Quelli che ci ripensano
Quando Iglesias ha abbracciato Sánchez s’è sentito un fischio. Lo abbiamo seguito chiedendoci: quanto può costare un ripensamento? Dalla Spagna fino alla tanto cara European way of life
Guardiamo e riguardiamo il video dell’amore del momento, l’abbraccio tra Pedro Sánchez e Pedro Iglesias, quel fischio che si alza nitido tra i giornalisti testimoni di un matrimonio improvviso e improvvisato: ebbene sì, ci abbiamo ripensato, stiamo insieme. Cambiare idea è un diritto, ce l’hanno ripetuto per tre anni gli anti Brexit britannici e ci hanno anche convinte, ma il ripensamento con il fischio che si è visto nella Spagna post elettorale ha un sapore tutto diverso, di emergenza, di rassegnazione anche. Il 20 settembre, cioè 54 giorni fa non esattamente un’eternità, il premier socialista Sánchez aveva detto: “Non avrei dormito la notte, come il 95 per cento degli spagnoli, se avessi accettato le imposizioni di Iglesias per un governo di coalizione”. Non dormire la notte per un amore che non c’è e non si può costruire, sentirsi sollevati quando finalmente lo si ammette: non ti ho mai amato, non lo farò mai.
Alla coalizione Psoe-Podemos mancano 21 voti (o astensioni). Abbiamo fatto i calcoli: a 15 ci si arriva, per gli altri 6 sono dolori
Questo era Sánchez un paio di mesi fa, quando riportava la Spagna al voto perché voleva garantire sonni tranquilli al suo paese. “No dormiría tranquilo” è il tormentone di questi giorni, fa il paio con il fischio: volume on, come si dice. A interrompere il nostro loop ci è arrivato un messaggio ieri mattina da Guido De Franceschi, che scrive sul Foglio di Spagna e di altri affari europei, che diceva: “Ma che cosa ridicola! Che poi... accordo! Accordo! Mancano ancora 21 (ventuno!) sì (o astensioni) per avere la maggioranza”. Il patto c’è ma è fragile: i ripensamenti hanno sempre la loro quota di dolore. Tenendo in sottofondo il video del fischio, ci siamo fatte spiegare da Guido: “I voti che mancano li troveranno perché bisogna trovarli, ma a che prezzo? Sette del Partito nazionalista basco, tre di Más País (i fuoriusciti di Podemos), uno del Partido regionalista de Cantabria, uno di Teruel Existe e uno del Bloque nacionalista galego: questi sono tredici, e sono ‘facili’. Possiamo aggiungere forse anche i due di Coalición Canaria: non sono altrettanto facili, perché sono di centrodestra, ma poco schizzinosi. Così siamo a quindici. E poi, dopo aver messo insieme questo circo? Si deve astenere Ciudadanos – ma davvero può astenersi davanti a un governo con Podemos e i nazionalisti baschi? L’alternativa è che si astengano gli indipendentisti catalani – e allora sono guai”. Crollano gli amori di una vita davanti alla matematica, figurarsi i matrimoni improvvisati: ora siamo qui che proviamo a calcolare il prezzo di un ripensamento (col fischio).
Cento sterline a testa. “Nigel Farage mi ricorda quei giocatori al casinò che vincono tutta la notte. Ma poi arriva il momento in cui bisogna raccogliere le fiches e alzarsi”, ha detto Arron Banks, uno dei “bad boys” della Brexit, gran sostenitore del leader del Brexit Party e oggi garante di una regola semplice e determinante: non spezzettiamo il voto dei pro Brexit, dove i Tory possono spodestare il Labour, ritiriamo i candidati del Brexit Party. Farage si era fermato a metà di questo grande ripensamento, annunciando il ritiro dei propri candidati in 317 circoscrizioni in cui c’è un parlamentare conservatore. Non vi rubiamo il posto, insomma, ha detto Farage ai Tory e ancor più al premier Boris Johnson, con il quale il rapporto è da sempre burrascoso. Johnson non ha mai voluto siglare un patto di non belligeranza con il Brexit Party: i suoi consiglieri, e i sondaggisti, gli dicevano che sarebbe stato rischioso, i moderati tra i conservatori si sarebbero risentiti. Non ha però disdegnato l’offerta di Farage, che è parsa all’inizio come una esplicita dichiarazione d’amore ma che poi si è rivelata per quel che era: una tregua. Ma ora gli stessi alleati del leader del Brexit Party dicono a Farage di fare un passo ulteriore, di alzarsi dal tavolo del casinò e di togliere candidati anche in quelle circoscrizioni in cui i Tory hanno la possibilità di battere il Labour. In questo modo il mondo Brexit si ritroverebbe unito e avrebbe più probabilità di stritolare il Labour, che non ci ripensa e non fa patti con gli altri partiti anti Brexit. Ora Farage deve decidere che fare, se assecondare la richiesta di Banks e degli altri finanziatori oppure continuare a giocare. In questo caso il ripensamento ha la targhetta del prezzo attaccata: i candidati del Brexit Party hanno già versato 100 sterline soltanto per essere selezionati, e Farage ha già detto che non li restituirà.
