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In Lituania, frontiera e rifugio degli anti regimi
I dissidenti dell’est trovano casa nel vicino Baltico, che li protegge e con loro protegge i valori dell’occidente. Da Mann alla macchina del tempo di Vilnius
Sulla costa del Mar Baltico, tra le dune di Nida, un villaggio di pescatori della Lituania, Thomas Mann trovò “il suo rifugio”, avrebbe raccontato il suo nipote prediletto, Frido, “forse addirittura un preludio all’esilio”. Mann scoprì questo lembo di terra, la penisola dei Curoni che oggi è per metà lituana e per metà russa, nel 1929, ne riconobbe la bellezza naturale, questa sua aria di rifugio e di frontiera assieme, e decise di costruire una casa di famiglia con i soldi guadagnati con il Nobel per la letteratura che ricevette quello stesso anno. Ci passò molto tempo dal 1930 al 1932, scrisse qui “Quel che ci aspetta”, la sua denuncia contro i pogrom a Kaliningrad, e quando nel settembre del 1932 se ne andò non sapeva che non avrebbe mai più rivisto questo suo rifugio affacciato sul mare, con alle spalle la laguna. Il cottage fu prima occupato dai nazisti, poi dai sovietici, sparirono tutti i mobili e i ricordi della famiglia Mann, ma le pareti e il tetto blu, come le casette colorate dei pescatori di anguille e lucci di Nida, si salvarono. Oggi è un museo che racconta non soltanto cosa ci trovò Mann in questo luogo – appartenuto agli svedesi, ai russi, ai francesi, ai tedeschi, di nuovo ai francesi, poi ai lituani, poi a Hitler e di nuovo ai lituani, diventati nel frattempo sovietici – ma anche quel che la Lituania rappresenta oggi per i paesi dell’ex Unione sovietica e soprattutto per i dissidenti che da quei paesi, compresa la Russia, scappano: un rifugio e una frontiera. Si trova casa, qui, ma non ci si deve nascondere, anzi si può parlare, combattere, fare catene umane fino al confine per urlare contro il regime russo, soprattutto, ma anche contro gli altri, quello bielorusso, quello ucraino quando c’era, quello cinese. La Lituania, con la Lettonia e l’Estonia, racconta una storia europea che non ha paragoni: i Paesi baltici sono gli unici ex dell’Unione sovietica a essere entrati nell’Unione europea e nell’euro. Sono i paesi che, visti con gli occhi dei partiti, dei movimenti e dei leader delle opposizioni dell’est, ce l’hanno fatta. Per questo sono diventati nel tempo il luogo dell’accoglienza e della protezione dai regimi: la Lituania è “uno dei più ardenti difensori della democrazia liberale”, ha scritto il Financial Times. La premier lituana, Ingrid Simonyte, dice: “Non siamo mai stati un paese tanto sicuro e pronto per affrontare le minacce. Ma questa non è la fine della storia. Questo mondo fondato su trattati, valori e regole è stato un pochino manomesso”. Per aggiustarlo e proteggerlo, la Lituania sfrutta la sua storia, e il suo istinto.
La difesa della democrazia per i lituani è una questione storica: nasce dalla volontà di essere un ponte tra l’ovest e l’est
Il rifugio come vocazione. E’ una vocazione, ma anche un calcolo ben preciso, e la direttrice dell’Istituto di relazioni internazionali di Vilnius, Margarita Seselgyte, ci ha detto che la Lituania ha sempre avuto un’idea molto chiara di come voleva comportarsi in politica estera: dal 2004, quando è entrata nella Nato e nell’Unione europea, ha iniziato a tracciare le linee della sua posizione internazionale. “Una volta diventati indipendenti – ci ha detto la direttrice – abbiamo iniziato a domandarci cosa volevamo. Volevamo far parte dell’Unione europea e dell’Alleanza atlantica. Una volta ottenuto questo abbiamo capito che dovevamo avere un ruolo di ponte”. Un ponte tra l’est e l’ovest, “con una gamba ben piantata in occidente, ma con la capacità di capire le esigenze dell’est, di comprenderne i problemi e anche di provare a risolverli”. La Lituania è stata la prima tra le Repubbliche sovietiche a diventare indipendente, anche se dovette attendere un anno, fino al 1991, perché l’indipendenza le venisse riconosciuta. “Abbiamo cercato di formulare una politica estera che ci permettesse di essere rilevanti, e la nostra posizione ce lo consente. Poi non abbiamo dimenticato l’aiuto che gli altri paesi ci hanno offerto in passato, soprattutto gli scandinavi. Adesso è il nostro momento di aiutare”. Di dubbi ce ne sono stati perché non è sempre stato semplice per la Lituania fare da ponte ed essere tra i critici più forti del Cremlino, ma Vilnius non ha voluto rinunciare alla sua missione: comunicare con i paesi dell’est e portarli, trascinarli se necessario, più vicini alla democrazia.
