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Le acrobazie politiche dei paesi dalle ombre lunghe

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Svezia e Danimarca costruiscono nuovi equilibri politici, una a destra, l’altra resuscitando (addirittura!) il centro. Analogie possibili con l’Italia

Quando era ragazzo, il primo ministro svedese Ulf Kristersson era un ginnasta di successo e oggi che deve tenere insieme un governo di destra di minoranza che si regge sull’appoggio esterno della destra estrema dei Democratici svedesi, molti ricordano quanto sia esperto con le acrobazie. Certe esperienze giovanili torneranno utili a questo politico-economista conservatore che ha attraversato di persona, con qualche sconfitta, la trasformazione dei Moderati, il partito di cui è leader e che alle elezioni dell’11 settembre scorso è arrivato terzo, con il 19 per cento dei consensi. Davanti a lui i Democratici svedesi, appunto, con poco più del 20 per cento dei voti, e il Partito socialdemocratico dell’ex premier Magdalena Andersson, che queste ultime elezioni le ha stravinte con il 30 per cento ma è finita all’opposizione. Ritrovare l’equilibrio nella formazione del governo non è stato facile e non lo sarà nemmeno governare, visto che non soltanto destra e sinistra hanno uno scarto in Parlamento invero piccolo, ma  all’interno del mondo di destra i Democratici svedesi sono cresciuti, tutti gli altri hanno perso. E si sono anche “estremizzati”, ci ha detto Goran von Sydow, direttore dello Swedish institute for European policy studies: “Si definivano liberal-conservatori, ora ricoprono posizioni sempre più radicali anche sull’immigrazione”. E’ una delle acrobazie di Kristersson, che era stato esponente dell’ala liberale dei Moderati, aveva perso la sfida contro quello che sarebbe diventato, nel 2006, il premier Fredrik Reinfeldt, ed era diventato un esponente della cosiddetta “generazione perduta dei liberali”. Ora invece Kristersson fa patti con la destra estrema e anche se, vista da questo nostro sud in cui la destra liberale ha perso i suoi connotati, la sua cultura resta quasi centrista, la nuova coalizione svedese apre a parecchie incognite.  Intanto perché senza i Democratici svedesi la destra in Svezia non potrebbe governare. E poi perché l’esclusione della destra estrema – il famoso cordone sanitario che in altre parti d’Europa, come in Germania, resta rilevante – si è trasformata in uno sfacelo per gli altri partiti di destra. Che hanno dovuto fare, anche loro, parecchie acrobazie, senza nemmeno essere stati ginnasti da giovani. I  Liberali, per esempio, che a Bruxelles fanno parte di Renew Europe e che hanno poco meno del 5 per cento dei voti, si sono spaccati sull’appoggio ai Democratici svedesi, mentre nel 2018 sostennero i socialdemocratici. Durante la campagna elettorale, ci racconta von Sydow, “hanno fatto la stessa scelta di Renzi e Calenda, cioè non sono stati disponibili a collaborare con la sinistra. Soltanto che a differenza loro, è come se nel momento di formare il governo avessero deciso di appoggiare Giorgia Meloni: un vero paradosso, visto che i Democratici svedesi considerano le forze liberali il loro principale avversario”.

  

