EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

Allo specchio con Sánchez, leader equilibrista di Spagna

Paola Peduzzi e Micol Flammini

I rigori, Raffaella Carrà, le somiglianze e le strade diverse. Dalla ley trans al salario minimo, storia di un odio e un amore mediterraneo

La storia dell’Italia e della Spagna si intreccia di continuo, ci spiamo, ci rincorriamo, ci allontaniamo, ci riavviciniamo. In questi ultimi giorni ci siamo scontrati e riuniti nel giro di poche ore, ritrovandoci avversari agli Europei di calcio ma legati dal cordoglio per la morte di Raffaella la Grande, la regina Carrà: abbiamo squarciagolato insieme allo stadio di Wembley “scoppia scoppia mi scoppia il cuor”, per poi giocarci l’accesso alla finale fino all’ultimo rigore. Dicono che questi sono gli Europei più politicizzati di sempre, con gli stadi color arcobaleno e le accuse sulla variante Delta del coronavirus: in effetti l’idea di un campionato itinerante nell’anno in cui attraversare un confine è un circo di tamponi e quarantene si presta a ogni genere di interpretazione (la nostra è: cosa vi è saltato in mente?). Ma la sfida Italia-Spagna è roba antica e profonda: siamo finite persino a dibattere su chi fosse il più bello tra Roberto Mancini e Luis Enrique (qui, se proprio ci deve scoppiare il cuor, scoppia per l’inglese Gareth Southgate) mentre ci sbarazzavamo del cliché che ci accompagna e che l’Economist, un paio di anni fa, sintetizzò malamente così: “Viene sempre la tentazione di trattare Spagna e Italia come se fossero uguali. Gli italiani e gli spagnoli parlano a voce alta, mangiano tardi, guidano veloci e inghiottono enormi quantità di pomodori e olio d’oliva, che allungano la vita”. 
Siamo andate a studiare questa rivalità mediterranea, perché non siamo uguali, ma ci assomigliamo, pure se spesso abbiamo preso strade diverse. Soprattutto in Spagna c’è un premier di sinistra, Pedro Sánchez, e questa cosa, la sinistra al potere, è diventata quasi un’eccezione nell’Unione europea. 

 


I diritti, la questione catalana, lo scontro con Podemos e la variante Delta. Le sfide del governo Sánchez


 

Il consenso e i diritti. Martedì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato in seconda lettura, con un testo un po’ revisionato, la legge conosciuta come “ley solo sì es sì”, che, per determinare se c’è stata un’aggressione sessuale, pone come elemento centrale non la violenza o l’intimidazione ma il (mancato) consenso. Negli stessi giorni, è stata approvata dal governo anche la cosiddetta “ley trans”, seppure, almeno per ora, solo come bozza di disegno di legge. L’attuale formulazione di questo provvedimento è il frutto di uno scontro non segreto tra il ministro dell’Uguaglianza, Irene Montero (che è di Podemos), e la vicepremier Carmen Calvo (che è socialista). L’idea alla base della ley trans è promuovere l’autodeterminazione e la depatologizzazione quando si debba definire la propria identità di genere. Traducendo grossolanamente dal gergo dei gender studies significa che i cittadini spagnoli con più di 16 anni potranno decidere di cambiare il proprio genere sui documenti semplicemente dichiarando di volerlo fare e senza bisogno né di chirurgia, né di terapie ormonali, né di certificati medici o psicologici – per i giovani da 12 ai 16 anni sarà comunque possibile, ma con qualche limitazione in più. Gli stati dell’Unione europea che già consentono questa autodeterminazione sono sei e la Spagna sarebbe il quarto elemento a forte tradizione cattolica di questo gruppetto di cui fanno già parte l’Irlanda, il Portogallo e Malta, che fra i Ventisette è in assoluto il paese meno secolarizzato. La ley trans, che non piace all’opposizione, ha aperto uno scontro anche nella maggioranza. La battaglia si è combattuta (e continua a combattersi) su tre diversi fronti concentrici: tra socialisti e Podemos, tra femministe socialiste e femministe di Podemos e tra la vicepremier Carmen Calvo, da sempre molto vicina al premier Pedro Sánchez, e il ministro dell’Uguaglianza Irene Montero, che ha accresciuto il suo peso da quando il movimento della sinistra radicale di cui è espressione è rimasto orfano del suo leader storico (nonché suo consorte), Pablo Iglesias, che qualche mese fa ha fatto un passo di lato, uscendo dal governo di cui era vicepremier. E se qualcuno pensa che l’indiscutibile vittoria di Podemos sulla ley trans preluda a una rimozione di Carmen Calvo dalla vicepresidenza del governo nel rimpasto a cui Sánchez sta pensando, altri pensano che proprio questa parziale sconfitta della Calvo sia la sua polizza di assicurazione, visto che una sua destituzione nei prossimi mesi farebbe apparire Sánchez come un premier che si consegna in ginocchio al junior partner di governo.

