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Buon natale, Europa
Sotto l’albero troviamo un po’ di intransigenza (francese), un olandese che non è come sembra, una nuova rivista, una proposta sui fondi dell’Ue e due cartoline
Abbiamo fatto l’albero di Natale, scritto la lettera, esaudito tutti i desideri possibili di grandi e piccini (i bambini che ci girano intorno sono certi che Babbo Natale sia Amazon) e abbiamo fatto un giro nei mercatini più belli d’Europa, sulla scorta della classifica stilata da Forbes. Budapest è al primo posto, non con il suo mercato più grande ma con quello più bello e scenografico, che è di fronte alla basilica di Santo Stefano, nel cuore della città: dalle 5 del pomeriggio, quando fa buio, se si resiste al freddo si possono prendere gli occhialini in 3D e godersi le proiezioni sulla basilica, luci e fiori e stelle e palle di Natale che sanno di festa e futuro. Budapest fa parte del patto delle città libere che è stato siglato questa settimana assieme a Varsavia, Praga e Bratislava, capitali che prendono le distanze dai loro governi e restituiscono quell’immagine liberale che nell’est Europa è sempre più appannata. A due passi dal mercatino di Natale davanti alla basilica ci sono i palazzi del governo e la sede decurtata della Ceu, l’università di Soros, e così in dieci minuti di passeggiata si possono raccogliere tutte le contraddizioni dell’Ungheria, che poi sono anche quelle dell’Europa che spesso non trova una conciliazione tra la sua anima est e quella ovest. Al secondo posto della classifica dei mercatini c’è Vienna, un grande classico natalizio e un’altra città che ha sempre fatto da ponte tra est e ovest (ospita la Ceu cacciata da Budapest dal governo di Orbán), e siccome al terzo posto c’è il mercatino di Danzica, la nostra amatissima città polacca in cui all’inizio dell’anno è stato ucciso il sindaco, ci siamo convinte che i mercatini di Natale siano una promessa, un buon proposito per il 2020: le divergenze tra est e ovest si possono risolvere, se ne vanno già gli inglesi, non facciamo scherzi.
A proposito di est: i fondi europei
La presidenza finlandese del Consiglio dell’Unione europea è in scadenza, sei mesi passano in fretta, soprattutto quando di mezzo c’è il budget, una Commissione da formare e anche un governo a Helsinki da ricostruire. Tra pochi giorni sarà la Croazia a prendere il testimone e ci si volta indietro a guardare l’eredità di un semestre coraggioso e complicato. Una delle battaglie della Finlandia è stata sullo stato di diritto, la presidenza avrebbe voluto promuovere un sistema di erogazione di fondi a seconda della salute delle democrazie locali: più la democrazia è sana, più il denaro aumenta. La proposta non è piaciuta ai paesi dell’est, Ungheria e Polonia in testa, e nemmeno a chi, dall’est, si rende conto che limitare l’accesso ai fondi per i paesi meno ricchi avrebbe conseguenze importanti sulla stato dell’amore per l’Europa. Che a est è tanto, come ci dice Clotilde Armand, eurodeputata di origine francese e cittadinanza romena, esponente del partito Usr (Unione salvate la Romania, un “nome messianico”, ci dice una persona che la conosce bene e che per lei ha grandi progetti). Per la Armand il dibattito sul bilancio dell’Ue, la discussione e la lotta tra chi si dice contributore netto e chi non lo è, si basa tutta su un grande errore: la mancata comprensione del quadro macroeconomico, che racconta come invece il denaro in Europa scorra più da est verso ovest. Bisogna fare una distinzione tra il denaro pubblico erogato attraverso i fondi europei