I Democratici svedesi. La scalata dei Democratici svedesi è stata lenta e paziente e i risultati si devono molto al loro leader, Jimmie Akesson, che ha cercato di ripulire l’immagine del partito in modo così meticoloso da riuscire nell’intento di far dimenticare le origini neonazi. L’illuminazione la ebbe nel 2010, la notte di capodanno, per lo meno così racconta nella sua autobiografia. Ha cominciato a cacciare i membri più estremisti e meno presentabili e durante la pandemia ha fatto il contrario di quello che tutte le estreme destre d’Europa stavano facendo: chiedeva lockdown e mascherine. La Svezia alle prese con il Covid ci è parsa uno sventato mondo alla rovescia, in cui Akesson ha seminato la sua strada verso il successo, ben sapendo che a un partito come il suo si s’adatta molto di più l’opposizione del governo e poi è sicuro di poter crescere ancora. Akesson, quarantatré anni, capelli impeccabili e occhiali spessi, ha scelto di dare l’appoggio esterno al governo di Kristersson prendendosi molto spazio: “Su 62 pagine di accordo quadripartito, 19 riguardano le politiche migratorie, 10 l’ordine pubblico”, ci dice von Sydow. La campagna elettorale è stata incentrata sulla lotta alla criminalità, Akesson andava predicando misure repressive, ma ha già iniziato a mettere le mani avanti. Spesso Giorgia Meloni e Jimmie Akesson vengono paragonati: due leader giovani, cristiani e tradizionalisti che hanno preso un partito impresentabile e hanno cercato di dargli un volto rassicurante, rompendo anche alcuni tabù: i Democratici svedesi hanno anche votato a favore dell’adesione della Svezia alla Nato e qualche anno fa di atlantismo non volevano proprio sentir parlare. Ma le differenze ci sono. “Ancora più di Meloni, Akesson sa bene che il proprio partito è sopportato a stento dal resto della coalizione. Quindi all’interno delle dinamiche parlamentari si dà un gran da fare per mostrarsi affidabile, ma il vero volto emerge nei comizi o sui media. Rispetto a Fratelli d’Italia e soci però in Svezia l’estrema destra non osa sfidare tematiche come l’aborto e i diritti lgbtq”. Questa è pur sempre la terra del progressismo, dei diritti, di Greta Thunberg.

  

Il futuro dei socialdemocratici. A dispetto di tutto questo discorrere sulle destre, il Partito socialdemocratico svedese non è andato affatto male alle elezioni, sono i suoi alleati che sono stati un disastro: i socialdemocratici hanno aumentato la loro quota di voti e adesso dovranno imparare a fare l’opposizione. Von Sydow nota un particolare importante che tutte le opposizioni dovrebbero tenere a mente: “I socialdemocratici sono abituati ad essere pragmatici per esigenze di governo, ora la sfida si sposta sul piano identitario”. Stare all’opposizione e costruirsi una nuova identità: anche la sinistra italiana si trova in questo punto. Ma forse ora c’è un modello cui ispirarsi: la Danimarca, dove i socialdemocratici hanno trovato una ricetta di successo e  “si sono spostati un po’ verso il centro in termini di politiche economiche, ma decisamente a destra per quanto riguarda immigrazione e ordine pubblico. Questo viatico, dice von Sydow, potrebbe non funzionare ovunque. Sicuramente non in Svezia. 

   

Sinistre al centro. Nei centri studi europei, l’Italia è spesso considerata come il laboratorio politico di ciò che attende l’Ue. E se fosse la Danimarca? Più che a Roma, è a Copenhagen che alla fine degli anni 1990 può trovarsi l’origine del populismo nazionalista di destra che in seguito ha prosperato nella politica danese ed europea. Nel 1998 fece il suo ingresso in Parlamento il Partito del popolo danese, fondato appena tre anni prima da Pia Kjærsgaard dopo una scissione di un’altra formazione di estrema destra. Quel 7,4 per cento (e il quinto posto) alle elezioni legislative del 1998, ottenuto grazie alle posizioni contro i migranti e contro l’islam, fu il preludio di una lunga serie di successi elettorali che portò il Partito del popolo danese fino alla soglia del potere, senza però riuscire a governare. Alle elezioni europee del 2014, era diventato la prima formazione del paese con il 26,6 per cento. Ma otto anni più tardi, nella Danimarca che va a elezioni anticipate il primo novembre, le fortune del Partito del popolo danese sembrano esaurite. La formazione che ha condizionato la politica danese negli ultimi 25 anni – imponendo i temi identitari e dell’immigrazione ai governi della destra moderata – rischia di non superare la soglia del 2 per cento per entrare in Parlamento. L’estrema destra populista s’è divisa in tanti piccoli partiti sotto il 10 per cento, ma il fattore dominante sembra essere un altro, e sorprendente: c’è una grandissima voglia di centro. 


