Coronavirus vs democrazia
Tre domande secche per capire se da questa emergenza usciremo più liberali oppure no. La croce olandese, la regina Merkel e un deficit incolmabile di romanticismo
Che ne sarà delle nostre democrazie dopo questo isolamento, dopo che un quarto della popolazione mondiale s’è vista ridurre le proprie libertà, dopo che le misure emergenziali diventeranno legge, dopo che ogni leader proverà a non sprecare quest’attimo, questa stagione, e a ritrovarsi più forte, più popolare, magari pronto a farsi rieleggere? E’ una domanda che si stanno ponendo in molti, e in generale si può dire che – forse complice lo spazio stretto dei terrazzini – il pessimismo prevale. E’ pieno di editorialisti e saggisti che prevedono un’involuzione della vita democratica, perché nel guaio globale c’è stata una risposta egoistica. L’Europa è considerata – tanto per cambiare – la causa di molti ritardi oltre che lo specchio di un fallimento sociale e politico: poca solidarietà, sistemi meno forti di quanto si pensasse, ostruzionismo ideologico dei soliti con il ditino alzato. E’ davvero così? Siamo portate a credere di no, e abbiamo provato a porre qualche domanda.
In quale paese farsi curare
Se doveste prendere il virus, dove preferireste farvi curare? In un paese europeo o in uno asiatico (ma certo non in Cina)
Se doveste contrarre il virus, in quale parte del mondo vorreste essere curati? E’ probabile che la risposta sia: un paese europeo. Anche l’America è all’avanguardia, ma come si sa l’accesso alle cure è spesso proibitivo. L’alternativa è: un paese asiatico. Ma quale? Di certo non la Cina: per quanto i sostenitori del modello cinese si sentano in questo momento dalla parte giusta della storia, difficilmente avrebbero voluto passare queste settimane di isolamento in una casa blindata dello Hubei. E se oggi potessero muoversi, difficilmente andrebbero a Wuhan, nonostante il governo di Pechino non faccia che ripeterci che la pandemia lì è finita. In sostanza il regime cinese dice: soltanto il nostro modello autoritario è efficace – molti gli credono. Eppure, dovendo curarsi, si preferirebbe andare in Giappone, in Corea del sud, a Taiwan – tutti paesi democratici. Che hanno una grande differenza con l’Europa, ma non ha a che fare con il modello: hanno sperimentato una epidemia di recente, e ne hanno tratto delle lezioni. Anche in questo il modello democratico, a differenza di quello autoritario, ha una curva d’apprendimento che non è piatta.
Due uomini giocano a ping-pong in un pomeriggio berlinese in un parco giochi abbandonato (LaPresse)
A quali numeri credere
C’è molta polemica in Italia sulla gestione dei bollettini, sulla veridicità delle rilevazioni e sulla possibilità di comparare i dati un giorno con l’altro e regione per regione. Vale anche per il confronto con gli altri paesi. Ma come dice Michael Meyer-Resende, direttore esecutivo di Democracy Reporting, “il fatto che l’Europa sia l’epicentro del virus potrebbe essere un’illusione ottica: le democrazie hanno sistemi che identificano molti casi, mentre gli stati non democratici pubblicano numeri implausibili”. La Russia avrebbe meno casi del Lussemburgo, la Cina dice di avere raggiunto lo zero nei contagi, ma ha smesso di contare i positivi asintomatici. “Il problema – conclude Meyer-Resende – non è la democrazia: è l’assenza di democrazia”.
La libertà che diventa anormalità
Dopo questo periodo di restrizioni, il valore dato alla libertà – anche a quella scontata del poter andare dove si vuole – sarà più alto o più basso? Dal nostro piccolo campione risulta che sarà più alto – ci sono anche molti buoni propositi del tipo “non ce lo scorderemo mai più”, ma si sa che le cose dette in momenti di privazione non valgono.
