EuPorn-Il lato sexy dell'Europa
Sul divano (no, non quello) a guardare la tv dell'Europa
Nell’est i governi trovano ogni modo per prendere il controllo dei media, nell’ovest si va al contrario, con accuse di fake news e progetti alternativi
La frequenza 92.9 della radio ungherese è ancora vuota. Da maggio inizieranno le trasmissioni di una chiesa molto piccola, ma molto vicina al governo di Viktor Orbán che, pur non avendone le credenziali, è stata autorizzata a occupare il posto che fino al 14 febbraio era appartenuto a Klubrádió, l’emittente che ha per simbolo una zebra e che per vent’anni era stato il salotto politico e culturale dell’opposizione al governo ungherese. Per questo, dopo diversi tentativi, Orbán ha deciso di spegnerla. Non ci è ancora riuscito del tutto, perché Klubrádió ora trasmette su internet, ha avviato una campagna di donazioni che, ci ha detto András Arató, direttore e fondatore, non va per niente male, anzi, “le entrate sono aumentate”. Le storie di Klubrádió e di Viktor Orbán sono molto legate, perché Arató ha deciso di creare l’emittente nel 2001, durante il primo mandato del leader di Fidesz. “Ricordo chiaramente il giorno in cui mi venne l’idea, avevano appena nominato a capo della radio statale ungherese una giornalista che aveva realizzato programmi di estrema destra. Per me fu un messaggio, il segnale che non ci sarebbe stato presto più nulla da ascoltare. In tre mesi ho organizzato tutto, ho comprato l’attrezzatura e a dicembre abbiamo iniziato”. L’idea era quella di creare un’emittente alternativa, “colorata”, ci dice Arató, in cui si parlasse di tutto: politica, sport, cultura. Nel 2002, poi Orbán perse le elezioni e ci furono otto anni di normalità. Fidesz però tornò nel 2010 con l’idea di fare quello che non aveva fatto prima: aveva imparato che per avere il controllo assoluto bisognava rosicchiare il pluralismo, anzi divorarlo, perché i cambiamenti, secondo Arató, sono stati rapidissimi. Nelle mani del governo si è concentrata quasi tutta la stampa ungherese, un’agenzia, la Kesma, con a capo uno dei più fedeli uomini di Orbán ha cominciato a rilevare una testata dopo l’altra, iniziando dai giornali locali, e arrivando a media sempre più grandi. Klubrádió in tre anni perse il suo diritto a trasmettere nazionalmente e le venne affidata una frequenza locale, solo per la zona di Budapest. Ma Klubrádió ha un motto, “siamo la radio più famosa del mondo”, perché quando iniziò la prima battaglia legale contro il governo ungherese – e quella volta la vinse – Arató venne invitato due volte a Bruxelles e addirittura Hillary Clinton chiese a Orbán cosa “diavolo stesse combinando con le frequenze”. Nonostante gli inviti, però, l’Ue aveva sottostimato la minaccia di Orbán e nonostante il clamore, Klubrádió perse ugualmente il 90 per cento delle sue entrate pubblicitarie, ma è riuscita a sopravvivere. La forza di Klubrádió era, ed è ancora, nell’essere diventata un movimento, quindi molto di più rispetto a una radio, che oggi rappresenta la storia di un organo di informazione testardo, nato perché aveva intuito tutto sin dall’inizio. Perché aveva capito che il suo compito non fosse tanto quello di raccontare il quotidiano, ma di prevederlo, di cambiarlo, di plasmarlo, sapendo che in una democrazia fragilissima come l’Ungheria questi compiti erano ancora più complicati. Klubrádió ha un processo aperto in Ungheria, sa già che lo perderà, e poi si rivolgerà al Tribunale dell’Unione europea. Vuole portare la sua zebra fino a Bruxelles.
Siamo partite da questa zebra coraggiosa per spiare cosa si guarda nelle televisioni europee, quali sono le battaglie, le priorità, su cosa si regge quel legame complicato tra raccontare e governare. Ma prima abbiamo chiesto ad András Arató perché Klubrádió abbia come simbolo una zebra. “Prima di noi, la nostra frequenza era occupata da una radio che parlava principalmente di traffico, e la zebra richiama i motivi che si trovano lungo la strada. Ma soprattutto, la zebra è un animale molto simpatico, libero, non puoi addomesticarlo, ed è bello”.