che vanno da ovest a est, e il flusso di denaro privato che si muove in senso contrario. “Quando i paesi dell’est hanno aperto i loro mercati, le imprese occidentali hanno trovato grandi vantaggi, hanno portato il capitale e le competenze e ancora oggi fanno grandi profitti grazie a questi investimenti passati”. I paesi occidentali, nel momento in cui l’est ha sollevato le sue barriere, hanno trovato un enorme bacino di consumatori. Ci dice la Armand, che nel Parlamento europeo siede tra i liberali di Renew Europe, che i paesi orientali hanno avuto molto da guadagnare dall’Ue e dall’arrivo dei capitali dei paesi più ricchi, ma è stato uno scambio e a oggi “il denaro che i paesi occidentali inviano all’Europa dell’est sotto forma di fondi attraverso il bilancio è inferiore rispetto ai profitti che le società occidentali traggono dagli investimenti nell’est”. La lotta tra i paesi, l’euroscetticismo che ha infiammato l’Ue in questi ultimi anni è spesso una questione di soldi. Questi bisticci hanno dato origine ai sovranismi e tutti, o quasi, hanno finito per prendersela con il mercato unico. “Bisogna far capire che il mercato unico crea un valore per tutti, che non abbiamo scelta, soprattutto se vogliamo contare qualcosa contro mercati ben più grandi del nostro. L’opinione pubblica deve convincersi che non ci sono winners o losers, il mercato unico finora ha prodotto soltanto vincitori”. A proposito di sovranismi ed euroscetticismi, ne abbiamo visti di ogni tipologia e colore. “Ce ne sono di due tipi – dice la Armand – quello dell’ovest che ha provocato la Brexit e quello di certi governi dell’est. Tutti e due vengono dalla cattiva percezioni delle tematiche legate al budget. I paesi dell’ovest dicono di volere i soldi indietro, ‘I want my money back’, come diceva Margaret Thatcher, questa visione è legata all’idea sbagliata che siano soprattutto i contributori netti a contare nel budget. Non è vero, basti pensare alla Germania, il suo surplus enorme viene anche dall’est. Poi ci sono gli euroscetticismi di alcuni governi dell’est, che credono che le loro economie siano state divorate dalle industrie dell’ovest”, ma bisogna guardare l’insieme, non fissarsi sui dettagli. Stiamo tutti bene e stiamo bene insieme. L’interazione in Romania si vede benissimo, dice Clotilde Armand, che a Bucarest fa la spesa in supermercati Carrefour o Auchan, ha come operatore telefonico Orange e accende la luce con corrente Enel. Ma tornando alla Finlandia, all’idea di ridurre i fondi per i paesi che ledono lo stato di diritto, l’eurodeputata dice di stare attenti, si potrebbe ottenere l’effetto contrario: “La presidenza finlandese è molto dura e tagliare i fondi vorrebbe dire venire meno agli impegni presi. Entrando nell’Ue i paesi dell’est hanno aperto le loro economie e offerto grandi possibilità. Sullo stato di diritto bisogna fare attenzione, è naturale che l’Ue non voglia che i fondi vengano usati per finanziare governi illiberali, ma allo stesso tempo bisogna pensare alla popolazione. I cittadini dell’est sono molto europeisti, è qualcosa di intimo, di identitario, di storico. Queste popolazioni non devono soffrire per gli errori dei propri governi”. Bisogna imparare a comunicare, dice la Armand, l’Unione deve sapersi raccontare. Non ci sono vinti e vincitori nel bilancio europeo, non c’è un ovest ricco che paga e un est povero che riceve, il mercato unico fa bene a tutti, la sfida adesso per Bruxelles è far sì che i fondi arrivino alla popolazione e non diventino un valore aggiunto per certi governi che non rispettano lo stato di diritto.
