EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

Come cambiano l'Ue le signore della guerra

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Mai tante donne nell’album di famiglia dell’Europa. Ritratti di capaci e incapaci, decisioniste e indecise. E’ questione di leadership, non di femminismo

Mi sono sentita sola come donna e come europea”, disse Ursula von der Leyen dopo la visita in Turchia durante la quale le fu negata una sedia vicino  al presidente turco e al presidente del Consiglio europeo e rimase relegata su un divano – lo ricorderete, è il sofagate. Se avessi avuto una giacca e una cravatta non sarebbe accaduto, continuò la prima presidente donna della Commissione europea, “nelle foto dei vertici precedenti non ho visto una scarsità di sedie, ma non ho nemmeno visto altre donne”. Si parlò molto allora – era l’aprile del 2021 – di Erdogan e del suo disprezzo per le donne, e delle liti protocollari tra la von der Leyen e Charles Michel, che in effetti erano state piuttosto determinanti nell’assenza della sedia fatidica. Si parlò moltissimo anche delle donne, della loro leadership, delle quote rosa, della parità dei sessi e della rappresentanza femminile nelle istituzioni europee, tanto più che anche la Banca centrale europea è guidata da una donna, la francese Christine Lagarde, e di lì a poco, nel gennaio di quest’anno, anche la presidenza del Parlamento europeo sarebbe stata affidata a una donna, la maltese Roberta Metsola. Se si pensa che per di più queste tre signore sono tutte di area conservatrice, il dibattito sulla rappresentanza femminile è diventato un altro elemento di polarizzazione tra destra e sinistra – l’elezione di Giorgia Meloni in Italia ha chiuso idealmente il cerchio. Ma in mezzo c’è stata la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina, è piombato Marte nel mondo che si voleva devoto a Venere, e questo eterno discutere sulla parità si è trasformato ancora una volta, mostrando finalmente quel che ci interessa di più: più del genere, contano le idee chiare e la leadership e la capacità di persuasione, perché il mondo si governa insieme ancor più durante una guerra. Siamo andate a vedere come si sono trasformate le donne europee in quest’ultimo anno di sconvolgimento, superando con un balzo il piagnisteo che spesso accompagna le storie che parlano di donne e di potere per raccontare invece queste nostre signore della guerra. 


La presidente a Bruxelles. Alla presidenza della Commissione, nel luglio del 2019, Ursula von der Leyen ci è arrivata quasi per caso. Scelta dai capi di stato e di governo con una manovra per far fuori gli Spitzenkandidaten (i capi lista alle elezioni europee) e per piazzare Christine Lagarde alla Banca centrale europea. Secondo un testimone diretto, l’allora presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, non sapeva nemmeno chi fosse. Era un ministro della Difesa del governo di Angela Merkel. Parlava un po’ di francese. Aveva trascorso una parte della sua infanzia a Bruxelles. Una parte della sua gioventù a Londra. Madre di sette figli. Medico e moglie che ha seguito il marito negli Stati Uniti, ma senza rinunciare alle proprie ambizioni. Soprattutto: finalmente una donna. E poi: green deal, transizione digitale, difesa dello stato di diritto, trattamento umano ma fermo dei migranti – c’erano tutti gli ingredienti per cinque anni di leadership. La luna di miele è durata a lungo, complice anche la gestione della pandemia. Tutto è filato liscio, finché la von der Leyen ha potuto beneficiare dell’intesa tra Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Partita la cancelliera, il motore franco-tedesco è andato in stallo, e quella che appariva come una leader europea si è rivelata una commissaria molto tedesca, svelta con gli annunci ma poco attenta agli interessi di tutta l’Ue. La dimostrazione è arrivata con la guerra. Ogni volta che da Berlino è arrivato un “nein”, la von der Leyen si è messa di traverso alle richieste che venivano da altri paesi. L’embargo sul gas chiesto dai Baltici? “No”. L’embargo sul petrolio invocato dalla Polonia? Non prima che la Germania sia pronta. Il price cap sul gas russo proposto da Mario Draghi? Solo quando ci saranno gli stoccaggi pieni. Il price cap su tutto il gas? La prima proposta della Commissione prevedeva un meccanismo impossibile da mettere in pratica. Il disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità da quello del gas? Quattordici mesi dopo le prime richieste dei leader non c’è ancora una proposta. Secondo una nostra fonte, la von der Leyen spera di essere confermata alla presidenza della Commissione, puntando tutto sul sostegno del governo di Olaf Scholz. Ma i leader sono pronti ad altri cinque anni? Esasperato dall’ostruzionismo della von der Leyen, quest’autunno il Consiglio europeo si è messo a fissare ultimatum alla propria Commissione – come è evidente dal sofagate i rapporti non sono migliorati. Un esempio: Michel ha esplicitamente indicato uno strumento di debito comune in stile Sure, nonostante l’opposizione della presidente della Commissione all’idea che viene da due suoi commissari (Paolo Gentiloni e Thierry Breton). Nel frattempo, la von der Leyen ha ridotto al minimo i contatti con la stampa: meglio i video da pubblicare su Twitter, con un annuncio forte senza troppi dettagli e senza dover rispondere alle domande. L’immagine è tutto, un po’ meno la leadership.

