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L'invio dei carri armati in Ucraina ha solo una funzione: respingere Putin
Le armi, la diplomazia, la sicurezza, l’avvicinamento di Kyiv a Bruxelles. Ecco come l’occidente ha imparato a difendersi dalla guerra di Mosca
Sono trascorsi trecentotrentasei giorni di una guerra che, secondo Vladimir Putin, doveva durarne tre, giusto il tempo di tirar giù Volodymyr Zelensky e mettere un presidente amico a Kyiv. Poiché il piano originario non ha funzionato, Putin ha dovuto trovare altri metodi per piegare un paese (che non si piega) via via più brutali e indiscriminati: ha intensificato gli attacchi, soprattutto dal cielo avendo capito che quello era ed è il lato scoperto dell’Ucraina e dei suoi alleati. Un riassunto delle operazioni russe purtroppo molto sintetico che non rende l’idea di che strazio sopportano gli ucraini: l’invasione, la conquista di alcune zone, la “riorganizzazione” (un ritiro dopo il quale abbiamo scoperto Bucha e Irpin), l’assedio di Mariupol, gli attacchi nei pressi della centrale nucleare di Zaporizhzhia, i referendum illegali di annessione, le perdite di terreno, i blitz aerei a tappeto, mentre non si è mai fermata la guerra in Donbas: soltanto a Bakhmut, di recente, abbiamo visto con chiarezza quanto è sanguinoso lo scontro lì, altro che guerre degli anni Duemila tutte radar e contraerei e missili da lontano. Putin ha intensificato gli attacchi e “intensificazione” è proprio il significato di “escalation” e poiché la propaganda di Putin ormai la conosciamo, e sappiamo che lui tende a incolpare gli altri (noi occidente) di quel che fa lui, oggi il presidente russo dice: reagiremo all’escalation dell’occidente. E’ il contrario, l’occidente reagisce all’intensificazione degli attacchi russi – come è noto: Putin può smettere di attaccare e porrebbe fine alla guerra, l’Ucraina non può smettere di difendersi perché capitolerebbe – dando a Kyiv gli strumenti necessari per difendersi e per sconfiggere la Russia. Il nuovo assetto deciso negli ultimi giorni, e circostanziato ieri sera durante la telefonata tra Joe Biden, Olaf Scholz, Rishi Sunak, Emmanuel Macron e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, serve a questo: dall’aggressione russa l’Ucraina e l’occidente si difendono così, con i carri armati di ultima generazione, con i sistemi missilistici, con l’addestramento dei soldati ucraini, con gli obici, le munizioni e con un processo politico di avvicinamento dell’Ucraina all’Unione europea.
E’ una strada fatta di ostacoli e compromessi e soprattutto di migliaia di vittime ucraine in cui l’occidente deve stare attento a non cadere nelle trappole del Cremlino, che vede la difesa dell’occidente come un’escalation e che puntuale evoca la possibilità di utilizzare armi nucleari, sapendo che questa minaccia terrorizza anche i più coraggiosi. Joe Biden, il presidente americano che più ha speso e più si è speso per costruire l’assetto difensivo dell’Ucraina dall’aggressione russa, tenendo sapientemente insieme gli alleati e provando anzi ad allargare l’alleanza ad altri paesi rifugiati in una finta neutralità, ha detto ieri, annunciando l’invio di 31 carri Abrams: “It’s about freedom”, la libertà dell’Ucraina e la libertà di tutti, così si costruisce “il mondo in cui vogliamo vivere”, da persone libere. Andando via dal palco, Biden ha risposto sbrigativo ma preciso a una giornalista che gli chiedeva delle pressioni tra alleati: vince l’unità, ha detto, facciamo le cose insieme.
E’ in atto una grande trasformazione che non ha a che fare solamente con l’isolamento della Russia e il sostegno all’Ucraina fino alla vittoria, ma con una nuova visione dell’America e dell’Europa, in cui gli equilibri si confondono e a volte si incrinano, ma poi si riconsolidano, un pochino più stropicciati in alcuni casi, un pochino più brillanti in altri, come è accaduto in questi giorni, in cui la difesa dell’occidente si è dotata di nuovi strumenti. A proposito di finta neutralità sconfitta: la Svizzera, che fino a poche ore fa e per tutta la durata della guerra aveva bloccato la riesportazione di mezzi militari e armi verso l’Ucraina, toglierà questo suo veto. Il Parlamento deve votare la proposta che però pare avere la maggioranza dei consensi. Anche questo è un piccolo tassello di questo nostro nuovo assetto.