Gentiloni e l’olandese Verwey
Ieri è stato nominato l’olandese Marteen Verwey a capo della direzione generale Affari economici e finanziari (DG Ecfin) della Commissione europea: la decisione è stata annunciata dopo una consultazione tra Ursula von der Leyen e il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni. David Carretta da Bruxelles ci dice che per chi segue superficialmente le vicende europee, Verwey ha il profilo perfetto per riprendere le accuse contro Gentiloni e sull’irrilevanza italiana: nordico, ex funzionario del ministero delle Finanze olandese, ex rappresentante dell’Ue nella Troika durante il salvataggio di Cipro, ex leader della squadra che ha promosso le riforme strutturali in Grecia, ex capo della struttura che doveva mettere in pratica l’accordo Ue-Turchia sui migranti. Verwey prende il posto dell’italiano Marco Buti, andato a dirigere il gabinetto di Gentiloni e di cui era stato vice. Ora toccherà a lui il delicato compito di preparare le decisioni su Patto di Stabilità, procedure per deficit, raccomandazioni sui conti, squilibri macroeconomici. Ma sarebbe un grave errore considerare Verwey un burattino dei falchi dell’Aia (o di Berlino) o un eurocontabile dello “zero virgola”. Più che dall’austerità Verwey è ossessionato dalle riforme strutturali, perché solo con quelle si può far ripartire la crescita e ridurre in modo sostenuto il debito. Si dice che sia di simpatie laburiste – in realtà è molto riservato sulle preferenze politiche come sulla vita privata – ed è piaciuto perfino al secondo governo di Alexis Tsipras, con cui ha lavorato dopo il terzo programma di salvataggio. A meno di 50 anni, Verwey ha fatto una carriera lampo dentro la Commissione, spinto dal suo pragmatismo. L’ex presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, nel libro “The Euro Crisis”, racconta che nella primavera del 2010 fu Verwey a inventarsi il primo fondo salva-stati, l’European Financial Stability Facility (Efsf). I prestiti bilaterali alla Grecia non bastavano, i ministri delle Finanze e i capi di stato e di governo della zona euro si dibattevano tra clausole “no bailout” e rischio contagio. In una notte di negoziati drammatici, l’allora funzionario del ministero delle Finanze olandese escogitò lo Special Purpose Vehicle che mise tutti d’accordo: un veicolo finanziario che permetteva agli stati membri, con pochi soldi di capitale, di tirare fuori il bazooka. Gentiloni si è scelto per la sua DG Ecfin un direttore generale forte e rispettato. Inoltre, con un olandese, si è anche messo al riparo dall’accusa di italianizzare il Patto. Più che un blitz olandese contro l’Italia, la nomina di Verwey appare come una trovata italiana che lega le mani all’Olanda.
L’intransigenza sotto l’albero
Il presidente francese, Emmanuel Macron, chiede ai sindacati di placarsi un pochino, l’intransigenza non può essere il sentimento dominante di questo Natale 2019. Macron si rivolge ai sindacati – ieri sono stati a Matignon – e in particolare al più radicale tra loro, Laurent Brun, leader del sindacato (Cgt) dei ferrovieri, ma nonostante la volontà di compromesso del governo è circolata una lettera firmata da molti sindacati che si intitolava: “Pas de trêve de Noël jusqu’au retrait”, non ci si ferma finché la riforma non viene ritirata. La preoccupazione più grande è per il cosiddetto “sciopero scorrevole” previsto a partire dal 3 gennaio: il rientro dalla pausa natalizia rischia di essere molto nervoso.
La rivista di Greta
E’ uscita ieri per la prima volta, si chiama We Demain 100% Ado, è il magazine dedicato ai ragazzi, quelli ambientalisti. E’ un’idea francese e vuole insegnare ai ragazzi come cambiare il mondo, anzi “come salvare il mondo prima di compiere 18 anni”. La copertina è dedicata ai Fridays for future, e l’intenzione è di dare consigli su come raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero contribuendo con i gesti quotidiani, “in camera da letto, sotto la doccia, a scuola, per strada”. Il direttore della rivista, David Groison, ha detto che leggere e seguire dei consigli pratici dati dagli esperti può essere un modo per i giovani di agire al di là dell’indignazione. La rivista vuole essere lucida, creativa e impegnata e i suoi ideatori hanno detto di aver preso spunto dagli slogan delle proteste, hanno anche il loro preferito: “Make our planet Greta Again”.