L’emergenza che diventa normalità
Attenzione alle leggi d’emergenza, è lì che stanno i coperchi. No, non soltanto in Ungheria o Polonia
Di tutta la grande depressione sul futuro delle democrazie c’è un unico punto su cui vale la pena stare all’erta ed è il capitolo che riguarda le emergenze. Prendiamo il Regno Unito: sta approvando in questi giorni la legge che dà al governo un potere molto grande e per molto tempo, due anni. Il premier, Boris Johnson, conta di far fuori la pandemia in dodici settimane (così aveva detto qualche giorno fa, ma cambia idea tutti i giorni) ma vuole avere pieni poteri per due anni. Non c’è bisogno di arrivare agli eccessi dell’Ungheria o della Polonia (che vuole andare a votare nonostante tutto) per accorgersi che il momento di stare all’erta è questo. Quando siamo più distratti. La saggista Anne Applebaum, che ora è in Polonia e racconta l’isolamento da lì, ha scritto sull’Atlantic: “Quando le persone hanno paura, obbediscono. Quando hanno paura di morire, rispettano regole che, giusto o sbagliato che sia, li salveranno, pure se questo significa avere meno libertà. Queste misure sono state popolari in passato: liberali, libertari, democratici, amanti della libertà non illudetevi – saranno popolari anche questa volta”. E’ per questo che l’attenzione ora non deve essere sul contenimento della pandemia – ci stanno arrivando tutti – quanto piuttosto sulle vie scelte per la normalizzazione: il punto di rottura delle democrazie sta qui.
Che croce, quest’Olanda
Il Belgio, che con questa crisi è riuscito a trovare un governo, ha un problema di fiducia. Non si fida dei suoi vicini, degli olandesi che in tutta Europa sono ancora i più riluttanti a chiudere tutto e a dire, con fermezza, ai cittadini “rimanete a casa”. Le città di frontiera tra Paesi Bassi e Belgio sono piene di lavoratori che vanno e vengono dall’una e dall’altra parte e se Bruxelles sta facendo di tutto per limitare i contagi teme che possa essere il comportamento del governo olandese a mettere a rischio i suoi cittadini. “Il governo di Rutte sta rispondendo al coronavirus in modo incompetente e ridicolo”, ha detto a Politico un sindaco belga. Per Luuk van Middelaar, storico olandese ed esperto di Unione europea, per capire il comportamento, o il non comportamento, del governo dei Paesi Bassi bisogna tenere presente due fattori: “Una dose di sottovalutazione del pericolo e anche una componente culturale. I Paesi Bassi non si rendono ancora conto di quello che sta arrivando e continuano a sottovalutare, poi c’è anche un tipo di relazione tra stato e cittadini che è tipica di popoli come gli olandesi e gli inglesi che hanno una diversa tradizione di libertà civili. I leader politici contano sul senso civico, fanno affidamento sul fatto che i cittadini capiscano da soli come comportarsi a dovere”. Il senso della responsabilità non è venuto fuori più di tanto, osserva anche van Middelaar, Amsterdam ha dovuto imporre delle multe, lunedì ha chiuso le scuole, i ristoranti, le discoteche, ma Rutte continuava a dire che di un lockdown totale i Paesi Bassi non ne hanno bisogno, a loro basta un minilockdown e capiranno. “Le cose iniziano a muoversi anche lì – van Middelaar vive in Belgio – dieci giorni fa la reazione era: non chiuderemo nulla e si parlava di immunità di gregge, come in Gran Bretagna, ma già all’inizio di questa settimana Rutte ha annunciato delle misure più dure e non saranno consentiti eventi pubblici fino al primo maggio”.
