EuPorn-Il lato sexy dell'Europa
La staffetta G20-Cop26 è una corsa a ostacoli
C’è grande timore che i negoziati sul clima non portino a risultati concreti. Le proposte, l’anno cruciale (2030) e il guaio geopolitico di chi non si presenta
Nel fine settimana ci sarà la staffetta tra il G20 di Roma e la Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, a Glasgow – riguarda il clima ma riguarda anche l’efficacia del multilateralismo, la capacità di trovare accordi, di restare uniti, di studiare e applicare insieme soluzioni alle grandi crisi di questo momento. Le premesse non sono del tutto rassicuranti, perché in controluce ai buoni propositi e alla retorica della solidarietà costruttiva si vedono le assenze, i dispetti, i silenzi opportunistici. Mario Draghi, premier italiano e padrone di casa del G20, spera di poter consegnare all’ospite della Cop26, il premier britannico Boris Johnson, un consenso di massima sugli obiettivi ambientali globali, ma le parole “paura di un contraccolpo” stanno già circolando tra i vari leader impegnati nella staffetta. Si teme il nulla di fatto ma soprattutto si teme l’impatto sociale, politico ed economico del costo collettivo di un non accordo. Siamo andate a vedere quanto sono in forma e dove vogliono arrivare i corridori di questa staffetta mondiale.
Il padrone di casa. Luke Alexander si occupa di transizione ecologica al think tank Onward, un centro studi di area conservatrice fondato da Will Tanner, ex consigliere di Theresa May, piccolo ma influente e vicino all’attuale governo, in particolare sui temi ambientali. Alexander ci ha detto che “ci sono stati molti commenti negativi sul vertice a causa dell’assenza del presidente cinese Xi Jinping”, uno che alla domanda “mi si nota di più se vengo o non vengo?”, risponde sempre con: non vengo. Le aspettative si sono abbassate anche perché, dice Alexander, “i paesi sviluppati non hanno rispettato la promessa di stanziare fondi per il clima per 100 miliardi di dollari l’anno, ma queste cose non sono vitali per il successo della Cop26”. Lo studioso dice che Xi non ci sarà ma ci sarà il suo negoziatore ed è anche ottimista sulla strategia della Cina e del suo presidente “che vuole mettere la questione climatica nella sua eredità, come dimostra l’obiettivo sulle emissioni nel 2060”. Alexander non è nemmeno preoccupato per la promessa non mantenuta dei 100 miliardi, “si raggiungerà l’obiettivo nel 2023”. La sfida più grande semmai è “fissare obiettivi più ambiziosi per ridurre le emissioni entro il 2030: i prossimi dieci anni sono cruciali ed è su questo che la Cop26 deve essere giudicata: riuscirà a raggiungere un riallineamento degli obiettivi richiesti per evitare l’innalzamento delle temperature entro il 2030? Se ci riesce sarà un successo”. Per Alexander il Regno Unito è il paese perfetto per ospitare un vertice come questo perché è il paese “che ha una politica omnicomprensiva per raggiungere il ‘net zero’ e ha un forte consenso popolare per l’agenda verde. La decarbonizzazione ha riportato il paese ai livelli del 1990, molto più bassi rispetto ad altri paesi, e soprattutto il Regno Unito ha grandi chance di diventare un interlocutore chiave nelle nuove industrie ‘net zero’, cosa che porterà a nuovi posti di lavoro, alla crescita e a smussare la disruption della transizione”.