 

La presidente a Francoforte. Christine Lagarde e Ursula von der Leyen nascevano come un pacchetto: una francese alla Bce e una tedesca alla Commissione (per evitare che un tedesco potesse andare alla Bce). Ma non è facile fare il banchiere centrale. Avvocato d’affari, ministro del Commercio,  dell’Agricoltura, dell’Economia, ex direttrice del Fondo monetario internazionale, prima di arrivare all’Eurotower la Lagarde ci aveva deliziate con una formula del girl power molto rassicurante: “A 50 anni e anche oltre, si può essere straordinariamente felici, e sotto tutti i punti di vista... mentale, fisico e sessuale”, aveva detto, ci si tiene in forma facendo ginnastica per i glutei in ascensore e durante le riunioni. Ma alla Bce ogni parola detta in pubblico conta, si muovono centinaia di miliardi di euro, intorno ci sono gli altri banchieri centrali che conoscono i mercati in ogni dettaglio. Una parola di troppo può portare un paese sull’orlo del baratro finanziario. Alla Lagarde è accaduto quasi subito. E’ il marzo del 2020, l’inizio della pandemia, l’Italia sta entrando in lockdown e ci sono dubbi sulla tenuta del suo debito. “Non siamo qui per chiudere gli spread”, si è lasciata scappare Lagarde, durante una conferenza stampa decisamente da colomba. E subito gli spread sui titoli italiani si sono alzati da 200 a 266 punti, la borsa di Milano è crollata, Sergio Mattarella ha protestato e la Lagarde è stata costretta ad autosmentirsi pubblicamente. Mario Draghi ha insegnato tra le molte altre cose che la comunicazione giusta è la chiave per il successo di un presidente della Bce: la Lagarde s’è messa a leggere testi scritti per evitarsi problemi, ma le contestazioni continuano. Un esempio: un anno fa l’inflazione era solo “temporanea”. Dieci mesi fa, la Bce non poteva “fare nulla” contro i colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento o i prezzi dell’energia. Poi Lagarde ha annunciato un cambio di rotta totale sui tassi di interesse, ha abbandonato la forward guidance della Bce, ha promesso una reazione graduale e flessibile all’inflazione, ha assicurato che le decisioni saranno prese riunione su riunione sulla base dei dati. Fino all’ultimo Consiglio dei governatori della Bce, quando ha annunciato che “no”, si cambia ancora, e ci saranno rialzi di 50 punti base per le prossime due riunioni, o forse la colomba Lagarde non si è trasformata in falco, ma fatica a tenere a bada lo scontro interno al Consiglio dei governatori. Non sa mediare, e gli altri banchieri centrali non la considerano sufficientemente autorevole – e no, non è sessismo.

