Euporn - il lato sexy dell'europa

Il nostro veto ai diktat di Orbán

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Il premier ungherese boicotta il Recovery fund, si finge perseguitato e paragona l’Ue all’Unione sovietica. Le vie d’uscita europee da quest’ultima crisi

Il veto di Ungheria e Polonia all’approvazione dell’accordo del bilancio pluriennale da cui dipendono le risorse anti pandemia stanziate dall’Unione europea ha aperto una crisi politica, un’altra. Questo scontro ha come effetto immediato lo slittamento dell’erogazione delle risorse che non favorisce nessuno – nemmeno gli ungheresi e i polacchi – e che anzi rende ancora più accidentata la già complicata ripresa economica del continente. Ma ci sono anche effetti più duraturi e profondi, che hanno a che fare con la natura dell’Unione europea. Il primo che ci viene in mente è: l’unanimità è un vincolo che quest’Unione non può più permettersi o al contrario è l’unico strumento per restare tutti attaccati, perché negoziare, convincersi, parlarsi è parte integrante del progetto europeo? Da qui, dalla natura del progetto comunitario siamo partite per questo viaggio un po’ doloroso, perché non soltanto c’è il veto che blocca, non soltanto la via d’uscita è in ogni caso difficile da digerire ma Viktor Orbán sta rendendo mainstream un paradosso storico e culturale (e per lui anche personale) che finora era restato per lo più nei suoi discorsi domestici: l’Unione europea è come l’Unione sovietica. E’ talmente penoso questo dibattito che viene da chiedersi e chiedergli: perché non te ne vai? 

 

Vie d’uscita. La riunione in teleconferenza dei capi di stato e di governo di questa sera non permetterà di sbloccare lo stallo sul pacchetto di bilancio provocato dal veto di Ungheria e Polonia sull’introduzione del meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto. Il veto di Ungheria e Polonia “è un problema grave”, riconosce l’entourage del presidente del Consiglio europeo: “E’ possibile trovare una soluzione, ma ci vuole tempo”. La presidenza tedesca dell’Ue ha escluso di riaprire il negoziato con il Parlamento europeo sullo stato di diritto. La Commissione lavora a una dichiarazione per chiarire che il meccanismo di condizionalità sarà applicato sulla base di criteri oggettivi. Ma “non tocca a noi fare proposte”, ha detto al Foglio un ambasciatore: “Sono Ungheria e Polonia a doverci dire cosa vogliono”. Michel è convinto che il problema centrale sia la mancanza di fiducia nell’imparzialità della Commissione. Una soluzione sarebbe rafforzare il ruolo del Consiglio europeo che agisce all’unanimità. Un’altra possibilità è chiudere con un’assoluzione la procedura dell’articolo 7 contro Ungheria e Polonia. Se non dovesse bastare c’è quella che il premier olandese, Mark Rutte, ha definito “l’opzione nucleare”: creare un Recovery fund intergovernativo con 25 stati membri e senza Ungheria e Polonia. Alcuni a Bruxelles hanno iniziato a interrogarsi sull’appartenenza dei due paesi all’Ue. “Hanno un problema sull’immigrazione. Hanno un problema con gli obiettivi climatici ed energetici. Solo loro due hanno problemi con l’applicazione delle sentenze della Corte di giustizia Ue. Che ragione c’è di essere membri di un club con il quale si hanno così tanti problemi?”.

 


Il principio dell’unanimità e una domanda: “Che ragione c’è di essere membri di un club con il quale si hanno così tanti problemi?”


 