 

Il salario minimo. La guerra tra Podemos e socialisti del Psoe stava per scoppiare anche sul tema del salario minimo, ma è stata fermata dalla parola rinvio. I due compagni di governo erano già pronti per litigare, una delle tante crisi, di quei litigi che poi il premier Pedro Sánchez riesce a far rientrare, spesso anche senza parlare: ha una leadership da motore immobile, spesso sull’orlo del precipizio, e poi (finora almeno) in salvo. In Spagna il salario minimo ammonta a  poco più di 1.100 euro e il ministro del Lavoro Yolanda Díaz (di Izquierda Unida) sperava di incassare un aumento il prima possibile. L’ala socialista invece ha deciso di mettere un freno, perché il salario minimo spagnolo sarà pur basso ma a guardare bene il mercato del lavoro sembra che in Spagna ci siano priorità  più importanti.  Nadia Calviño, ministro dell’Economia, ha fatto un discorso molto chiaro e ha spiegato che ora la priorità è promuovere la crescita economica e creare posti di lavoro. E a quel punto i compagni di Podemos erano già sulle barricate, ma sono stati rasserenati dalla prospettiva di un rinvio. Calviño ha detto che l’obiettivo è di portare il salario minimo al 60 per cento dello stipendio medio entro la fine del mandato di questo governo, ma  non può essere fatto adesso, perché il mercato del lavoro è ancora troppo incerto. Sánchez non vuol ripetere l’errore già fatto nel 2018, quando approvò  un aumento del salario minimo del 22 per cento e fu criticato duramente. Per la Banca di Spagna la decisione portò a una riduzione delle opportunità di lavoro, in numeri, secondo una stima del Financial Times: dai 92 mila ai 174 mila posti di lavoro in meno.  


La questione catalana. Pochi giorni dopo aver ricevuto l’indulto concesso dal governo agli indipendentisti catalani ancora in carcere, il capo di Esquerra republicana, Oriol Junqueras, è partito per Strasburgo. Senza attendere che si affievolissero le proteste dell’opposizione per la concessione del perdono governativo ai ribelli, già dallo scompartimento del treno Junqueras twittava: “Oggi saremo al Parlamento europeo, a Strasburgo, per lavorare e denunciare la repressione dello stato: è qui che ci giochiamo buona parte del futuro, nostro e del nostro paese”. Insomma, neanche il tempo di stravaccarsi, finalmente, sul divano a godersi l’afa nel proprio salotto, neanche il tempo di ingurgitare qualche fetta di pa amb tomàquet con la famiglia e tutto è già business as usual: viva l’indipendenza, abbasso la repressione spagnola, l’Europa deve sapere. Per Sánchez l’unica speranza di poter rimandare per qualche tempo la lettura del prossimo capitolo della questione catalana (che rischia di essere noiosissimo perché molto simile ai precedenti) è che i leader indipendentisti siano troppo impegnati a farsi la guerra fra loro per far la guerra a Madrid. Ieri, Junqueras ha approfittato della scampagnata verso nord per far visita a Waterloo a Carles Puigdemont, il leader di Junts ed ex presidente della Generalitat che ha preferito l’“esilio” al carcere. I due non si vedevano da quasi quattro anni. E non si erano mancati.