Igor Kolomoisky è l’oligarca più influente d’Ucraina, è vicinissimo al presidente, è furioso con l’America e l’Europa e riguarda a est
L’oligarca ucraino. In Ucraina l’opinione di Igor Kolomoisky conta molto per varie ragioni. E’ un oligarca, è molto ricco e, secondo diversi analisti, è il presidente ombra in grado di influenzare le scelte del presidente Volodymyr Zelensky. Se Kolomoisky dice che è meglio non fidarsi più dell’occidente e tentare di riprendere i rapporti con la Russia, vuol dire che qualcosa a Kiev si muove in questa direzione. La guerra nel Donbass sta esaurendo le sue riserve ideologiche da entrambe le parti. Rimangono i tredicimila morti e una zona interamente dissestata con un’economia da ricostruire. Kolomoisky in questa guerra ha avuto un ruolo importante quando nel 2014 ha deciso di diventare governatore della regione di Dnipropetrovsk e di equipaggiare i combattenti per fermare l’avanzata dei separatisti filorussi, ma in un’intervista al New York Times ha raccontato che è arrivato il momento di cambiare strategia perché è inutile continuare a fare finta di essere più forti di Mosca. La Russia non si può battere e gli Stati Uniti, dice l’oligarca, vogliono che gli ucraini continuino una guerra che a loro fa comodo per indebolire il nemico di sempre, ma mentre “ci forzano alla guerra, non ci danno più nemmeno i soldi per combatterla”. La guerra che sta rosicchiando l’Ucraina dell’est aveva anche il significato di rivendicare la propria appartenenza all’occidente, ma oramai per Kolomoisky neppure questo conta più. “E’ chiaro che né l’Unione europea né la Nato accoglieranno mai l’Ucraina. Inutile perdere tempo a parlare a vuoto, alla Russia invece piacerebbe introdurci in un nuovo Patto di Varsavia”. Secondo l’oligarca gli Stati Uniti vogliono una guerra fino all’ultimo ucraino, “tra dieci anni tutti si saranno dimenticati del sangue versato”. E anche per il denaro, dopo avere speso milioni di dollari contro Mosca, Kolomoisky dice che Kiev può sempre chiedere alla Russia, che potrebbe prendere il posto del Fondo monetario internazionale, le cui richieste sulle riforme anticorruzione sono un ostacolo agli interessi commerciali all’interno del paese. “Potremmo chiedere un prestito di 100 miliardi ai russi, sarebbero contenti di darceli. Qual è il modo più veloce per risolvere i problemi e ripristinare le relazioni? I soldi”.
L’intervista è una lunga accusa contro l’America, un provocare parlando di carri armati russi di stanza vicino a Cracovia e a Varsavia – “così la vostra Nato si sporcherà i pantaloni e comprerà i Pampers” – ma, come nota il quotidiano, i suoi commenti riflettono forse più la frustrazione per il fatto che il Fondo monetario internazionale e i diplomatici occidentali abbiano fatto pressioni per impedire che potesse riprendere il controllo della Privatbank, la banca ucraina da lui fondata e nazionalizzata nel 2016. Tra le sue parole non potevano mancare accenni all’impeachment, dopo tutto, nulla più della telefonata tra Trump e Zelensky ha reso famosa l’Ucraina – lo ha ammesso lo stesso Zelensky. Per Kolomoisky, “fossi io il presidente”, converrebbe procedere alle indagini contro Joe Biden, come richiesto dal capo della Casa Bianca. Tanta attenzione al risentimento di Kolomoisky nasce dal suo rapporto privilegiato con il presidente Zelensky. E’ l’oligarca che sussurra al presidente. Il presidente ex attore che ha fatto carriera nei programmi trasmessi sulle reti televisive dell’oligarca. Se si uniscono i puntini, esce fuori un animale spaventoso, che assomiglia più a un orso che a un’aquila.
