto bene? Per niente: la Crimea drena risorse a una Russia già senza risorse, e molti russi si chiedono perché le pensioni dei crimeani sono più importanti delle loro.
Poi scompaiono i Tartari, come ai tempi di Stalin.
La guerra.
Secondo le Nazioni Unite, nella guerra in Ucraina, precisamente nell'est, nel Donbass, sono morte 13 mila persone (dati aggiornati a febbraio) e ci sono 30 mila feriti.
Questa guerra è stata definita in molti modi: ibrida, nascosta, sospesa addirittura. E' una guerra e basta. E chi parla di "ritorno alla normalità" si sta soltanto voltando dall'altra parte.
Le elezioni.
Il 31 marzo gli ucraini dovranno scegliere il futuro presidente e nonostante i candidati siano più di 40, sono tre i nomi più quotati che salgono e scendono di settimana in settimana nei sondaggi.
Petro Poroshenko è l’attuale presidente. E’ stato eletto dopo la rivoluzione di Euromaidan con grandi speranze e aspettative, disattese negli anni. Aveva promesso di combattere la corruzione, di avvicinare sempre di più Kiev a Bruxelles ma in questi cinque anni si è preoccupato più che altro di fare campagna elettorale per un secondo mandato. Il suo slogan è: “Esercito, fede, lingua”.
Yulia Tymoshenko è stata due volte primo ministro dell’Ucraina e il suo ingresso nella politica del paese in realtà risale ai tempi dell’Unione sovietica. Durante la Rivoluzione arancione è diventata un’eroina, soprattutto in seguito all’arresto. La Tymoshenko è stata condannata a sette anni di carcere per malversazione di fondi pubblici e uscì di prigione soltanto dopo Euromaidan e la deposizione dell’ex presidente Yanukovich. Per queste ultime elezioni si è reinventata populista, inveisce contro l’Fmi e la sua richiesta di alzare i prezzi del gas.
Volodymyr Zelensky è l’outsider, l'anti establishment. Innanzitutto è un comico, già presidente, nonostante non avesse le credenziali, in una serie TV chiamata “Il servitore della gente” in cui rappresentava un professore che si ritrova capo di stato. Ha le idee un po’ confuse, dice di ammirare Bolsonaro e Macron e secondo la stampa dietro di lui c’è un oligarca, Ihor Kolomoisky, proprietario del canale su cui è andata in onda la serie. L’arrivo di un candidato dal mondo dello spettacolo era atteso, ma tutti puntavano sulla rockstar Slava Vakarchuk, che invece ha preferito continuare a fare la rockstar.
Tymoshenko e Poroshenko, già accusati di compravendita di voti, cercheranno di arrivare almeno al ballottaggio del 21 aprile per sfidare Zelensky, avanti nei sondaggi.
Gli osservatori temono che la legittimità del voto sarà a rischio, questa campagna elettorale è tutt’altro che tranquilla e se gli ucraini dubiteranno dei risultati potrebbero, di nuovo, tornare in piazza.
Prendiamo tempo /1. Il Partito popolare europeo ha deciso di non espellere il premier ungherese Viktor Orbán, ma di sospenderlo con 190 voti a favore e 3 contrari. La scelta è il frutto di un compromesso, che nasce dai partiti dell'est europeo, in particolare dal premier sloveno (abbiamo messo le mani per primi sul documento, grazie a Gregorio Sorgi). I tedeschi erano stati durissimi, ma poi hanno accettato la terza via. Forse perché a Manfred Weber, candidato alla presidenza della Commissione per il Ppe, conviene così.
A Bruxelles Viktor Orbán ha tenuto un discorso per dire che non era stato il Ppe a sospenderlo, ma lui, Viktor Orbán si era "autosospeso" perché il Partito popolare si sta allontanando dai suoi valori fondativi
#Orban: They attempted here today to change the character of the EPP, that they expel from the party the Christian Democratic wing, or at least one of the decisive forces of that wing
— Zoltan Kovacs (@zoltanspox) 20 marzo 2019
Sul perché di questa frattura abbiamo scritto molto. Abbiamo però indagato le radici culturali dell'orbanismo, conversando con Ágnes Heller, filosofa ungherese magnifica: è del 1929 e la storia del suo paese se l’è vissuta tutta.