La voglia di centro. Il 5 ottobre, la premier e grande favorita nei sondaggi Mette Frederiksen, annunciando il voto anticipato aveva detto: “Vogliamo un governo ampio con partiti su entrambi i lati del centro politico”. Negli ultimi tre anni, la leader del Partito socialdemocratico ha governato con i tradizionali partner del blocco rosso (i Radicali-liberali, l’estrema sinistra e i verdi) con una solida maggioranza di 93 seggi su 179 al Folketing (il Parlamento danese). Queste sono le prime elezioni anticipate in 15 anni, ma le ragioni appaiono decisamente futili: la minaccia di una mozione di sfiducia da parte di uno degli alleati di coalizione, i liberal-radicali, dopo che una commissione d’inchiesta ha criticato il governo per aver dato l’ordine di abbattere milioni di visoni all’apice della pandemia del Covid-19. Ci sono una guerra della Russia contro l’Ucraina e una crisi energetica, sabotaggi ai gasdotti al largo della Danimarca, decisioni storiche come la rinuncia all’opt-out danese sulla difesa europea: è comprensibile che un capo di governo sia tentato dal scegliersi nuovi alleati, se quelli vecchi vogliono farlo cadere per una strage di visoni. In campagna elettorale Frederiksen ha menzionato la possibilità di una coalizione centrista con i radicali-liberali e il partito popolare socialista come potenziali partner a sinistra, e i conservatori e i liberali di Venstre a destra.

 

Una destra tutta nuova. Anche una parte del vecchio “blocco blu” – la tradizionale coalizione di destra – ha deciso di tendere la mano ai centristi del “blocco rosso”. Se finora i liberali di Venstre e i conservatori hanno escluso una grande coalizione, la sorpresa delle elezioni potrebbero essere i Moderati. Questo nuovo partito è stato fondato il 5 giugno dall’ex primo ministro, Lars Løkke Rasmussen, che è anche l’ex leader del partito liberale conservatore Venstre. Rasmussen aveva governato tra il 2009 e il 2011 e tra il 2015 e il 2019 grazie all’appoggio esterno del Partito del popolo danese. Ora il suo obiettivo è una coalizione centrista con i socialdemocratici, i liberal-radicali, i conservatori e il suo vecchio partito Venstre. In un’intervista la scorsa settimana, Rasmussen ha spiegato che c’è “bisogno di avere i socialdemocratici coinvolti” nel governo con una “partnership politica stabile attorno al famoso centro”. La Frederiksen ha risposto: “Positivo!” e ha invitato i leader di Venstre e dei conservatori a “ripensare” il loro no a una coalizione centrista. Lo slogan dei Moderati è “cambiamento dal centro”. Secondo l’ultimo sondaggio di Voxmeter, il partito di Rasmussen è in terza posizione con l’11,5 per cento, dietro ai Socialdemocratici (25 per cento) e ai liberali di Venstre (13,2 per cento). I sondaggi segnalano un successo relativo per un nuovo partito della destra populista, i Democratici danesi, fondato dall’ex ministra dell’Interno, la liberale Inger Støjberg (finita sotto inchiesta per aver separato le famiglie nei centri di migranti). Secondo un sondaggio realizzato dal canale televisivo TV2, le priorità per gli elettori sono la sanità, l’economia, l’ambiente e la politica estera. L’immigrazione arriva solo al quinto posto. Del resto, la politica migratoria è diventata quasi consensuale, dopo che il governo Frederiksen ha adottato misure molto dure, come un programma volto ad appaltare le richieste di asilo al Ruanda. L’Ue, che un tempo era il bersaglio dei populisti, è scomparsa dagli scontri televisivi anche se diversi partiti vogliono abbandonare altri opt-out dopo quello sulla difesa. Quando si parla di Ue, semmai, è in chiave positiva per il suo ruolo nella guerra in Ucraina.  

 

Nella celebre serie tv “Borgen”, il castello, il soprannome del Christiansborg, dove hanno sede il Parlamento, l’ufficio del primo ministro e la Corte suprema danese, il nome del partito della protagonista, Birgitte Nyborg, è i “Moderati”, anche se si ispirava ai Radicali-liberali, tradizionalmente alleati con i socialdemocratici. Alla fine della terza serie, Nyborg fonda un nuovo partito, i Nuovi democratici, e decide di ribaltare la vecchia divisione tra il “blocco rosso” e il “blocco blu”, alleandosi con i liberali e i conservatori perché nella coalizione di sinistra c’è una forza estremista anti immigrazione. Magari si tratta di uno degli ultimi e rari casi rimasti in cui la fantasia precede la realtà.

  
(hanno collaborato David Carretta e Francesco Gottardi)

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