Il fondatore di Klubrádió ci racconta come è nata (e perché usa la zebra) l’emittente che di Orbán aveva capito tutto
86 centesimi di rabbia. Ci sono molte parole in tedesco con un sacco di lettere, una di queste è: Rundfunkstaatsvertrag, che definisce gli accordi interstatali in Germania sulle licenze televisive e radiofoniche dell’Ard, il principale gruppo pubblico del paese, e di Zdf, che sta per “seconda televisione tedesca”. In Sassonia-Anhalt, ex Germania dell’est, alla fine dello scorso anno è quasi caduto il governo locale a causa di queste licenze, o meglio: del canone. Qui governa un esecutivo nero-rosso-verde, perché nel 2016 ci fu un exploit pazzesco dell’AfD, che passò da zero al 15 per cento, e così i cristianodemocratici fecero il governo con l’Spd e con i Verdi in chiave anti estremismo. Ma quando si discusse, alla fine del 2020, nel Parlamento locale l’aumento del canone di 86 centesimi al mese (sarebbe passato da 17,5 a 18,36 euro), scoppiò una rivolta capitanata dall’AfD, che considera la tv pubblica “nemica del popolo” o peggio ancora “Lügenpresse”, il termine nazista per definire “la stampa bugiarda”. Fin qui tutto normale: in buona parte dell’Europa occidentale i partiti populisti, soprattutto quelli di destra, attaccano i media pubblici e più influenti considerandoli “fake news”, pieni di pregiudizi liberali, inaffidabili. Il problema in Sassonia-Anhalt si pose perché anche buona parte della Cdu si schierò contro l’aumento del canone, e Spd e Verdi minacciarono di lasciare il governo in difesa di un servizio pubblico ancor più necessario in tempi di pandemia e con un flusso di disinformazione sempre più corposo e ingestibile. La possibile collaborazione con l’AfD fece tremare tutto il partito, compreso il governatore, il cristianodemocratico Reiner Haseloff che all’inizio era contrario all’aumento del canone ma che poi cambiò idea, per salvare il governo e pure il cordone sanitario anti AfD che la Cdu ha messo in piedi in tutto il paese (come si sa, per aver violato il confine, Annegret Kramp-Karremabuer ha dovuto dimettersi dalla leadership della Cdu: forse oggi per la prima volta, con la lotta in corso tra Cdu e Csu per il successore di Angela Merkel, sta tirando un sospiro di sollievo). L’aumento è stato infine congelato, ma è destinato a tornare fuori non soltanto perché l’Ard e la Zdf hanno bisogno di essere finanziate, ma anche perché il 6 giugno qui ci sono le elezioni, uno degli appuntamenti di questo superanno elettorale. Una nota: qui è anche molto sentita la questione dei vaccini, e la relativa informazione/disinformazione, perché la Sassonia-Anhalt è un hub di produzione di AstraZeneca, Pfizer-BioNTech e potrebbe diventarlo, quando e se il vaccino sarà approvato a livello europeo, anche di Sputnik V.
A proposito di vaccini e disinformazione. Nel giro di una settimana in Repubblica Ceca sono stati licenziati due ministri, quello della Sanità (continuano a cadere come mosche, i ministri della Sanità in Europa: quello austriaco si è appena dimesso per il troppo stress pandemico, come non capirlo) e quello degli Esteri. I due sono stati cacciati perché si sono rifiutati di sostenere l’acquisto di dosi di Sputnik V fino a che l’Ema non darà il via libera (erano anche contrari all’ingresso della russa Rosatom nel completamento della centrale nucleare di Dukovany: sono anti russi, insomma). Il licenziamento è stato voluto dal presidente, Milos Zeman, un gran sostenitore di Mosca e del suo vaccino. Il primo ministro, Andrej Babis, ha lasciato fare perché a ottobre ci sono le elezioni e l’appoggio di Zeman è considerato fondamentale per la sua sopravvivenza, ancor più perché il suo partito, Ano, oggi è secondo dietro al Partito dei pirati, e il centrosinistra con cui è ora in coalizione potrebbe non superare la soglia di sbarramento. Questo laissez-faire di Babis riguarda anche i media ed è ancor più significativo perché l’azienda di sua proprietà, Agrofert, è uno dei principali gruppi editoriali del paese, controlla due quotidiani, una radio e una rete televisiva. Il Parlamento di Praga deve votare quattro nuovi membri del consiglio di amministrazione della Czech Television, l’emittente pubblica del paese: i nomi sono stati proposti dal governo. L’opposizione dice che i quattro nuovi arrivati sono una scelta politica e non di merito e che servono a Babis per assicurarsi il controllo, durante la fase elettorale, di una tv pubblica che gode di grandissima fiducia, non soltanto perché è considerata molto accurata, ma perché è l’ultimo baluardo contro gruppi editoriali di proprietà di oligarchi (non sono tutti amici di Babis, va detto, ma lo zampino di Zeman e quindi dei russi c’è anche qui). Molti esperti di media europei temono che la Repubblica ceca vada nella stessa direzione di Ungheria e Polonia, ma un commentatore ceco, Adam Cerny, ha detto una cosa interessante al Financial Times: “Non penso che Babis voglia uno scontro politico aperto sulla Czech Tv”, forse perché rischia di perderlo.
