EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

Tutti gli europei che danno scossoni alla loro neutralità

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Qualcuno l’aveva scelta, a qualcuno era stata imposta. Dopo l’aggressione all’Ucraina, in pochi sono intenzionati a mantenerla

Prima che Vladimir Putin invadesse l’Ucraina, molti paesi dell’Unione europea si definivano neutrali – lo facevano con orgoglio, perché la neutralità, in un continente che ha conquistato la pace al suo interno (nemmeno tutto) meno di ottanta anni fa e dopo secoli di guerra, suonava come un concetto illuminato. Simon Coveney, che quando la Russia ha attaccato gli ucraini era ministro degli Esteri dell’Irlanda, un paese che non è nella Nato e che della neutralità ha fatto un pilastro della sua politica internazionale, aveva detto già nel primo mese di guerra: “Dobbiamo avviare un ripensamento profondo”. Coveney non immaginava un ingresso rapido dentro l’Alleanza atlantica, ma aveva sottolineato che il suo paese era sempre stato impegnato nelle missioni di peacekeeping dell’Onu e che stava rifornendo Kyiv di carburante e di giubbotti antiproiettile, aggiungendo che l’Irlanda “non è eticamente, moralmente e politicamente neutrale”. Era una distinzione importante e lo è diventata sempre di più quando l’aggressione di Putin si è fatta costante ed estesa – ogni angolo dell’Ucraina è un fronte di guerra – e il sostegno militare dell’Europa e dell’America a Kyiv  è  indispensabile.

 

All’assemblea delle Nazioni Unite del settembre scorso, i leader occidentali avevano esplicitato l’obiettivo dei loro discorsi: la neutralità non è più un’idea praticabile. Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino che paga sul campo di battaglia ogni cautela e tentennamento occidentale, si era spinto un pochino più in là: la neutralità è complicità con Mosca, aveva detto. Ma anche il ministro di un paese neutrale come l’Irlanda aveva già introdotto nel dibattito questo elemento: politicamente ed eticamente trattare aggredito e aggressore nello stesso modo restando neutrali non è più una cosa fattibile. E così è stato: Svezia e Finlandia ne sono l’esempio più scintillante: la Svezia ha rivendicato la propria neutralità per due secoli e ora aspetta trepidante che Ungheria e soprattutto Turchia sciolgano la loro fruttuosa riserva e diano il consenso all’adesione svedese alla Nato; la Finlandia, che aveva scelto la via neutrale  per scrollarsi di dosso il giogo sovietico, aspetta altrettanto trepidante. Le due nazioni avevano fatto richiesta di entrare nell’Alleanza atlantica insieme e per la prima volta è stata presentata l’idea di trattare le adesioni separatamente e Helsinki, che non è soggetta al veto turco, potrebbe farcela prima di Stoccolma.  Anche la Svizzera, che ha la neutralità nel suo dna, e l’Austria, che scelse la neutralità per riconquistare credibilità dopo la Seconda guerra mondiale, sono faticosamente costrette a emanciparsi da questa loro strategia. Pure Malta, nel suo piccolo neutralismo da sopravvivenza durante la Guerra fredda, si emancipa (Cipro è formalmente neutrale, ma non prova nemmeno a entrare nella Nato perché sa che la Turchia non lo permetterebbe mai). 

 

Siamo andate a vedere come l’aggressione di Putin ha scardinato un’idea che sembrava non dover crollare mai: se la sicurezza europea si difende nelle trincee ucraine, non voler aiutare e sostenere quelle trincee significa oggi non aver a cuore nemmeno la propria sicurezza – figurarsi quella europea. 

 