Ex marxista, esponente della Scuola di Budapest, refrattaria a ogni idolatria da quando è nata e di idoli popolari ne ha visti nascere e cadere molti nella sua vita, l’ultimo è Orbán al quale ha dedicato un libricino prezioso dal titolo“Orbanismo” (Castelvecchi):
“Il Partito dominante Fidesz ormai non è più una parte, ma un meccanismo per l’esecuzione della volontà, delle decisioni, delle opinioni del capo, quasi allo stesso modo in cui il Partito comunista non era un partito ma un meccanismo per l’esecuzione della volontà di Mosca”
L’abbiamo incontrata a Roma, i ragazzi della casa editrice che la accompagnavano erano esausti, pare che la Heller da giorni continuasse a farsi tutta la città a piedi, anche da Termini all’Auditorium Parco della musica (e i romani sanno di che distanze parliamo). Sulle elezioni europee ci ha detto che:
- saranno le prime elezioni sul destino dell’Europa, uno spartiacque che può ridisegnare la nostra unione un po’ come il 1914: “Sono delle elezioni sul nazionalismo etnico, non conterà nient’altro il 26 maggio. Bisognerà scegliere tra il federalismo e il nazionalismo etnico. Tra l’unione e il sovranismo”
- non sono ammesse sfumature in queste elezioni e la differenza la faranno due leader: “Macron e Orbán. Uno rappresenta il federalismo, l’altro il nazionalismo, bisognerà scegliere”
- non ci saranno nazioni più o meno rilevanti, perché tutti soffriamo degli stessi sintomi: “Bisogna stare attenti a ogni paese, non ce ne sarà uno più rilevante dell’altro”. Dobbiamo aspettarci sorprese? “E come posso dirlo? una sorpresa è una cosa non prevista”
- eppure qualcosa di buono si può ancora fare in campagna elettorale: “Mobilitare, convincere che si deve andare a votare, le forze democratiche liberali devono spingere alla partecipazione che spesso è scarsa durante le elezioni europee. C’è un elettorato che è contro i nazionalisti ma che non vota, va convinto a votare”
- “Come faccio a sapere come sarà l’Unione europea del futuro? Riesco a vedere soltanto fino al 26 maggio”
- se come Donald Tusk potesse riservare un posto all’inferno a qualcuno, per chi sarebbe? “Cosa? Ma Tusk è un politico serio”. Lo ha scritto su Twitter, ha detto che ci manderebbe i brexiteers: “Ah”. Rimane incredula, speriamo di non averle rovinato l'opinione di Tusk che noi, lo sapete, adoriamo.
Quando ieri il primo ministro ungherese si è presentato di buon mattino all’aeroporto, l'Ungheria ignorava che cosa stesse andando a fare a Bruxelles. Nessuna notizia sul voto del Partito popolare europeo. Anzi a un certo punto i media controllati da Fidesz hanno comparato i popolari a dei ratti, scrive Lili Bayer di Politico Europe.
Tutta l'intervista alla Heller la trovate qui: è piena di spunti, e la filosofa dice che i sovranisti finiranno per "prendersi a calci" tra di loro.
Prendiamo tempo /2. Nella riunione di famiglia di oggi e di domani a Bruxelles gli inglesi non erano neppure invitati. Invece la Brexit è in cima alle priorità.
- Theresa May ha inviato una lettera all'Ue in cui chiede una proroga dell'articolo 50 fino al 30 giugno
- la Commissione europea risponde dicendo che la proroga verrà concessa se l'accordo già siglato – compreso delle modifiche decise a Strasburgo dieci giorni fa nell'incontro tra la May e il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker – viene approvato ai Comuni
- la May deve organizzare un terzo "meaningful vote" sull'accordo la settimana prossima, ammesso che i Comuni gliene diano la possibilità: lo speaker John Bercow ha nei giorni scorsi detto che non c'erano le condizioni
- la May deve ottenere l'approvazione dell'accordo, e ottiene automaticamente la proroga per la ratifica tecnica
- e se la May non ottiene l'approvazione ai Comuni? Può chiedere un'altra proroga, ma su questo punto l'Europa è spaccata. La Francia guida la fazione più dura: meglio un no deal il 29 marzo che il 30 di giugno, dice, e la proroga si dà soltanto se cambiano le condizioni politiche, cioè se c'è garanzia di un secondo referendum o di una nuova elezione. La Germania è molto flessibile: qualunque cosa per evitare il no deal. C'è anche chi invoca l'opzione nucleare: la revoca dell'articolo 50. Ma deve essere richiesta da Londra, previo voto ai Comuni di autorizzazione
- il porto di Calais si prepara al no deal
Questa settimana in diretta dalla bolla di Bruxelles c'è Luca Misculin, che cura Konrad, la sezione e la newsletter europea del Post. Visto che siamo in tema di famiglia, abbiamo pensato che stringerci anche tra noi appassionati d'Europa fosse utile, oltre che bello. Anche perché se noi siamo ragazze da romanzo d'appendice, lui è uno da giallo.
Luca ha scelto tre cose entrate nella conversazione della bolla negli ultimi giorni:
- A chi scrive di Brexit dovrebbero fare un test: se capite almeno il 40 per cento di questo pezzo di Tony Connelly – nordirlandese, giornalista dei più preparati e precisi fra le decine di preparati e precisi che stanno seguendo Brexit – allora avete davvero le competenze per occuparvene. È un dettagliatissimo e intricatissimo retroscena dei passaggi che portarono alla visita a sorpresa di Theresa May a Strasburgo, la settimana scorsa, per negoziare con Jean-Claude Juncker e Michel Barnier una microscopica modifica dell’accordo su Brexit a poche ore dal secondo voto del parlamento britannico. A un certo punto nella stessa frase Connelly parla di concetti legali di epoca vittoriana, di arbitrati internazionali e della Corte di giustizia europea (da non confondere con quella di Strasburgo!). Un’impresa. Se non vi sentite all’altezza potete ripiegare su un podcast di qualche tempo fa, prodotto dagli studenti del Collège d'Europe, in cui Connelly anticipa molti dei temi di questi giorni, dal backstop alla strategia a lungo termine di May.