Il format polacco. Dalla Polonia è arrivata una notizia piccolissima, che ci ha fatto tirare un breve, ma molto speranzoso, sospiro di sollievo. Un tribunale ha bloccato il primo piano del partito nazionalista PiS per mettere le mani su più di cento testate locali. Jaroslaw Kaczynski in Polonia vuole importare il modello Orbán. Il piano del partito nazionalista era di lasciare che la compagnia petrolifera polacca Orlen, controllata dal governo, rilevasse le testate del gruppo editoriale Polska Press. Ma un tribunale ne ha sospeso l’acquisizione. Il governo polacco ha fatto un’altra proposta di legge, molto orbaniana, vorrebbe che le testate private pagassero una tassa più alta sugli introiti pubblicitari, il governo l’ha chiamata una tassa di solidarietà per aiutare l’economia del paese. I media hanno risposto con uno sciopero organizzatissimo di ventiquattr’ore in cui i giornali sono usciti con le prime pagine nere, le radio sono rimaste in silenzio, e le tv a studi vuoti.
Tito, ancora. Se in Polonia la televisione pubblica è già nelle mani del governo, in Slovenia il premier Janez Jansa sta lavorando per toglierle l’indipendenza. Ma i suoi piani, non vanno come vorrebbe. La Radio-Televisione slovena (rtv-slo), secondo il premier, è fin troppo indipendente e per questo Jansa vorrebbe riformarla. Nel frattempo se la prende con i giornalisti su Twitter e per la sua foga contro tutti, ci è finita di mezzo anche la giornalista di Politico Lili Bayer, è stato soprannominato Marshal Tweeto, come il Maresciallo Tito – anche se forse l’intenzione di Jansa era quella di emulare gli sfoghi trumpiani. Ma il suo piano di approvare una legge sui media che gli permetta di controllare l’indipendente Radio-Televisione slovena è stato bloccato in Parlamento. Segno che anche nei paesi europei in cui il pluralismo sembra essere più in pericolo ci sono tracce fortissime di resistenza e che il piano orbaniano non funziona ovunque.
Nella Francia elettorale. Tra i politici francesi va di moda aprirsi una propria web tv, per contrastare i grandi gruppi editoriali e l’informazione pubblica. Il premio per la sfacciataggine, in questo senso, va a Benoît Hamon, colui che nel 2017 trascinò il Partito socialista nel baratro e raccolse il 6,36 per cento dei voti: quando ha lanciato la sua web tv a pagamento, SensTv (4,99 euro al mese “per riflettere”, come ha detto lui) l’ha posizionata come “l’anti CNews”, dove CNews è il colosso all news del più importante gruppo televisivo a pagamento francese che è di Vincent Bolloré, patron di Vivendi. Nessuno ha chiesto ad Hamon se il paragone non fosse un po’ eccessivo: parevano tutti preoccupati che questo fosse un passo per una gran rentrée politica. Lui ha smentito: già le presidenziali francesi del 2022 sembrano molto uguali a quelle del 2017, almeno i socialisti possono ancora sperare di tirar fuori un candidato un pochino più forte. In realtà la preoccupazione è CNews, che è soprannominata la Fox News francese e che fa molta paura a chiunque non sia Marine Le Pen. Per il momento è stato congelato un affare che Bolloré voleva chiudere in fretta, cioè comprare la radio Europe 1 e trasformare anche questa in chiave molto destrorsa. Non potrà farlo fino a dopo le elezioni, ma la redazione di Europe 1 era ed è pronta alla battaglia. Forse anche Emmanuel Macron.
In Francia vanno di moda le web tv per contrastare l’informazione pubblica e il canale che preoccupa tutti: CNews
A proposito di Macron: va in onda in questi giorni il documentario “Sommets” che racconta come sono stati negoziati il Green Deal e il Recovery plan. Il regista è Yann-Antony Noghès, figlio d’arte del principato di Monaco (è il nipote di Antony Noghès, che ha inventato il Gran Premio di Monaco), e dicono che abbia avuto un accesso mai visto prima al seguito del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Il lancio del documentario è un po’ spaventoso: “Tensioni, lotte di potere, guerre di ego, scommesse colossali e suspense. L’Europa come non l’avete mai vista, dietro le porte chiuse”. In realtà molte di queste cose si vedono, o si intuiscono, anche da qui fuori, ma non vogliamo rovinarci lo spettacolo: abbiamo il divano, e pure le sedie.