Quando si incontrarono per salutarsi, negli ultimi giorni di ottobre del 2019, Angela Merkel ringraziò Mario Draghi per il suo contributo a salvaguardare la stabilità dell’Unione europea. La cancelliera tedesca usò un’espressione precisa per dare il senso del lavoro fatto insieme, non sempre d’accordo, non sempre sulla stessa linea, ma insieme: grazie per il ruolo che hai avuto e hai voluto interpretare nel “concerto europeo”. I due erano a Francoforte, era la festa di addio per Draghi, che lasciava la guida della Banca centrale europea a Christine Lagarde, e c’erano molti leader europei, c’era il presidente italiano Sergio Mattarella, c’era quel sentimento leggero e determinato che hanno i sopravvissuti che non pensano più al pericolo scampato, ma alla prossima avventura. Nel concerto europeo, Draghi è quello che salva, il crisis manager più efficiente che c’è, poche parole ma che restano perché le ha pronunciate lui: provate a risentire il premier britannico Boris Johnson che, uscito dall’ospedale dove era stato ricoverato per il Covid, ripete lo slogan celebre “whatever it takes” applicandolo alla lotta alla pandemia. L’effetto è quasi comico, come tutti gli “yes we can” finiti in bocca a chi non è Barack Obama. L’esercizio europeo è sempre trovare un’armonia che renda piacevole il concerto, ma ognuno ha il proprio ruolo, le proprie parole: per questo siamo andate a vedere come risuona la voce unica di Mario Draghi in Europa, la sua visione, la sua eredità, le attese anche ora che le stelle dell’ordine liberale occidentale si riallineano, e una forse splenderà sopra l’Italia.
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