Veto, veto, veto. Tutta la storia dell’Ue è accompagnata dalla parola “veto”. Il primo ci fu quando l’Ue era ancora in fasce, appena dopo la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Sullo slancio di quel primo progetto, nel 1952 fu firmato il trattato sulla Comunità europea di difesa (la Ced ideata da Jean Monnet) rigettato poi dall’Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954. I sei paesi fondatori furono costretti a rimediare negli anni successivi con la Conferenza di Messina che portò alla firma nel 1957 del trattato di Roma per istituire la Comunità economica europea (Cee). Appena otto anni dopo, ci fu di nuovo un veto alla richiesta di togliere il veto. Anzi, fu proprio un boicottaggio in difesa del veto: il generale De Gaulle nel 1965 avviò la sua politica della sedia vuota. Contraria alla proposta della Commissione di passare al voto a maggioranza qualificata in diversi settori e di riformare la Politica agricola comune, la Francia si mise a boicottare tutte le attività dell’allora Cee. La crisi fu risolta l’anno successivo  con il compromesso di Lussemburgo: un accordo informale tra i capi di stato e di governo che stabiliva il voto all’unanimità ogni volta che uno stato membro invocava interessi “molto importanti”. Da allora la maggioranza qualificata è diventata la regola. Il veto è stato comunque spesso minacciato (ma usato raramente) su innumerevoli dossier, alimentando il mito dello sbattere i pugni sul tavolo per difendere gli interessi nazionali. Margaret Thatcher più che i pugni usò la borsetta per ottenere nel 1984 lo sconto del Regno Unito al bilancio comunitario. Ma l’anno successivo fu sconfitta al Consiglio europeo di Milano, quando Bettino Craxi forzò la mano del compromesso di Lussemburgo con un voto a maggioranza per convocare la Conferenza intergovernativa che partorì l’Atto unico. I britannici hanno poi fatto del veto un’arma contro i federalisti o per ottenere trattamenti privilegiati per il Regno Unito. Gli europeisti, anche se più discreti, non sono stati da meno. La Francia e l’Austria hanno usato il veto per bloccare l’allargamento ai Balcani. I Paesi Bassi lo hanno invocato per ottenere più sconti al bilancio comunitario. Perfino la Vallonia – la regione francofona del Belgio – ne ha fatto a suo modo ricorso, quando ha bloccato l’adozione del Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada. Prima del veto attuale di Ungheria e Polonia al pacchetto di bilancio, l’ultima crisi per un veto è stata provocata da Cipro sulle sanzioni alla Bielorussia. Uno dei più piccoli paesi dell’Ue contro tutti gli altri, e in particolare contro la Germania. L’episodio ha rilanciato il dibattito: vale o no la pena di mantenere il diritto di veto nei settori in cui ancora c’è? Dalla politica estera alle tasse, le decisioni devono  essere prese all’unanimità. Gli europeisti vorrebbero togliere il veto anche sulla riforma dei trattati, oltre che sul bilancio pluriennale dell’Ue. La Commissione ha detto di essere favorevole a passare al voto a maggioranza: in politica estera almeno per l’adozione delle sanzioni e sui diritti umani; in materia di tasse su quasi tutto. Ma c’è un’altra scuola di pensiero. “L’unanimità favorisce l’adesione duratura dei 27 paesi alla strategia decisa insieme”, ha detto il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in un recente discorso al think tank Bruegel: “La rinuncia all’unanimità non rischia di apparire come una falsa buona idea? Certo, l’esigenza dell’unanimità rallenta e a volte impedisce la decisione. Ma  conduce a compiere sforzi costanti per saldare gli stati membri gli uni agli altri. E questa unità europea è anche la nostra forza”.

 

S’è rotto il gruppo Visegrád. “Le scelte che facciamo oggi ci definiranno domani. L’Ue non può difendere i valori che condividiamo – come lo stato di diritto – se non raggiungiamo un’intesa su ciò che è veramente importante. La Slovacchia sostiene il fatto che i benefici dovrebbero derivare dalla responsabilità”: il tweet è di Zuzana Caputová, la presidente europeista della Slovacchia che dopo la decisione di Ungheria e Polonia di mettere il veto al bilancio 2021-’27 e al Recovery fund ha tenuto a far sapere che lei e il suo paese non la pensano affatto come i loro vicini: il ministro degli Affari europei slovacco Martin Klaus ha chiesto a Budapest e a Varsavia di non bloccare l’accordo sul pacchetto di bilancio. La Repubblica ceca non si è pronunciata, ma non si è espressa a favore dei compagni del gruppo di Visegrád che è il primo elemento, in questa nuova crisi, a uscire frammentato dalla decisione di Ungheria e Polonia. Il gruppo adesso è diviso a metà, e quel blocco che negli ultimi anni era diventato il nucleo dell’euroscetticismo si è dissolto sotto  le pressioni di Orbán. Ma forse è anche un ritorno alle origini, il gruppo era nato agli inizi degli anni Novanta per favorire l’integrazione dei tre – Slovacchia e Repubblica  ceca erano insieme – dentro all’Ue. Voleva essere un ponte, Orbán lo ha trasformato in una trincea. Slovacchia e Repubblica ceca chiedono un ritorno a casa, alla collaborazione, all’idea che “benefici” e “responsabilità” vadano di pari passo.