Davanti alle crisi e alle emergenze l’Ue si trova spesso sprovvista della cassetta degli attrezzi, ci dice lo storico Luuk van Middelaar
Imperfetta, stanca, disorientata, in preda agli interessi nazionali, il coronavirus non ucciderà l’Unione europea, indipendentemente dal comportamento di ogni stato membro, anche dei Paesi Bassi che mai come in questo momento sembrano l’opposto dell’Italia, è dall’assegnazione dell’Ema che sembra andare tutto storto tra di noi. Ma al di là di amori e nemesi, finita l’epidemia, tutto a Bruxelles rimarrà ancora in piedi e probabilmente nemmeno cambierà più di tanto. “Quello che ci mostra la storia europea è che i grandi cambiamenti non avvengono sicuramente in tempi brevi, una crisi non può portare né al federalismo né alla fine dell’Europa” e quello che abbiamo capito è che l’Ue ha i suoi ritmi, abbiamo imparato a conoscerli e spesso è proprio il tempo che aiuta a risolvere le cose tra vicini e alleati. Tanto più con questo virus che ci ha insegnato a viaggiare nel futuro e nel passato. Gli altri paesi ricordano all’Italia come era tre settimane fa e l’Italia mostra agli altri paesi come saranno fra tre settimane. E’ una legge, è scienza o quasi un sortilegio. Eppure, per van Middelaar sarà il tempo ad aiutare queste incomprensioni tra membri della stessa unione, e quante ce ne sta facendo passare proprio l’Olanda. “E’ orribile quello che sta accadendo all’Italia, ma se guardo il dibattito in Belgio e nei Paesi Bassi mi rendo conto che è soltanto una questione di tempo, non stanno realizzando cosa sta per succedere, continuano a sottostimare la profondità, la serietà e la gravità della situazione. Tutti prima o poi si renderanno conto di quanto sarà fondamentale la solidarietà”. Una solidarietà che è fatta di aiuti sanitari e magari di frontiere aperte, ma anche una solidarietà che è soprattutto economica e la sua mancanza sembra un copione che abbiamo già visto. “La crisi dell’euro ha impiegato due anni per colpire tutti, ci vollero due anni prima che tutti i leader, inclusi Angela Merkel e Mark Rutte che già erano lì, capissero che non si trattava di un problema dei paesi del sud. Si parlava del collasso dell’euro – eravamo a un passo – e l’euro non è collassato, neppure l’Ue collasserà”.
Un cartello sul distanziamento sociale nel Vondelpark, nel centro di Amsterdam (LaPresse)
L’Unione ha le sue logiche che spesso gli stati membri faticano a capire, ci sembra che il virus stia facendo venire fuori tutte le mancanze, tutti i limiti, tutte le croci e le antipatie e le divisioni, ma la verità è che l’Ue è sempre la stessa, almeno da dieci anni: “L’Unione europea è fatta di regole e quando arriva una sorpresa, una crisi, si scopre che la cassetta degli attrezzi in mano alle istituzioni Ue è vuota”. L’altro problema che rende l’Ue così poco unita di fronte alle crisi è la mancanza di una leadership centrale: “Macron, Merkel, von der Leyen, Michel e altri venticinque capi di stato e di governo tutti insieme si comportano come se fossero un presidente eletto e indicano la direzione delle politiche da prendere”. Ma lì dentro ci sono tutti. C’è l’Italia e c’è anche l’Olanda.
L’altra eccezione è quella svedese, dove nel fine settimana le stazioni sciistiche erano aperte e piene e molto allegre a giudicare dalle immagini. Domenica sera il premier di centrosinistra, Stefan Löfven, ha parlato alla nazione chiedendo “un sacrificio” a tutti: muovetevi poco, lavorate da casa, non andate a trovare i parenti più anziani. Molti scienziati dicono che la Svezia finirà per adeguarsi alle regole restrittive imposte da tutti, ma mentre gli under 16 continuano ad andare a scuola, le strade e i mezzi di trasporto sono sempre più vuoti. Potendo scegliere, gli svedesi sono disciplinati: basterà? Lo sapremo tra qualche tempo, ma intanto molti intellettuali e commentatori si interrogano su cosa resterà di queste settimane di lockdown. Vinceranno solidarietà, coordinamento, aiuti – la democrazia – o vinceranno gli egoismi nazionali, l’isolamento in senso sovranista?