Farage ha offerto una tregua ai Tory inglesi, ma persino i suoi dicono che non basta. Un giocatore d’azzardo sa quando è ora di alzarsi
La pensione insieme. I partiti tedeschi della grande coalizione hanno trovato un accordo sulla pensione di base, una misura molto cara ai socialdemocratici e poco ai cristianodemocratici. Poiché la convivenza è diventata difficile e agitata, la cancelliera, Angela Merkel, ha deciso di ripensarci: non tutte le battaglie vanno combattute. Così l’Spd ora può celebrare non soltanto una riforma in cui crede – riguarda circa un milione e mezzo di persone, soprattutto donne e abitanti dell’est tedesco – ma anche la propria abilità nel condizionare l’intera coalizione. Questo serve in particolare al ministro delle Finanze, Olaf Scholz, che è candidato alla guida dell’Spd in quota “salviamo la grande coalizione” ma non è detto che riesca a vincere le resistenze dell’altra ala contraria all’alleanza. Il ripensamento in casa Cdu invece avrà un effetto contrario: l’ala più austera del partito ha già detto che la resa dei conti ci sarà al congresso previsto per il 22-23 novembre a Lipsia. Poiché le lotte interne contro la Merkel non hanno finora funzionato, sarà la delfina della cancelliera, Annegret Kramp-Karrenbauer, a dover saldare il conto (veniva nominata giusto un anno fa, ma di quell’amore non resta quasi nulla).
Ti cambio il nome. Alla vigilia delle audizioni per la conferma dei commissari di Francia, Ungheria e Romania, e mentre si aspetta che gli inglesi propongano un nome perché sono ancora dentro all’Unione europea e hanno diritto a un commissario, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ci ha ripensato: la “european way of life” non si dovrà “proteggere” ma “promuovere” – e Paolo Gentiloni avrà, oltre alle competenze già definite dell’Economia, anche il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu dentro all’Ue, che erano del lettone Valdis Dombrovskis. I job title sono stati aggiustati, non erano mai piaciuti per davvero, e soprattutto lo stile di vita europeo e la sua protezione avevano creato un malumore via l’altro. La von der Leyen ci ripenserà, dicevano tutti, chi augurandoselo chi pretendendolo. Il commissario titolare di questo portafoglio, il greco Margaritis Schinas, si era inoltrato, giusto un paio di giorni fa, nel difficile terreno del: che cos’è questo stile di vita europeo? In sintesi, secondo Schinas: “Non smettere di parlarsi, di coinvolgersi indipendentemente dalle proprie origini, dalla nazionalità, dalla fede religiosa”. E pensare che lui voleva soltanto occuparsi di immigrazione.
A Berlino c’è un Ronald Reagan di bronzo che guarda la Porta di Brandeburgo: bisogna mettersi in punta di piedi per vederlo
La statua di Brandeburgo. Abbiamo festeggiato la caduta del Muro di Berlino. Abbiamo festeggiato Gorbaciov, i picconi, le trabant, abbiamo festeggiato le parole pronunciate per errore, gli Scorpions e Lech Walesa che da Danzica sembrava prendere a sassate quel Muro. Abbiamo festeggiato la libertà, ma si è sentita un po’ l’assenza di quella persona che, proprio nel nome della libertà, appena arrivò a Berlino e per la prima volta vide quell’orizzonte di cemento provò un senso di ingiustizia fortissimo: abbiamo sentito la mancanza di Ronald Reagan. Tra l’ex presidente americano e Berlino c’è una relazione complicata, lui amava quella città divisa a metà, ma la città ha sempre risposto con gratitudine algida e per anni ha resistito al suggerimento dei diplomatici americani di costruire una statua in onore di Reagan e del suo: “Mister Gorbaciov, tear down this wall”. La città aveva acconsentito a porre una targa commemorativa vicino al punto in cui Reagan nel 1987 pronunciò il discorso, ma non si era mai spinta oltre. Una parlamentare dei Verdi ha detto al Wall Street Journal che ci sono tanti presidenti americani che potrebbero essere celebrati, mica soltanto lui. Washington, stanca di chiedere, ha preso una decisione e ha commissionato, assieme alla Fondazione Reagan, la realizzazione di una statua in bronzo alta due metri che è stata installata sulla terrazza dell’Ambasciata americana. Il presidente tiene in una mano il suo discorso e, come quel giorno, guarda la Porta di Brandeburgo, purtroppo non dal suolo berlinese, ma da quello americano. Ma sporgendosi un po’, in punta di piedi come a cercare un bacio, il Reagan di bronzo si vede anche dalla strada.