Noi, l’America, l’impeachment
Quando dice “the kids are alright”, con “kids” Andrew Moravcsik intende noi europei. E’ convinto che, nonostante tutto, alla fine stiamo bene. Non importa se dopo la vittoria schiacciante di Boris Johnson e la Brexit alle porte ci sentiamo come se un Pac-man mascherato si fosse inghiottito una stella della nostra bandiera blu e stia cercando di rosicchiare le altre. “E’ solo una percezione”, ci rassicura Moravcsik: “Chi soffre semmai è il mio di paese, gli Stati Uniti. Le disuguaglianze sociali stanno raggiungendo i massimi livelli. L’Europa ha una solida base democratica e un welfare che noi ci sogniamo: va tutto abbastanza bene”. Il professore di Affari internazionali e direttore del programma dell’Unione europea della Princeton University, in Italia per una lezione all’Università Bicocca dal titolo “Tutto fumo, niente arrosto - Perché le politiche estere populiste sono destinate a deludere?”, ci parla di populismo partendo proprio dall’Inghilterra. E’ convinto che la Brexit funzioni come l’ansia: fa più paura pensarla che viverla. “Puoi uscire dall’Unione e far sì che nulla cambi. BoJo è il politico più opportunista del momento, nella sua carriera ha assunto una vasta gamma di posizioni, e ora che ha una maggioranza comoda, non deve per forza assecondare gli euroscettici hardcore del suo partito. Sa che per governare cinque anni non può sbagliare con la Brexit assumendo posizioni radicali che si tramuterebbero in file di camion lunghe 50 chilometri alla frontiera, o in fuga delle banche da Londra”. Quindi, se rispettasse il suo opportunismo, secondo Moravcsik, fra poco Johnson dirà: “Ci ritiriamo, ma vogliamo mantenere i rapporti con l’Europa quasi come prima”. Non per amore, ma perché è più conveniente per tutti. Stesso meccanismo vale per il bromance transatlantico tra i due biondi del momento – Johnson e Trump – che si corteggiano via Twitter: “Tutto fumo, ma come sarà l’arrosto? Si tratta più di un flirt da campagna elettorale. Negoziare accordi commerciali con gli Stati Uniti e in particolare con Trump è un incubo. Proveranno a fare qualcosa, ma non sarà semplice come sui social”. Il professore è certo che nessun altro paese europeo seguirà le orme inglesi: “Matteo Salvini, Marine Le Pen e Orbán sanno che uscire dall’Europa è un autogol enorme. Salvini, per esempio, a volte ha urlato ‘fuori’, altre volte ha parlato di riforme, ma non ha mai fatto nulla. La sua solida base di elettori in Lombardia e nel nordest, molti dei quali imprenditori, ha bisogno degli investimenti e degli accordi europei per crescere”, and he knows it. E’ che anche lui, come BoJo, Trump and Co., rispetta il vangelo secondo i populisti: “Voce grossa in campagna elettorale, nulla o poco di fatto in Parlamento”. Nell’ultima slide della lezione di Moravcsik si legge: “Se il populismo non ha risonanza in politica estera, perché tutti pensano che sia la nuova minaccia al mondo liberale?”. Lui risponde: “Perché a nessuno conviene smascherarlo. I populisti vogliono che la gente creda che i loro discorsi siano veri. I democratici vogliono giocare ai buoni contro i cattivi – i populisti! – e i media, con tutto il rispetto, non denunciando il bluff hanno tante storie avvincenti da raccontare”. Prima di andare, visto che di là dall’Atlantico infuria l’impeachment, gli chiediamo un’ultima cosa come si fa con gli oracoli: “The Donald vincerà?”. “A oggi, penso che abbia meno del 50 per cento di probabilità di vittoria”, dice. “Ma tutto dipende dal candidato democratico. Quindi chissà, sappiamo che i dems non mancano mai un’occasione per provare a perdere” (questa intervista è stata realizzata da Greta Privitera per EuPorn).
Una cartolina di Natale
Potremmo avventurarci nei dolori della sinistra britannica, ma è tardi (e ieri ha detto tutto Tony Blair, non solo sul progressismo ma anche sul fatto che non esistono regole di inevitabilità, si combatte sempre) ed è Natale. Ci rivediamo nel 2020, intanto vi lasciamo due cartoline. Una viene dall’aeroporto di Vilnius, dove c’è l’albero di Natale forse più brutto che sia mai stato fatto: è addobbato con gli oggetti requisiti ai controlli. La seconda viene dallo zoo di Berlino: è nata la piccola Tonja, un’orsetta bianca che sembra sempre sul punto di cadere o di affogare, ma poi la ritrovi lì che trotterella felice, e ogni giorno più consapevole. Ci ricorda tanto l’Europa. Auguri.