 

La presidente a Strasburgo. Eletta presidente del Parlamento nel gennaio del 2022 Roberta Metsola ha completato la triade al femminile. Giovane, ambiziosa, maltese (uno dei più piccoli paesi dell’Ue), sposata con un finlandese, liberal sui diritti (tranne l’aborto), conservatrice per europeismo (viene da una famiglia laburista, ma è passata al Ppe perché a Malta il Partito laburista era contrario all’adesione all’Ue) e molto capace. Dopo aver convinto il Ppe, Metsola ha fatto un patto con molte donne – il più importante con l’ex capogruppo dei Verdi, Ska Keller – che le ha permesso di farsi eleggere. Ma l’ambizione non finisce qui: c’è molta agitazione nei corridoi del potere a Bruxelles, dove si bisbiglia che la Metsola voglia diventare presidente della Commissione e prendere il posto della von der Leyen. La guerra della Russia contro l’Ucraina ha dato alla Metsola grande visibilità: è stato il Parlamento europeo a ospitare uno dei primi discorsi in teleconferenza di Volodymyr Zelensky e la presidente del Parlamento europeo è stata il primo leader delle istituzioni dell’Ue a prendere il treno per Kyiv per mostrare il suo sostegno all’Ucraina. La maglietta verde militare ha fatto colpo sull’opinione pubblica, i bicipiti soprattutto (e ha creato una certa invidia in von der Leyen, costretta ad aspettare qualche settimana prima di andare a Kyiv). Da allora la Metsola non ha mai fatto mancare il suo supporto agli ucraini: dalle audizioni dei ministri ai generatori per far fronte ai blackout provocati dai bombardamenti di Putin, passando per il premio Sakharov per la libertà di pensiero attribuito a questo coraggioso popolo. Il sogno di Metsola si è trasformato in incubo il 9 dicembre, quando è scoppiato il Qatargate. Una vicepresidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, arrestata insieme a un ex deputato, Antonio Panzeri e il suo ex assistente, Francesco Giorgi. Perquisizioni a Bruxelles e Strasburgo. Uffici di funzionari e assistenti sotto sigilli. La stessa Metsola costretta a rientrare di corsa un sabato pomeriggio da Malta per essere portata dalla polizia a sirene spiegate in una piccola città del Belgio profondo per assistere alla perquisizione del casa di un altro deputato coinvolto, Marc Tarabella. La reazione immediata della Metsola è stata ferma: collaborazione totale con le autorità giudiziarie, sospensione e poi destituzione di Kaili, divieto di accesso per i rappresentanti del Qatar. Alcuni hanno notato che la presidente del Pe non ha voluto attenersi troppo al principio della presunzione di innocenza, con decisioni cautelative che mettono in discussione l’immunità dei deputati e del loro lavoro. Del resto se si vuole diventare presidente della Commissione non si può mostrare alcun segnale di debolezza di fronte a uno scandalo per corruzione. Il Qatargate sarà una prova per Metsola – anche sul piano personale:   suo marito è un lobbista. 

 

Le leader del nord. Sanna Marin, premier della Finlandia, ha detto che non vuole mai più vedere una guerra russa sul suolo del suo paese: ha firmato l’adesione alla Nato, ha mostrato in ogni modo il suo sostegno all’Ucraina e ancora insiste, possiamo fare di più, l’Europa può essere ancora più forte di così. Giovane e determinata, la Marin ha fatto sospirare tutto il continente quando è stata eletta con una coalizione di governo di partiti tutti al femminile, e poi è finita per le stesse ragioni nello scandalo dei suoi party allegri e scatenati. Ne è uscita come esce sempre: scusandosi se è inappropriata, ma senza lamentarsi mai del trattamento subìto in quanto donna. La sua collega del nord, Mette Frederiksen, ha avuto lo stesso approccio risoluto, ha superato una tornata elettorale non senza difficoltà ma ora sta avviando un nuovo esperimento politico con liberali e moderati che supera la dicotomia storica tra destra e sinistra e va dritto in un posto che sembrava poco abitato, e invece: il centro. 