Il rifugio dei bielorussi. Il nove agosto scorso ci sono state le elezioni in Bielorussia, che il dittatore Aljaksandr Lukashenka pretende di aver vinto con l’80 per cento dei voti. Ma la notte stessa, dopo l’annuncio del dittatore che è il presidente della nazione dal 1994 e dai tempi sovietici ha cercato di lasciarla il più immobile possibile, sono scoppiate delle protese molto vaste. I bielorussi sono scesi in strada a manifestare: erano soprattutto giovani. Sono stati picchiati, arrestati, torturati. Dopo i giovani hanno iniziato a manifestare gli altri, a qualsiasi età, di qualsiasi estrazione sociale. Il dittatore pensava che prima o poi questo movimento si sarebbe fermato, chi resisterebbe con tante minacce? Ma i bielorussi non si sono fermati. Lukashenka allora ha provato ad allontanare i leader dell’opposizione, soprattutto la sua sfidante, Sviatlana Tikhanovskaya, la vera vincitrice, secondo lo spoglio indipendente, delle elezioni. Chi non ha acconsentito a lasciare la Bielorussia è stato messo in prigione, altri hanno preso la via dell’esilio in seguito alle minacce e molti sono andati proprio in Lituania. Il paese più vicino, ma anche quello per loro più conosciuto. Margarita Seselgyte ci ha detto che c’è un rapporto assiduo tra i bielorussi e Vilnius, che è sempre stata una consuetudine per i bielorussi andare a fare shopping, in vacanza o a studiare in Lituania. E quando sono scoppiate le proteste, Vilnius non poteva distrarsi. I primi sforzi per aiutare i bielorussi sono arrivati dalla società, sono stati i cittadini i primi a offrire protezione. C’era chi andava al confine ad accogliere i dissidenti, mentre il governo in un primo momento ha cercato di mantenere una certa distanza: “L’opposizione bielorussa è contro Lukashenka, ma non è anti russa, anzi. Per questo era complicato stabilire un rapporto bilanciato”, ci spiega Seselgyte. Nonostante la complessità della situazione il governo, quando si è trattato di aiutare, non si è tirato indietro. Ha accolto la leader dell’opposizione e l’ha fatta sentire al sicuro, non ha fatto pressioni ma questo è stato fondamentale affinché lei non mollasse. I lituani si sono dimostrati molto sensibili alla questione bielorussa e il 23 agosto scorso, i cittadini ammantati di bandiere bianco-rosse, si sono presi per mano per ricordare la catena umana che gli abitanti organizzarono, potentissima, tra Lituania, Lettonia ed Estonia per chiedere l’indipendenza dall’Urss. E’ stato un gesto importante, i lituani hanno dedicato ai bielorussi la loro conquista dell’indipendenza. Lukashenka questa settimana ha chiuso le frontiere e non è più possibile per i cittadini che vogliono fuggire dal regime raggiungere i paesi vicini, ora non esiste neppure più la possibilità di un rifugio, ma per i bielorussi che sono riusciti ad andarsene la sensazione è che Vilnius sia una città concepita anche per loro: “Il governo lituano ha investito molto per i bielorussi, soprattutto in infrastrutture – ci ha detto la direttrice – è stata una scelta razionale”.
Il rifugio più a ovest. La Lituania, tra i baltici, è stata sempre la più attiva contro la Russia. E’ anche il paese in cui la minoranza russa è meno presente, è al sei per cento contro il 25 di Lettonia ed Estonia. Ma in questi anni Vilnius non è stata soltanto il rifugio dei bielorussi o degli ucraini in lotta contro i loro regimi amici di Mosca, ma anche dei dissidenti russi che si oppongono al Cremlino. Nonostante il sentimento di sfiducia che i governi lituani nutrono, non si sono mai rifiutati di accogliere chi dalla Russia veniva alla ricerca di una protezione. In Lituania si è rifugiato il sito russo di informazione Meduza. In Lituania vive uno dei collaboratori più stretti di Alexei Navalny, Leonid Volkov, e altri attivisti. “Aiutare gli altri nella loro battaglia per la democrazia è anche un modo per garantire la nostra sicurezza. Noi abbiamo avuto un regime – ci ha detto Margarita Seselgyte – per questo siamo sempre prudenti. E’ una questione di principio, fede nella democrazia, ma anche un discorso di calcolo”.