Intendiamoci sulla neutralità. Uno stato neutrale “tratta un’altra nazione che vìola il diritto internazionale alla stessa stregua di chi è vittima di quella violenza”, ci dice Marco Sassoli, professore di Diritto internazionale all’Università di Ginevra, ricordando che dallo status codificato dalla Convenzione dell’Aia del 1907 si può ottenere un vantaggio, “anche se oggi quel vantaggio appare diminuito” non foss’altro perché la Carta della Nazioni Unite vieta l’uso della forza nelle relazioni fra gli stati. Neutrale non significa agire per conto proprio: “Il governo svizzero si adegua poi sempre alle decisioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu ma, per esempio, sull’Ucraina non ce ne sono”. Gli elvetici credono con convinzione alla propria neutralità, ma in queste settimane c’è un dibattito al Consiglio federale sulla possibilità per Berna di permettere a paesi terzi di cedere armi made in Switzerland all’Ucraina. “Sono proposte tanto più sorprendenti perché avanzate dai partiti centristi. Ma attenzione – dice Sassoli – oggi agiamo come se quello in Ucraina fosse il primo conflitto in Europa dal Dopoguerra, e così non è né dobbiamo dimenticare che se si dà il via libera alla riesportazione di armi, lo si fa per tutti. Con l’India, per dire, che potrebbe vendere alla Russia materiale bellico acquistato in Svizzera”. La politica elvetica potrebbe “uscire dall’impasse ammettendo per esempio la riesportazione soltanto per cinque anni”. L’accademico invita gli svizzeri “a pensarci due volte prima di rinunciare a uno status codificato oltre duecento anni fa dal Congresso di Vienna”. Secondo Andrea Ruggeri, professore di Politica internazionale a Oxford, la neutralità non è “un modello lineare”. Così, se il trattato di Londra del 1839 impose questo status al giovanissimo Belgio “in perpetuità, l’invasione del paese da parte della Germania guglielmina nel 1914 cancellò per sempre la neutralità belga”. Che altri tipi di neutralità esistono allora? “C’è quella ‘ambigua’ di una Svezia formalmente fuori dal gioco dei trattati internazionali ma di fatto schierata sia in quanto paese dell’Ue sia in virtù delle sue esercitazioni militari a fianco dei paesi Nato nell’ambito di una Partnership for Peace. Partnership – ricorda Ruggero – da cui all’inizio non era stata esclusa neppure la Russia”. La neutralità non è sempre una scelta, esiste anche quella “imposta”: “E’ questo il caso della Finlandia che, restando neutrale, si è garantita autonomia e indipendenza. E oggi che restare neutrali e più pericoloso che non esserlo, Helsinki rinuncia alla sua neutralità”. Anche all’Austria, per inciso, questo status fu imposto, e poi Vienna ha fatto di necessità virtù, aprendosi a una lunga serie di organizzazioni internazionali, dalle Nazione Unite, all’Opec, alla Banca mondiale. Al contrario le neutralità svizzera e irlandese sono frutto di una volontà politica. Ma la lista non è finita. Ruggeri parla di “neutralità ‘di rimbalzo’ per la Cipro greca e quella turca, due entità paradossalmente legate a due membri della Nato fra loro però ‘nemici’”. In sostanza, molti paesi, “anche per questioni geografiche, non se la possono permettere, la neutralità: gli Stati Uniti prima di Pearl Harbor potevano restare neutrali rispetto al conflitto perché ne erano lontani. E chi come il Costa Rica oggi non è solo neutrale ma anche disarmato ha evidentemente ceduto la propria difesa a qualcun altro”. Possiamo quindi dire che non ci sono più i paesi neutrali di una volta? “Sì – dice Ruggeri – E’ corretto perché la neutralità ‘di una volta’ non è mai esistita. Per lo stesso motivo se oggi si osserva la tendenza all’abbandono della neutralità o delle politiche più rigorose di neutralità da parte di alcuni stati europei, non è neppure escluso che domani si registri un’inversione di rotta”. L’accademico conclude citando il giurista tedesco-americano Hans Morgenthau, peso massimo fra gli studiosi di relazioni internazionali: “La relazione tra guerra e neutralità è molto stretta: quando la guerra è più ampia e pericolosa per tutti,  è meno facile mantenere la neutralità”. Ed è vero anche il contrario.

 