 


Frizzante, estroversa, senza complessi nel prendere posizioni. Dal punto di vista dell’appeal, la rivale di Sánchez è Isabel Ayuso


 

La variante Delta. Nonostante il ritorno di problemi eterni, il governo spagnolo ha ancora il suo bel da fare con la pandemia. Martedì è stata proprio la  Catalogna ad annunciare per prima   il ritorno di alcune restrizioni perché i contagi sono di nuovo in aumento. Si teme che la variante Delta sarà prevalente a breve, ora è responsabile del 30 per cento delle infezioni, e per il momento la fascia di popolazione più colpita è quella tra i 12 e i 29 anni, quella che ancora non è vaccinata. C’entrano i viaggi, gli spostamenti, e c’entra anche il botellón, ha detto il governo: le bevute all’aperto con bottiglie che passano di bocca in bocca. Il problema è che la ripresa dei contagi arriva in uno dei momenti più delicati per l’economia spagnola. Madrid, assieme agli altri paesi del sud dell’Europa, Grecia in testa, aveva fatto di tutto perché la stagione turistica potesse riprendere. Era tra i sostenitori del green pass quando Germania e Francia puntavano i piedi  e il ministero del Turismo ancora spera di raggiungere gli standard pre pandemia per la fine dell’anno. Però il tasso di infezione ha immediatamente tinto la Spagna di rosso e questo vuol dire che il paese, secondo le linee guida dell’Ue, è tra quelli sconsigliati per i viaggi. Gli ospedali non sono sotto pressione, ma il turismo annaspa. Per ovviare al problema e proteggere l’affollata estate spagnola il governo punta sulle vaccinazioni: oltre il 41 per cento della popolazione è completamente immunizzato. 

 

L’anti Sánchez. Dopo aver riconquistato per un breve periodo il comune di Madrid, grazie al sindaco Manuela Carmena che ha governato la città tra il 2015 e il 2019, la sinistra spagnola sembra aver perso di nuovo ogni contatto con la capitale e i suoi dintorni. Due mesi fa Isabel Díaz Ayuso ha condotto il Partito popolare di centrodestra alla vittoria nelle elezioni amministrative e si è riconfermata presidente della regione di Madrid. Con il suo slogan del “vivir a la madrileña” Ayuso sembra aver davvero intercettato una certa madrilenità, sottraendo la parola “libertà” agli avversari politici. Ayuso trumpeggia un po’, borisjohnsonizza molto e ogni tanto mescola la sua spontaneità e la sua genuina capacità di intercettare emotivamente il prossimo con un po’ di populismo furbetto. Ma la sua personalità rimane difficile da afferrare. La sua forza è quella di non essere la classica ragazza del Partito popolare con il filo di perle e il fidanzato pettinato con la riga. E il suo “vivir a la madrileña”, che vuol dire abitare in una città in cui “puoi cambiare fidanzato e non incontrarlo mai più” e in cui non avere vincoli, perché, dice la Ayuso, “ogni tanto mi va di cambiare vita, casa, vicini, palestra, parrucchiere e fruttivendolo: ho abitato in sei o sette appartamenti, alcuni dei quali condivisi con sconosciuti, e sempre in affitto” non suona poi così diverso dallo slogan contro la violenza verso le donne diffuso qualche tempo fa, con grande scandalo, dal ministero dell’Uguaglianza che è guidato dalla “podemita”  Irene Montero: “Sola y borracha, quiero volver a casa” (Voglio poter tornare a casa anche se sola e ubriaca). Se non politicamente, visto che non si sa bene quale sia davvero la sua linea e che il leader del Pp rimane Pablo Casado, almeno da un punto di vista di appeal la vera avversaria di Sánchez è proprio la Ayuso. Frizzante, estroversa, senza complessi nel prendere posizioni radicali: tutto il contrario dell’immobilismo efficace del guapo di Spagna, che le sinistre europee, tutte quante, guardano sospirando.


(ha collaborato Guido De Franceschi)

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