L’Ue va alla Cop26 sotto la bandiera “missione compiuta” sugli impegni nella lotta al cambiamento climatico
“Leading by example”. L’Unione europea si presenta alla Cop26 sotto la bandiera “missione compiuta” sugli impegni nella lotta al cambiamento climatico. Questa settimana l’Agenzia europea per l’Ambiente ha detto che, secondo i dati preliminari, gli obiettivi che l’Ue si era data nel 2009 per il 2020 sul taglio delle emissioni, l’efficienza energetica e le rinnovabili sono stati raggiunti e perfino superati lo scorso anno. Nel frattempo si è lavorato sui prossimi trent’anni. Nel 2019 la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato lo European Green Deal. Lo scorso giugno il Consiglio dell’Ue e il Parlamento europeo hanno adottato la legge sulla neutralità climatica, che introduce l’obbligo legale di arrivare a zero emissioni nel 2050. A metà luglio la Commissione ha presentato le proposte di “Fit for 55”, il pacchetto di misure per tagliare le emissioni di almeno il 55 per cento entro il 2030. A Glasgow l’Ue potrà dire non solo che sta rispettando gli impegni dell’accordo di Parigi, ma anche che sta assumendo il ruolo di leadership globale attraverso il suo esempio. “Leading by example” è una frase che ricorre spesso nei discorsi dei responsabili europei quando parlano di cambiamento climatico: l’Ue vuole spingere all’azione gli altri principali attori della scena globale (a cominciare da Stati Uniti e Cina) con l’esempio del suo comportamento, e non solo a parole. Quanto agli attori minori (in particolare i paesi a basso e medio reddito), l’Ue è il principale contributore mondiale con 25 miliardi di euro, che potrebbero crescere di altri 4 miliardi se altri paesi ricchi si impegneranno in questo senso. Tutto bene? In realtà, non proprio. Perché “Fit for 55” per ora è solo una proposta, che deve ottenere il via libera dei governi e del Parlamento europeo. Poi ci sono i prezzi dell’energia.
I prezzi dell’energia. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, tenendo conto di tutto ciò che è già stato pianificato nell’Ue, la riduzione netta delle emissioni nel 2030 arriverà ad appena il 41 per cento. Serviranno molte più rinnovabili, molto meno consumo di energia e una serie di altre scelte costose e dolorose non solo per i bilanci pubblici, ma anche per le imprese e i cittadini. In “Fit for 55” la Commissione von der Leyen ha scelto il principio “chi inquina paga”. Una delle principali misure del pacchetto è l’allargamento del sistema di scambio di quote di emissioni Ets ai trasporti su strada e agli immobili. Oltre alle imprese, anche le famiglie vedranno salire il conto per viaggiare in auto o scaldarsi a casa. L’approccio è sostenuto da Germania, Paesi Bassi, Austria e altri paesi nordici, ma incontra una forte opposizione da parte dei paesi dell’est e alcuni stati membri del sud. Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ha accusato la Commissione di “uccidere la classe media in Europa” con “utopie e fantasie”. Con toni meno coloriti, una maggioranza di stati membri e buona parte del Parlamento europeo sono d’accordo con il premier ungherese. Il ricordo della rivolta dei gilet gialli in Francia, innescata da un aumento delle tasse sui carburanti per finanziare la lotta al cambiamento climatico, spinge molti governi alla prudenza. La Commissione ha promesso la creazione di un “Fondo sociale per il clima” e di un “Fondo per la transizione giusta”. Il primo dovrebbe fornire fondi agli stati membri per aiutare le famiglie a uscire dalla povertà energetica. Ma molti dubitano che politicamente possa essere sufficiente a proteggere “i più vulnerabili”, in particolare se il conto salirà troppo per le classi medie, che vedrebbero ridursi il loro potere d’acquisto. Il secondo dovrebbe andare ai paesi che sono più dipendenti dal carbone. I paesi dell’est, oltre che sulle rinnovabili, vogliono puntare sul nucleare, ma questo crea un’ulteriore frattura. La Francia guida la carica dei pro nucleare. Germania, Austria, Danimarca e Lussemburgo guidano quella dei contrari. La Commissione dovrebbe decidere a novembre se inserire il nucleare nella tassonomia, cioè la classificazione ufficiale degli investimenti sostenibili da cui dipenderà la direzione che prenderanno centinaia di miliardi di risorse pubbliche e private: rinnovabili? Gas? Nucleare?
La carbon tax. Per l’Ue c’è infine l’incognita di cosa fare se il suo esempio non basterà a convincere il resto del mondo a seguire la sua leadership nella lotta contro il cambiamento climatico. La risposta della Commissione è una “carbon tax” alle frontiere per imporre dazi su alcune merci prodotte in paesi ad alte emissioni ed evitare delocalizzazioni delle industrie energivore dall’Ue verso zone del mondo con regole meno strette sulla CO2. Alcuni analisti ritengono che la “carbon tax” dell’Ue sia al contempo troppo blanda per incentivare il resto del mondo a tagliare le emissioni e troppo complessa per essere messa in pratica in modo efficace. Ma questo non ha impedito a grandi e piccoli paesi – dalla Cina alla Russia, dal Brasile al Sud Africa – di accusare l’Ue di voler introdurre una misura “protezionista” e “discriminatoria”.