- Martedì pomeriggio la minuscola comunità dei giornalisti italiani che si occupano di cose europee è stata improvvisamente animata da un litigio fra Claudio Borghi e Maurizio Molinari. Il primo è un noto parlamentare leghista convintamente no-euro, il secondo è un funzionario del Parlamento Europeo che si occupa dei rapporti coi giornalisti, soltanto omonimo del direttore della Stampa. Borghi aveva risposto a un video sull’euro pubblicato dall’account italiano del Parlamento Europeo commentando sobriamente "sarete spazzati via", Molinari aveva difeso la bontà del video, Borghi era andato a ripescare certi suoi tweet del 2013 sul Movimento 5 Stelle aggiungendo che presto sarebbe stato sfrattato. Insomma è finita che Molinari è stato difeso persino da Antonio Tajani, ma soprattutto dai giornalisti che quotidianamente hanno a che fare con Molinari stesso, persona di rara gentilezza e competenza (e che peraltro ha un incarico tecnico, quindi non soggetto a spoils system). Quando Borghi ha retwittato un tizio che rinfacciava al povero Molinari un vecchio editoriale sulla Stampa ovviamente non suo, un giovane giornalista italiano che lavora a Bruxelles ha esclamato: «credo sia la giornata più divertente di sempre». Ci gingilliamo così, scusateci.
- Mentre noi italiani iniziavamo a beccarci su Borghi e Molinari, si stava esaurendo la coda lunga dell’argomento del giorno, anzi del finesettimana, fra funzionari e giornalisti: il suicidio della funzionaria italiana Laura Pignataro, avvenuto a Bruxelles il 17 dicembre scorso. Se n’è parlato parecchio perché venerdì Libération aveva pubblicato una ricostruzione molto dettagliata e molto eclatante dell’intera vicenda. L’articolo era firmato da Jean Quatremer, storico corrispondente del quotidiano francese e vecchia roccia del corpo dei giornalisti stranieri a Bruxelles. Citando una serie di testimonianze anonime, Quatremer aveva scritto che nei giorni precedenti al suo suicidio Pignataro era stata presa di mira dai dirigenti al vertice della Commissione Europea – per cui lavorava nel servizio legale – perché era considerata la fonte anonima di un rapporto poco lusinghiero sulla nomina di Martin Selmayr, ex vice di Juncker, a segretario generale della Commissione (lo scandalo della commissione Juncker). L’articolo scorre via come un racconto giallo, ma occhio: la Commissione lo ha contestato punto per punto in un lungo comunicato stampa uscito subito dopo il pezzo, facendo notare fra le altre cose che secondo la polizia le ragioni del suicidio di Pignataro sono soltanto personali.
Per concludere:
- Il gruppo dei liberaldemocratici europei, l'Alde, presenta oggi il suo "team Europa", il gruppo di candidati alla presidenza della Commissione europea: la commissaria danese per la Concorreza Margrethe Vestager, l'ex primo ministro belga e capogruppo dell'Alde Guy Verhofstadt, l'ex commissaria italiana e leader del Partito radicale Emma Bonino, la segretaria nazionale dei Liberali tedeschi Nicola Beer, lo spagnolo di Ciudadanos Luis Garicano, la commissaria slovena per i Trasporti Violeta Bulc e Katalin Cseh, fondatrice e capolista del partito ungherese Momentum. C'è grande attenzione sulla Vestager che, in un'intervista al Foglio, aveva fatto intendere di pensare in grande: ieri ha dato un'altra multa a Google ma in Italia c'è grande polemica sul suo ruolo nella gestione della crisi bancaria. Il Tribunale dell'Ue ha annullato la decisione della Vestager che aveva fermato il salvataggio della Teramo Cassa, Tercas, da parte della Banca popolare di Bari nel 2014. Il salvataggio si poteva fare, insomma, anche se alcuni dubbi rimangono.
- C'è il presidente cinese dalle nostre parti, ve ne sarete accorti. L'Italia fa parte di quei paesi europei che stanno entrando sempre più nell'orbita cinese. L'Ue per la prima volta ha cambiato toni con la Cina. Ma la strada è lunga e perigliosa.
- Ci sono state le elezioni locali in Olanda e per Mark Rutte, che ora rischia di perdere la maggioranza al Senato, non sono andate molto bene.
- La nostra Cristina Marconi, che ci fa ridere e piangere con i suoi articoli londinesi, è candidata al Premio Strega con il suo romanzo d'esordio, "Città irreale", edito da Ponte delle Grazie, e noi siamo molto contente. La recensione del Foglio la trovate qui.
Infine: anche noi gente da newsletter siamo una famiglia, e il New York Times dice che per noi, ma anche per voi che ci leggete, andrà tutto bene.
Le riunioni di famiglia non sono mai facili, ma come canta uno che non ci leviamo dalla testa: è sempre bello avervi intorno.
Alla prossima settimana.
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