I tabù caduti e quelli che restano. L’Europa ha reagito alla guerra buttando giù barriere: alcune sono note, altre meno, alcune sono militari, e forse più conosciute, altre sono istituzionali, e sono state pensate per il futuro: per quando la guerra non esisterà più. Dall’inizio del conflitto molti tabù, lentamente, sono caduti e affannati a parlare delle armi, che servono ora, ci si dimentica che spesso anche la diplomazia ha le sue fasi accidentate e le sue sorprese. Una delle più importanti è stata superata a fine giugno e riguarda la prospettiva futura dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Kyiv ha ottenuto lo status di paese candidato, il che vuol dire che la strada è lunga, ma un traguardo esiste. Alyona Getmanchuk, direttrice del think tank ucraino New Europe center ed esperta di politica estera e sicurezza, ci ha detto che ricevere lo status di paese candidato, per Kyiv, è stato un segno di speranza. “Gli ucraini lo hanno letto come il segnale che, per gli occidentali, il paese era destinato a sopravvivere, nonostante l’aggressione. Non si assegna lo status di candidato a una nazione che credi sia destinata a soccombere”. E’ stato un segnale forte, una di quelle spinte necessarie per andare avanti e combattere. “Nonostante l’invasione, l’Ucraina si sta trasformando in uno stato europeo, sta lavorando in parallelo, seguendo i passi e lavorando sui compiti che sono arrivati da Bruxelles. Non c’è nulla di fumoso, le azioni da fare sono concrete”. Alyona ci ha fatto un esempio, molto importante anche per capire gli scandali che stanno colpendo la leadership ucraina: “Per anni l’ente anticorruzione non ha avuto qualcuno che lo guidasse, ora la riluttanza è stata vinta. L’unica opzione per l’Ucraina di sopravvivere è trasformarsi e non esiste soltanto il campo di battaglia. Ci sono le istituzioni, le riforme, la diplomazia”. Il New Europe center ha svolto un sondaggio tra gli ucraini per capire su quale istituzione straniera si concentrasse la loro fiducia. La classifica ha messo l’Ue al primo posto, seguita dalla Nato e dal G7. “Ricevere lo status di candidato non è stato un segnale soltanto per gli ucraini – ci ha detto Alyona – ma anche per Putin. E’ stato un messaggio mandato al Cremlino con scritto che l’Ucraina non sarebbe mai entrata a far parte della Russia”. Ha tolto l’ambiguità. C’è uno scenario che fa più paura di altri ed è quello dei Balcani, una situazione di blocco, di frustrazione, di ritardi. Alyona Getmanchuk e il suo think tank hanno lavorato per capire come evitare certi errori e la ricetta è semplice, almeno a dirlo: “Bisogna ragionare a tappe. Non si può pretendere tutto subito. Bisogna essere creativi, dovremmo essere anche noi ucraini a proporre costantemente all’Ue nuove forme di relazione. Sappiamo che il processo è lungo, ma più lo riempiremo di tappe, più sarà produttivo. Stare seduti ad aspettare non serve ed è dannoso”. L’ingresso nella Nato invece rimane ancora un tabù, ma anche in quel caso, bisogna ragionare per gradi e Alyona Getmanchuk ci ha detto: “Partiamo da una considerazione: se quello che i nostri alleati hanno a cuore è una pace duratura, allora dobbiamo parlare di garanzie di sicurezza vere, solide, perché la Russia, con o senza Putin, sarà sempre una minaccia per il futuro dell’Ucraina. Alla fine della guerra, la prospettiva non deve essere per forza l’ingresso nella Nato, ma anche un accordo bilaterale di sicurezza come quello che gli Stati Uniti hanno firmato con il Giappone o la Corea del sud”.