L’America pasticciata. Lunedì Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti, ha incontrato alcuni attivisti e imprenditori legati all’ambientalismo e ha detto: non possiamo più permetterci di avere un approccio incrementale, non possiamo permetterci di essere pazienti. Nel piano trilionario dell’Amministrazione Biden ci sono 500 miliardi di dollari stanziati soltanto per questioni climatiche. Ma alcune delle misure più rilevanti, come il Clean Electricity Performance Program che impone di fatto alle aziende di rinunciare all’energia fossile, probabilmente saranno tagliate: c’è un’opposizione interna al Partito democratico, certo, ma c’è anche che per Joe Biden queste misure sono negoziabili, quindi in parte sacrificabili. Anche la carbon tax è stata discussa ma esclusa. Sanjay Patnaik, esperto di temi ambientali, ha sintetizzato bene l’effetto che fa questa cautela americana: “I nostri partner internazionali ci diranno: ok, è una gran cosa che gli americani almeno siano tornati al tavolo dei negoziati, diplomaticamente vogliono assumersi un ruolo guida. Ma perché mai dovrei ridurre le emissioni se nemmeno gli Stati Uniti prendono seriamente la questione della riduzione delle emissioni?”.
Biden non pare deciso come si vuole mostrare, Cina e Russia fanno gli assenti ingombranti. Il padrone di casa ha “paura”
L’assente russo. Vladimir Putin ha fatto grandi promesse climatiche, ma non andrà a Glasgow. Nonostante abbia detto che per lui la lotta al cambiamento climatico è una cosa seria, non ritiene che la Cop26 sia il posto in cui affrontarla seriamente. In realtà però Putin farebbe meglio a sedersi al tavolo climatico, perché ha detto di voler raggiungere la neutralità dal carbone entro il 2060. La Russia è il quarto produttore mondiale di gas serra e quando fa promesse, un po’ come in tutti i campi, c’è il sospetto che siano di facciata. Ma ultimamente Putin non fa che ripeterlo: la lotta al cambiamento climatico è una priorità. Ma evita comunque di mettersi d’accordo con gli altri.
L’assente cinese. La situazione con la Cina è ancora più complicata perché si è rimessa a far funzionare le sue centrali a carbone, dopo un passo indietro ha ordinato alle miniere di produrre quanto più carbone possibile per far fronte alla crisi energetica. E non è tutto. Prevede di abbassare il prezzo del carbone per aiutare i minatori ad aumentare l’offerta, quindi a produrre più carbone. Il problema è che senza la Cina, un accordo tra potenze non andrà molto lontano. L’impegno dell’Europa e degli Stati Uniti si infrange proprio qui: la lotta al cambiamento climatico va affrontata tutti insieme. E’ sufficiente che uno se ne tiri fuori per far crollare ogni sforzo.
Nessuno è tranquillo per la Cop26 e anche Boris Johnson ha detto di avere paura di un fallimento. A Glasgow poi ci sarà anche Greta Thunberg, l’attivista più famosa del pianeta: ha già previsto uno sciopero per il 5 novembre. Non l’avrà presa bene Boris Johnson, con il quale Greta aveva già avuto un litigio, a distanza. Johnson aveva detto che le rivoluzioni sul clima non le fanno gli amanti del politicamente corretto o chi se ne va in giro ad abbracciare i coniglietti. Le rivoluzioni si fanno con il lavoro e con la crescita. Greta cambiò la propria bio su Twitter e scrisse: bunny hugger. Le bio, Greta le cambia spesso, a seconda di quello che dicono i leader mondiali. Non sappiamo come andrà a finire, quello che abbiamo capito è che tra G20 e Cop26, la battaglia sarà durissima e i corridori ci sembrano già un pochino stremati. Noi nel dubbio e nell’attesa ci siamo messe a piantare alberi: se finisce male, ci serviranno anche da riparo.
(hanno collaborato David Carretta
e Gregorio Sorgi)