Specchio specchio delle mie brame
La Merkel è stata “essenziale” nelle parole come nella spesa, ancora una volta la sua leadership è unica, ci dice Judy Dempsey
Prima che andasse in autoisolamento l’abbiamo vista fare la spesa, insegnare ai tedeschi a non svaligiare i supermercati e a lasciare qualcosa a tutti. Il carrello di Angela Merkel era essenziale, e in questi giorni in cui è tutto un parlare di carta igienica – anche Rutte lo ha fatto assicurando che gli olandesi ne avrebbero avuto scorte per dieci anni – in tanti hanno ironizzato: “Ma come faranno a bastarle due rotoli per due settimane?”. La cancelliera tedesca in giacca rossa è poi andata in quarantena, il medico che le aveva fatto il vaccino contro lo pneumococco, che abbiamo scoperto non essere un’arma contro il Covid-19, è risultato positivo al virus, si è comportata come ha chiesto ai tedeschi di comportarsi. La Germania è tra i paesi che hanno capito un po’ in ritardo quanto la situazione fosse grave, ma poi ha fatto vedere a tutti di cosa son fatti i rapporti di buon vicinato. Ha mandato respiratori ai paesi che più ne avevano bisogno e per alleggerire il carico delle terapie intensive europee ha accolto pazienti italiani e francesi. Rimangono tante domande sul caso tedesco: perché chi si ammala muore meno degli altri? Il Wall Street Journal scriveva ieri che uno dei problemi dell’alta mortalità in Italia è dovuto al modo molto familiare di vivere – troppe generazioni sotto lo stesso tetto. Gli anziani tedeschi, secondo alcuni commentatori, invece sono poco considerati e la solitudine contro il Covid-19 fa benissimo. La Germania si è svegliata in ritardo, come i Paesi Bassi ha confidato nella capacità del proprio popolo di capire da solo. Ma i tedeschi non capivano e allora è intervenuta Angela Merkel. “E’ stata criticata per la lentezza nel reagire, ma bisogna considerare che per prima cosa la cancelliera è una scienziata, voleva essere sicura – dice Judy Dempsey, esperta dell’istituto Carnegie che su di lei ha anche scritto un libro, Il fenomeno Merkel – Il suo discorso alla nazione è stato qualcosa di davvero inusuale, pieno di umanità, di dignità, di empatia”. E’ intervenuta per dire ai tedeschi, che non volevano capire, che il coronavirus è una cosa seria. “Ha detto ce la faremo insieme ma dobbiamo aiutarci. Da una parte ha dato un senso storico all’evento perché i suoi discorsi alla nazioni non sono frequenti e dall’altro ha dato una prospettiva politica, ha fatto capire che il governo sarebbe stato trasparente e si sarebbe impegnato, ma che tutti dovevano rinunciare a qualcosa e le restrizioni erano necessarie”. Non è stata di certo l’unica a parlare, ma lei lo ha fatto in un modo diverso, il suo: composto, essenziale, come la sua spesa. “Il suo messaggio era in contrasto assoluto con quello di Emmanuel Macron che ha parlato da comandante delle Forze armate e ha detto che siamo in guerra, in contrasto con Boris Johnson, che ha negato e sminuito e in contrasto con Trump e con Putin”, che ieri, il giorno prima che la sua presidenza compisse vent’anni, ha annunciato un lockdown di una settimana. I tedeschi avevano bisogno di sentirsi dire che la situazione era molto seria e la Merkel ha saputo usare le parole giuste e anche i toni.
Riconversioni ed eccellenze
Di tutte le riconversioni in corso, come nelle guerre, la nostra preferita è quella di Sir James Dyson. Il creatore del phon magico e dell’aspirapolvere delle meraviglie ha annunciato di voler produrre respiratori di ultima generazione, e una parte delle sue fabbriche è già pronta. Il problema è il tempo: il sistema sanitario inglese è già al collasso, non c’è tempo per respiratori dal potenziale e dal design avveniristico. Un consorzio di altre aziende inglesi è già all’opera per rifornire gli ospedali e guarda con un certo sospetto l’iniziativa di Sir Dyson. Pregiudizi, dice lui, che è un brexitaro che ha spostato molta della sua produzione a Singapore, non si sa mai. Il respiratore che ha in mente sarà un prodotto salvavite, e Dyson promette che non ci metterà i due anni che dicono tutti. Non sappiamo chi ha ragione, sappiamo però che la competizione, anche nel momento della riconversione, è rilevante: il Ventilator Challenge UK sta studiando due nuovi modelli di respiratori, più moderni. E’ un consorzio che comprende Airbus, Rolls Royce, McLaren, Ford e un’azienda specializzata del settore, Penlon and Smiths.
Vieni a vivere con me
Di tutte le regole imposte, la più assurda è quella che riguarda le nuove coppie. Dovete scegliere, dice il manuale d’istruzione britannico, o andate a vivere insieme o non tentate di vedervi di nascosto, non si esce di casa. Così l’innamoramento dei primi giorni deve diventare subito adulto e responsabile: forse gli afflitti da amori non ricambiati avranno un beneficio netto consistente, forse il vero amore si vedrà più nitido nel vuoto di una valigia fatta di fretta e con la testa altrove, ma quanto al deficit di romanticismo non ci sarà mai stimolo sufficiente per compensarlo.