Il governo della Lituania non ha mai smesso di accogliere chi fuggiva dalla Bielorussia, e i cittadini hanno fatto altrettanto
A proposito: il regime cinese. Già all’inizio di marzo era chiara la decisione, da parte del governo della Lituania, di allontanarsi sempre di più dalla Cina di Xi Jinping. I due paesi non hanno mai avuto un rapporto di dipendenza economica, anzi, negli ultimi anni era stata soprattutto Pechino a usare la Lituania per il trasporto merci su ferrovia. Il 3 marzo il ministero dell’Economia di Vilnius ha detto che il governo avrebbe aperto entro l’anno un ufficio di rappresentanza a Taiwan, proprio mentre la Lituania era uno dei primi paesi dell’est Europa ad aprire il dibattito in Parlamento sulle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. Quando l’Ue ha sanzionato la Cina, Pechino ha reagito con delle contro-sanzioni nei confronti di diversi rappresentanti delle democrazie europee, tra cui Dovile Sakaliene, parlamentare del Partito socialdemocratico della Lituania. A fine maggio il Parlamento lituano ha approvato una risoluzione che definisce “genocidio” quello degli uiguri nello Xinjiang. Poi è arrivato un annuncio ancora più importante: il ministro degli Esteri, Gabrielius Landsbergis, ha detto che la Lituania uscirà dal gruppo “17+1”, il sistema di cooperazione tra la Cina e l’Europa centrale. E’ “puro calcolo”, non c’è niente di politico dietro, ha detto al South China Morning Post l’altro ieri l’ambasciatrice lituana in Cina, Diana Mickeviciene. Tutte queste decisioni sono invece molto politiche, e lo dimostra la reazione dei media ufficiali cinesi, che descrivono la Lituania come una “pedina” dell’occidente, “che gioca un ruolo attivo nella diffusione di fake news”. “Certo che è una decisione politica”, ci ha detto Mantas Adomenas, viceministro degli Esteri lituano. “Il 17+1 è una piattaforma che crea varie strutture di clientelismo e una rete di influenza politica che sembra avere come obiettivo quello di indebolire l’Ue. Questi sforzi contro l’unità dell’Europa sono seri, e deve esserci una risposta unitaria. La Lituania è molto sensibile all’indebolimento della democrazia e della libertà”. E’ la cosa che spaventa di più della Cina: “L’ideologia comunista prevale in alcuni paesi, e si vede anche nella loro aggressività nei confronti dei paesi vicini. Noi siamo molto cauti su questo: abbiamo una lunga tradizione di confronto con gli imperi, e vogliamo che la legge internazionale prevalga, così come il rispetto dei diritti umani. Entrambe le cose mancano in Cina, per esempio nello Xinjiang, o a Hong Kong. E’ un paese dove un partito unico decide e controlla quello che le persone devono dire o addirittura pensare. Questo ci spaventa, ed è per questo che vogliamo mettere una distanza tra noi e loro”. La Lituania è diventata anche la destinazione di molti dissidenti: “Ci sono due ragioni. Siamo dentro alla Nato, nell’Ue, ma siamo anche molto vicini alla Russia, alla Bielorussia. E’ vantaggioso per un dissidente rimanere vicino geograficamente, ma comunque protetto da un paese con uno stato di diritto. Ma c’è anche una ragione più profonda: sin dal Sedicesimo secolo accogliamo dissidenti”. Adomenas cita la storia del principe Andrey Kurbsky, che scappò in Lituania perché perseguitato da Ivan il Terribile. “Abbiamo una lunga tradizione di persone che sono scappate da oriente per cercare la libertà e lo stato di diritto. Ultimamente abbiamo sempre più dissidenti russi, ma spero che arriveranno anche quelli di Hong Kong”.
Quando la Lituania conquistò l’indipendenza dall’Unione sovietica, Nida, il rifugio di Mann, divenne quasi un villaggio fantasma: da tempo, era diventato una destinazione amata dalla nomenklatura sovietica, negli anni Sessanta, tra giugno e agosto, c’erano dei blocchi stradali che impedivano ai lituani di percorrere la penisola. Oggi Nida ha ritrovato fascino e bellezza, s’affaccia sul mare che, secondo i marinai, è il più bello di tutti e a ottobre restituisce l’ambra sulle spiagge – il punto più occidentale della Lituania. A Vilnius da qualche giorno c’è un nuovo affaccio: è una porta circolare installata vicino alla stazione dei treni della capitale da cui si vede la vita dei cittadini di un’altra città. Ora si vedono gli abitanti di Lublino, in Polonia, che stanno a seicento chilometri di distanza ma che attraverso questo portale, o “macchina del tempo”, come l’hanno definita i suoi ideatori, diventano vicini, presenti. L’obiettivo del progetto, che è stato creato nel centro d’innovazione della Vilnius Tech, il politecnico della città, è quello di creare “un ponte che sappia unire, un invito ad andare oltre pregiudizi e disaccordi”. Un’altra frontiera di questo paese-rifugio, e guarda a ovest.
(ha collaborato Giulia Pompili)