Il test austriaco. La settimana prossima, nei giorni in cui cade il primo anniversario dell’invasione russa, l’Austria ospita una riunione dell’Osce nel suo quartier generale a Vienna. L’Osce è stata fondata durante la Guerra fredda per mantenere aperto il dialogo tra est e ovest, e per questo tra i 57 membri dell’organizzazione compare anche la Russia, che ora vuole inviare una sua delegazione per l’assemblea plenaria prevista per il 23-24 febbraio – la delegazione comprende quindici persone che sono sanzionate dall’Unione europea. Molti altri delegati, per lo più di Francia, Canada, Regno Unito, Polonia e Ucraina, hanno inviato una lettera al cancelliere austriaco, Karl Nehammer, in cui chiedono che i russi sanzionati non siano accolti: “E’ importante ricordare che i parlamentari russi sono parte integrante del sistema di potere e complici nei crimini che la Russia commette ogni giorno in Ucraina”, si legge nella lettera: “Non hanno posto in un’istituzione incaricata di promuovere un dialogo sincero e l’opposizione alla guerra”. Gli Stati Uniti non hanno firmato questa lettera: dicono che a decidere deve essere il governo austriaco. Il quale non soltanto fa riferimento alla propria neutralità, che fu dichiarata dopo la Seconda guerra mondiale, ma anche al ruolo  che si è ritagliata Vienna, che ospita molti organismi internazionali e che vuole essere il luogo del dialogo e del negoziato (non soltanto con la Russia). C’è anche un elemento politico molto forte: se negli altri paesi che hanno rinunciato alla loro neutralità, anche in modo parziale o solo dal punto di vista politico, l’opinione pubblica sostiene questa trasformazione, in Austria no. Gli austriaci continuano a essere gelosi del loro ruolo, e non vogliono alcun cambiamento, e naturalmente nessun politico vuole mettersi di traverso a una postura tanto condivisa. Questa neutralità però ha portato l’Austria nel tempo molto vicina alla Russia, e questo non si è visto soltanto quando il cancelliere Nehammer, unico tra gli europei, è andato a Mosca nell’aprile dell’anno scorso, senza naturalmente ottenere nulla. Nel 1968 l’Austria fu il primo paese dell'Europa occidentale a importare gas dall’Unione sovietica e la sua dipendenza dall’energia russa aumentò nei decenni successivi: prima dell’invasione russa dell’Ucraina, l’80 per cento del gas naturale austriaco proveniva da Mosca. Da allora Vienna ha ridotto la quota a poco più del 20 per cento, passando al gas norvegese. Anche il sistema bancario austriaco è strettamente legato alla Russia: la seconda banca più grande del paese, la Raiffeisenbank International, ha fatto più della metà dei suoi profitti nel 2022 da Mosca. La banca, nonostante le molte pressioni, continua a operare in Russia. Vienna inoltre è anche conosciuta per essere “un parco giochi delle spie” (la definizione è dell’Associated Press), anche russe, in quanto le sue norme contro lo spionaggio sono molto indulgenti. Nonostante la sua iniziale riluttanza, però, il governo austriaco ha espulso otto diplomatici russi sospettati di aver fatto lavoro di spionaggio all’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Werner Fasslabend, un ex ministro della Difesa conservatore, sta facendo campagna per l’ingresso dell’Austria nella Nato, dice che il suo paese potrebbe avere un ruolo attivo “nel formare la difesa europea e garantire anche una maggiore sicurezza per se stesso”. La neutralità “ha perso la sua funzione”, dice Fasslabend, ma pochi la pensano come lui. Al momento Vienna partecipa alle sanzioni europee alla Russia, manda aiuti umanitari all’Ucraina, ma nessun aiuto militare, neppure per l’addestramento dei soldati ucraini che devono imparare a manovrare i carri armati Leopard. Il cancelliere, ribadendo che l’Austria era, è e sarà neutrale, ha però deciso di aumentare il budget per la Difesa.


La strada fuori dalla neutralità è complicata e dalle conseguenze difficilmente calcolabili, soprattutto per i paesi più piccoli, con opinioni pubbliche scettiche e con troppe difficoltà per gettarsi nell’abbraccio della Nato. Vale per Malta, che ha messo la propria neutralità nella Costituzione nel 1987 e oggi non ha alcuna intenzione di rimangiarsela: ora che è entrata tra i paesi che a rotazione per due anni siedono nel Consiglio di Sicurezza, le pressioni però si fanno più forti. Il giovane e ciarliero ministro degli Esteri maltese,  Ian Borg, dice che la neutralità non è una scusa per non condannare la Russia, “siamo abbastanza flessibili” da capire che l’Ucraina si sta difendendo e Mosca sta invece causando una crisi umanitaria locale e globale senza alcuna ragione. I maligni dicono che a spingere Borg a essere tanto rassicurante è l’inchiesta della Reuters che circola da qualche tempo minacciosa a Bruxelles che segnala che Malta (e pure la Grecia) sono parecchio indietro rispetto agli altri paesi europei nel congelare gli asset russi, come prevedono le sanzioni decise insieme. In più  c’erano sempre stati dei sospetti nei confronti della Valletta a causa dei loro “passaporti d’oro” che permettevano a russi e bielorussi di stare in Europa senza che ci fossero troppi controlli. La misura è stata sospesa (non senza polemiche), Malta corre per congelare asset e non subire critiche e Borg introduce un’altra definizione: la neutralità attiva. La spiega così: “La neutralità non è chiudere gli occhi e le orecchie e dire: ‘Fate quello che volete’”. Nel mondo dei cauti e dei riluttanti e dei tentennanti non suona poi così male.


(ha collaborato Daniel Mosseri)