Le leader dei Baltici. Il libro preferito della premier lituana Ingrida Simonyte è “Il buon soldato Svejk”, opera dello scrittore ceco Jaroslav Hašek rimasta incompiuta. La premier lo cita spesso, è un romanzo umoristico fortemente antimilitarista, e per i fautori dell’antimilitarismo superficiale potrebbe essere una buona lettura. Simonyte non ama le armi, simpatizza per  il povero Svejk, eppure da quando Putin aveva iniziato ad ammassare i soldati ai confini dell’Ucraina non ha mai smesso di dire che Kyiv andava aiutata, che la Russia aveva intenzioni pericolose. Aveva ragione, proprio come l’altra premier affacciata sul Baltico, Kaja Kallas, che dall’Estonia offriva soldi e aiuti militari, dimostrandosi campionessa di una solidarietà solerte e mai stanca, che le deriva anche dalla sua storia di famiglia: nipote di uno dei fondatori della Repubblica d’Estonia e figlia di un ex primo ministro. Forse a Putin viene anche da ridere a pensare a queste premier iperattive e mordaci, il suo maschilismo sprezzante non gli permette di considerare le donne come una minaccia e questo è un errore consueto da quella parte di mondo, che prima o poi si paga.  


Le leader dell’est.  Non avrebbero potuto essere più diverse le due presidenti della Slovacchia e dell’Ungheria. La prima, Zuzana Caputová, da noi ribattezzata Caputová mundi, è arrivata alla presidenza rimettendo il suo paese sul sentiero europeo quando sembrava iniziasse a sbandare. Poi è arrivata la pandemia e mentre i governi ballerini facevano accordi con la Russia per l’acquisto del vaccino, lei – maestra nell’arte della mascherina abbinata all’abito – è rimasta un punto fermo. Nella guerra, quando si temeva che la propaganda di Mosca, molto forte in Slovacchia, potesse essere un ostacolo, con umanità e senza pietismo ricordava ai suoi concittadini che Kyiv aveva bisogno di armi e accoglienza. Nel Palazzo Sándor di Budapest, l’aria è invece  molto diversa. Katalin Novák è diventata presidente con la guerra in corso, il 10 maggio. Pupilla del premier Viktor Orbán, è l’architetto di tutte le leggi per proteggere la famiglia tradizionale. Lei e il primo ministro vanno all’unisono e definirla un semplice spauracchio usato da Orbán per dimostrare di non essere maschilista sarebbe ingeneroso e riduttivo. Novák è un alfiere – o, forse, una torre – dell’orbanismo. Su tutto, anche sull’Ucraina. 

 

La leader a Roma. Se la nomina di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio ha completato  il ciclo del conservatorismo a guida femminile, ha anche aggiunto un ritratto a questo album di famiglia. Perché Meloni, che un tempo andava d’accordo con Orbán e si immortalava in selfie sorridenti con Katalin Novák, non ha avuto dubbi su quale posizionamento dovesse dare all’Italia riguardo al conflitto: con l’Ucraina e con l’Europa. Dopotutto il suo rapporto con Bruxelles, così temuto, non ha neppure esordito  male. Quando ha incontrato la Metsola e la von der Leyen è stata accolta con curiosità e calore e la Meloni sembrava così soddisfatta della visita che ci siamo ritrovate a osservare che la faccia più bella della presidente del Consiglio è proprio quella che ha portato in Europa e che parla di guerra.

 

Leadership, capacità e carisma hanno poco a che fare con il femminismo o con le quote, e molto con il pragmatismo, la determinazione e il talento. Quanto sono diverse alcune di queste leader dalla fanciulla che fu rapita da Giove trasformato in un toro che ha dato il nome al nostro continente. Quella di Europa è la storia di un inganno e di una fragilità, l’Unione delle signore della guerra è fiducia e forza. 

 

(ha collaborato David Carretta)