Scholz e i Leopard. Ieri è diventato ufficiale: i carri armati Leopard di fabbricazione tedesca sono stati liberati dalla gabbia precauzionale in cui li teneva il cancelliere tedesco Scholz. Berlino invierà 14 Leopard2 A6 e lascerà che gli altri paesi europei che hanno nei loro arsenali questi carri armati li mandino in Ucraina. Parlando al Bundestag, il cancelliere tedesco ha detto che questo è il risultato di “consultazioni intense”, che una discussione franca per una decisione così importante era necessaria e che l’obiettivo è fare tutto il necessario per l’Ucraina ma anche “evitare un’escalation che porti a uno scontro fra la Nato e la Russia”. Scholz è il re del mettere le mani avanti, ma a sua discolpa si può dire che la propaganda russa si è scagliata feroce contro la Germania, invocando un attacco contro Berlino e contro i nazisti che ci abitano. Zelensky ha telefonato a Scholz ringraziandolo e tutto il governo ucraino ha seguito la linea: non rivanghiamo nulla, non rinfacciamo nulla, grazie davvero, faremo un buon uso delle vostre forniture militari, così come facciamo dei tanti (tantissimi) aiuti finanziari che ci avete già mandato (c’è da dire che gli ucraini sotterrano l’ascia della polemica dopo averla fatta parecchio roteare: il tentennamento di Scholz è stato accompagnato da commenti feroci). Anche gli alleati internazionali, dopo molte pressioni, confronti ruvidi e infine la decisione americana di accettare la condizione di Berlino di sbloccare anche l’invio dei carri armati Abrams, hanno tirato un sospiro di sollievo, hanno iniziato a organizzare il nuovo assetto e non hanno infierito. Il danno però resta: di credibilità e di fiducia. E’ dall’inizio della guerra che la Germania finisce per fare quello che le viene chiesto, ma questo suo recalcitrare non è visto, come vorrebbe Scholz, come un dibattito necessario e prezioso quando si tratta di prendere decisioni strategiche, quanto piuttosto come una volontà di non mostrarsi troppo aggressiva agli occhi della Russia. Questa percezione è così lampante che, per dire, nessuno si chiede perché la Francia di Emmanuel Macron ci metta tanto a inviare i suoi carri armati Leclerc, né perché spenda infinitamente meno rispetto alla Germania nel sostenere l’Ucraina. Il mistero di Scholz, insomma, questa cautela che si è rivelata già più volte controproducente, resta ancora irrisolto.
La leadership polacca. Non è la cautela, invece, la caratteristica più evidente del governo polacco che, mentre a livello internazionale ha le idee chiarissime su amici e nemici, sulle necessità dei primi e la pericolosità dei secondi, a livello interno continua a fare pasticci e lasciare ambiguità sullo stato di diritto. Alyona Getmanchuk ci ha raccontato di aver sentito spesso esprimere la preoccupazione che i futuri membri dell’Ue potrebbero un giorno dare a Bruxelles problemi simili a quelli che sta dando Varsavia, ma è sicura che le nuove procedure di accesso siano più rigide di prima e gli europei sanno come non ripetere gli stessi errori. La Polonia, tra gli europei, è il paese che ascolta Kyiv e poi ripete, insistentemente, le sue richieste, che trasferisce armi e continua a chiederne, anche per se stessa, che vive la guerra con l’obiettivo di aiutare gli ucraini a vincerla nel più breve tempo possibile. Purtroppo però l’invasione viene utilizzata dal governo anche per colpire l’opposizione e l’aggettivo filorusso è diventato un’etichetta spregevole per fare insinuazioni, lanciare accuse e ripetere che se non ci fosse stato il PiS, il partito di destra che governa dal 2015, i carri armati di Mosca sarebbe arrivati anche al castello del Wawel. Si fa per dire, certo, e poi in questo momento storico le vicende della politica interna sembrano piccole rispetto all’immagine dell’Ucraina sanguinante e distrutta e, al contrario di Scholz, il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, sta acquisendo un’aura di battagliera saggezza e di costante affidabilità che è un piccolo bottino elettorale in patria– si vota in ottobre – e magari anche internazionale.
La visita della Commissione europea a Kyiv ci sarà a inizio febbraio. I dettagli sono ancora pochi, c’entra la segretezza dovuta a certi spostamenti e alcune decisioni dell’ultimo minuto. Non si sa se ci sarà la tradizionale passeggiata per la capitale blindata al fianco di Zelensky, ma l’immagine di Bruxelles che si sposta in Ucraina è potente: un abbraccio necessario. Forse sarà anche un regalo di compleanno in ritardo per il presidente ucraino, che ieri ha compiuto quarantacinque anni. Per un compleanno di guerra gli europei portano in dono unione e progettualità, nonostante tutto, e la speranza, magari la promessa, di festeggiare insieme l’Ucraina, l’Europa e la pace, l’anno prossimo.