 

 

Marshal Tweeto. Se il gruppo di Visegrád si è rotto e non esiste più c’è un nuovo asse pronto a formarsi. In questo momento il leader che più si sente vicino a  Orbán e a Mateusz Morawiecki, che ha deciso di seguire l’omologo ungherese in una battaglia per lui ancora meno conveniente, è lo sloveno Janez Janša. Janša ha detto che è contrario all’accordo sul pacchetto di bilancio e ha inviato una lettera ai colleghi europei per dire che per l’Ue non è un bel periodo, ma può superare ogni cosa se ha chiaro quale sia la rotta da seguire. Politico, che ha potuto vedere la lettere, ne ha riportato qualche virgolettato: “L’Ue è un convoglio di navi che navigano in mari agitati (...) Di fronte al convoglio ci sono barriere coralline e iceberg. Ci sono molte sfide che possiamo superare, ma solo se rispettiamo il contratto che fissa all’unanimità la direzione del nostro viaggio”. E Janša, per logica, ha pensato che per aiutare il convoglio fosse il caso di rafforzare la parte che va contro i valori– e gli accordi – europei. Il premier è  un personaggio chiave  in questo momento per i governi di Budapest e Varsavia convinti che, se non riusciranno a ottenere quello che vogliono con una presidenza tedesca e con la successiva portoghese, potranno ottenerlo in estate, con l’inizio del semestre sloveno. Il primo ministro Janša, dopo le elezioni americane, era stato il primo leader europeo a esprimersi, e senza neppure attendere il risultato ufficiale aveva scritto al presidente americano: “E’ abbastanza chiaro che il popolo americano ha eletto Donald Trump e Mike Pence per altri quattro anni”. Janša  da tempo cerca di farsi conoscere come uno degli uomini forti alla guida delle democrazie illiberali e per questi uomini forti il modello è Trump. Ad accomunare Janša e  il presidente americano  c’è anche un certo amore per Twitter, un certo modo compulsivo e impulsivo di utilizzare il social che gli è valso il soprannome di Marshal Tweeto. Un richiamo all’altro maresciallo dell’area balcanica: Tito.

 


Il gruppo di Visegrád si è spaccato ma c’è qualcuno pronto a mettersi al fianco di Polonia e Ungheria: Marshal Tweeto


 

La propaganda antieuropea in Ungheria si muove attorno al “piano Soros”, cioè al fatto che l’Ue, burattino guidato dal filantropo ungherese-americano, stia mettendo a punto un progetto eversivo volto a sostituire l’identità cristiana del continente con altre religioni e culture portate dalla massa di immigrati in arrivo (non in Ungheria, dove il problema è l’emigrazione). L’altro fronte della propaganda è il paragone tra Unione europea e Unione Sovietica. Lo ha fatto il premier Orbán parlando alla radio domenica: se passa la condizionalità sullo stato di diritto, l’Ue si trasformerà in “una seconda Unione Sovietica”. Lo ha fatto il ministro della Giustizia, Judit Varda, in teleconferenza con i colleghi europei (ci sono gli audio disponibili: un incontro invero poco diplomatico): “Siamo fortunati a non vivere più in un sistema politico in cui qualcuno può essere punito per deviazioni ideologiche anche se non ha violato alcuna regola. Non dobbiamo tornare a quei tempi”. L’ultima volta che un leader europeo ha fatto questo paragone, a parte Orbán, è stato nel 2018, quando l’allora ministro degli Esteri inglese Jeremy Hunt disse: “Cos’è successo alla fiducia e agli ideali del sogno europeo? L’Ue è stata creata per proteggere la libertà. Era l’Urss che non permetteva alle persone di andarsene. Le lezioni della storia sono chiare: se trasformi l’Ue in una prigione, il desiderio di andarsene non scomparirà, ma crescerà e noi non saremo l’unico prigioniero che vuole scappare”. Molti paesi dell’est e i baltici risposero ricapitolando al ministro i dati della prigione sovietica paragonata alla cosiddetta prigione europea: parlarono dei loro morti. Il governo di Londra si scusò a nome del ministro, poi l’esempio della Brexit ha fatto il resto per formare coscienze e opinioni degli altri paesi rimasti “prigionieri”. Orbán non disse nulla: non è la libertà dei britannici che lui va cercando. Vuole la libertà di violare le regole dell’Ue, ma restare impunito, e naturalmente prendersi i soldi. 


(ha collaborato David Carretta)

Di più su questi argomenti: