EuPorn-Il lato sexy dell'Europa
La bandiera europea urla nella piazza di Tbilisi
Una legge putiniana che i georgiani non vogliono, un miliardario attaccato al potere e l’Ucraina allo specchio. La Georgia è un messaggio all’occidente
La bandiera europea sventolata a Tbilisi dai manifestanti, la resistenza all’acqua degli idranti, ai lacrimogeni che hanno devastato gli occhi delle migliaia di persone scese in piazza – ma non la loro forza, non la loro luce – è già diventata un simbolo che va oltre la Georgia e oltre la cosiddetta “legge russa” che ha scatenato la protesta. Di fronte a quella bandiera gigante e alla tenacia di chi l’ha sostenuta nonostante fosse tremendamente più semplice gettarla in terra e proteggersi dalle forze dell’ordine, ci sono tornate in mente le bandiere europee del Maidan, nell’inverno ucraino del 2014 di cui non comprendemmo la potenza e l’ambizione: era già raro vederle nelle nostre piazze di membri dell’Unione europea, le bandiere blu con le stelline gialle, eppure non capimmo che imbracciare il nostro stendardo era per gli ucraini una richiesta di futuro e di sopravvivenza.
Oggi che non abbiamo più dubbi, oggi che sappiamo che tra le ragioni principali per cui Vladimir Putin indiscriminatamente tortura e devasta l’Ucraina c’è proprio questa sua ambizione europeista e occidentale, oggi che ogni illusione nella possibilità di un dialogo con Mosca è crollata (e laddove resiste è spesso in malafede), oggi la bandiera europea nella piazza di Tbilisi è come se urlasse. Urla contro l’ultima disposizione del partito di governo – che ha un nome sciagurato: Sogno georgiano – urla contro l’aggressione russa e contro il suo dispotismo tentacolare che si diffonde attraverso leggi e norme oltre che con le armi, urla anche all’Unione europea: guardateci, siamo qui, senza il vostro abbraccio rischiamo quel che l’Ucraina sta affrontando da più di un anno. L’Ue ha concesso alla Georgia “una prospettiva europea”, che non è lo status di candidato all’accesso all’Ue dato all’Ucraina e alla Moldavia, è un passo prima, un preliminare, ma ai georgiani questa prospettiva oggi sembra troppo piccola e troppo cauta, chiedono di essere presi a braccetto nonostante il governo non abbia soddisfatto i criteri di base per poter parlare di candidatura, perché in questo momento è il popolo georgiano che parla e dice, come ha fatto un manifestante: “Non vogliamo far parte dell’ex Unione sovietica, vogliamo far parte dell’Ue, vogliamo essere pro occidente, con l’occidente”. In questa piazza non si parla del passato, dell’invasione russa del 2008, dell’occupazione di Putin nel 20 per cento del territorio georgiano, in Ossezia del sud e in Abkhazia, dei carri armati e dei missili, di quell’enorme avvertimento che fu l’aggressione russa in quell’inizio agosto di cieli plumbei. La stessa presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, ha detto qualche tempo fa: non possiamo continuare a dare al mondo la colpa di aver voluto provare a costruire un dialogo con la Russia di Putin. E’ solo che quel mondo di allora è finito, in questo nuovo dove c’è una guerra nel cuore orientale dell’Europa, i segnali di appartenenza non possono essere più ignorati, la bandiera europea urla a Tbilisi e assieme a lei il popolo georgiano che non vuole rinfacciare il passato, ma chiede garanzie per il futuro.
La legge “russa”. A portare migliaia di manifestanti in piazza da giorni è la legge sugli agenti stranieri, prontamente ribattezzata “legge russa” perché è diventata consuetudine in Russia silenziare ogni genere di dissenso con l’accusa di essere un agente di qualche paese straniero, tendenzialmente occidentale e quindi di per sé ostile. Di fatto, “agente straniero” è sinonimo di spia o di traditore e infatti leggi simili sono state applicate in Bielorussia, Tagikistan e Azerbaigian in particolare contro le ong (e sì, anche in Ungheria: era la cosiddetta legge Soros). A Tbilisi il progetto di legge era stato presentato lo scorso 29 dicembre dal partito Potere al popolo, e prevedeva la creazione di un registro per gli “agenti di influenza straniera”, l’introduzione nell’ordinamento giuridico della “definizione di agente di influenza straniera” e “il coinvolgimento diretto dello stato in diversi processi relativi ai privilegi concessi a persone fisiche o giuridiche che ricevono finanziamenti stranieri”. Quando la norma è stata approvata dalla maggioranza del Parlamento, ci sono stati tafferugli dentro al palazzo e le grandi proteste fuori, sedate dagli idranti, dai lacrimogeni e dagli arresti. Potere al popolo è una nuova formazione politica fondata da alcuni fuoriusciti di Sogno georgiano, ma è stata una scissione consensuale tant’è vero che i due sono allineati su quasi tutto. Tranne che sugli aiuti americani alla Georgia e in generale sul filoatlantismo del paese, che il Sogno georgiano, maneggiando il potere da un po’ sa quanto siano preziosi, e che invece Potere al popolo definisce ingerenza. La legge “russa” è stata criticata da Bruxelles e da Washington, ma anche la stessa presidente georgiana Zourabichvili, in visita in questi giorni a New York, ha detto rivolgendosi ai manifestanti: “Sono dalla vostra parte, oggi voi rappresentate la Georgia libera. E questa Georgia, che vede il suo futuro in Europa, non permetterà a nessuno di toglierle il suo futuro”. Salomé insomma non ha intenzione di farla promulgare, questa legge.
L’incubo del sogno georgiano. Spesso in Georgia la politica è una questione di personaggi dirompenti, ingombranti, di nomi forti e longevi. Quando nel 2012 Sogno georgiano vinse le elezioni, la transizione del potere fu tranquilla. Nessun golpe, nessuna resistenza. Il presidente Mikheil Saakashvili aveva ammesso la sconfitta del suo partito alle elezioni e assicurato un passaggio senza scossoni. I terremoti sarebbero arrivati dopo. Dietro a Sogno georgiano c’era e continua a esserci un miliardario con molti legami con la Russia, Bidzina Ivanishvili, nato da una famiglia povera della Georgia, trasferitosi a Mosca per studiare e diventato uno degli uomini più ricchi del suo paese con la caduta dell’Unione sovietica. La legge “russa” ha molto a che fare con la transizione del potere, ci ha spiegato Kornely Kakachia, direttore del Georgian Institute of Politics. “L’obiettivo è stigmatizzare e marginalizzare i media liberi, perché il partito al potere ha paura per le elezioni del prossimo anno. L’opposizione è già flebile e soprattutto frammentata e il governo crede che tra la sua resistenza e un quarto mandato ci siano soltanto i media e la società civile. Per questo vuole controllarli”. A manovrare tutto c’è, da dietro le quinte, Ivanishvili i cui affari portano spesso verso il mercato russo, è ancora oggi l’uomo più ricco della Georgia, i media sono spesso finanziati da aziende estere ed è complesso trovare un altro miliardario che possa fare concorrenza a Ivanishvili, che è stato anche primo ministro nel 2012. “Perdere le elezioni – ci ha detto Kakachia – non vuol dire semplicemente lasciare i palazzi del potere, ma è sopravvivenza. C’è una specie di idea di vendetta legata alla politica in Georgia”. E Kakachia snocciola gli esempi: Saakashvili prima di Ivanishvili ed Eduard Shevardnadze prima di lui. In questa lotta per la sopravvivenza, il miliardario Ivanishvili e il suo partito hanno smesso di interessarsi al rapporto con gli Stati Uniti, con la Nato e con l’Unione europea, hanno incominciato a lavorare per il loro quarto mandato in modo brutale, riportando in casa, in Georgia, l’incubo dell’interferenza russa, che più che politica, si presenta come economica. Li abbiamo visti in piazza i georgiani furiosi e pervicaci, a brandire le bandiere europee, erano di tutte le età e anzi c’era un dato che stupiva: un tempo i giovani erano più disinteressati, la protesta europeista interessava più agli adulti che alle nuove generazioni, a chi poteva dire io l’ho visto il regime, io, indietro, non ci torno. Ora in piazza ci sono tutti, il popolo riunito: “L’80 per cento delle persone sostiene l’integrazione europea e i georgiani sanno che a causa del governo non hanno ottenuto lo status di candidato”, ha sottolineato Kakachia. Questo dettaglio aumenta la rabbia.
Kyiv chiama Tbilisi. E’ stato Mikheil Saakashvili a rompere ogni legame con Mosca, a voler collegare con un ponte immaginario la sua nazione all’Ue e alla Nato, a parlare inglese, a cercare legami con Washington, a ritrovarsi con gli europei come uno alla pari. In casa, in Georgia, ha cercato di ammodernare il sistema, di dare la caccia alla corruzione e i metodi gli sono stati contestati. Quest’uomo vorace e determinato aveva fretta di compiere le sue riforme e poca tolleranza per il dissenso, ma rimane un simbolo della svolta riformatrice, atlantista ed europeista del suo stato. Oggi è in prigione, con il volto sempre più emaciato denuncia i suoi carcerieri di volerlo uccidere: le analisi dimostrano che potrebbe essere stato vittima di un tentativo di avvelenamento. I soprusi che sta subendo sono diventati uno degli argomenti dell’Ue contro il governo georgiano. Saakashvili dopo la Rivoluzione delle rose nel suo paese, dopo i suoi nove anni al potere, aveva deciso di andare a sostenerne un’altra di rivoluzione, quella dell’Ucraina, che si faceva sempre con le bandiere europee in mano. Era piaciuto anche a Petro Poroshenko, primo presidente dell’Ucraina dopo Euromaidan, gli aveva affidato anche la regione di Odessa, poi litigarono, ferocemente. Partirono accuse, ci furono litigi e corse sui tetti, venne allontanato e poi riavvicinato da Volodymyr Zelensky. Questo è solo uno dei legami tra le due nazioni, ma i rimandi sono infiniti. Gela Vasadze, analista politico, giornalista ed ex vicesindaco di Batumi, ha un programma su YouTube che apre ogni volta dicendo ai suoi ascoltatori: Slava Ukraini. Ci ha detto che chiamare le proteste georgiane il momento Maidan di Tbilisi è un po’ ingeneroso, perché Tbilisi le sue proteste per dire che vuole stare con l’occidente le fa dalla fine degli anni Ottanta. “L’orientamento atlantista ed europeista lo abbiamo nella nostra costituzione”, dice Vasadze. Ora il partito di Ivanishvili vuole avvicinare di fatto la Georgia alla Russia. “I georgiani hanno paura di un nuovo attacco da parte di Mosca e il governo nel nome di questa paura ha cercato di convincerli che fosse meglio la neutralità, ma i cittadini sanno con chi vogliono stare”. Vasadze lo descrive come un atteggiamento orbaniano e dice che l’Unione europea non ha certo bisogno di un nuovo Viktor Orbán, che pure durante la sua campagna elettorale accusava l’opposizione di voler trascinare Budapest in guerra. Ma i georgiani temono il contrario, temono l’immobilismo e che l’Ue e la Nato si allontanino troppo: loro hanno già visto cosa può fare l’esercito di Mosca.
La guerra d’agosto. E’ stata una guerra breve quella di Mosca contro Tbilisi, ma il messaggio che lanciò Putin era chiaro: faccio come voglio e non mi fermerete. Nel 2008 andò così, come mediatore si offrì il presidente francese Nicolas Sarkozy che si sentì dire dal suo omologo russo che avrebbe voluto vedere Saakashvili “appeso per le palle”. Non successe, ma il georgiano era allora per il presidente russo quello che è oggi Zelensky. Con la guerra del 2008 Mosca ratificò la sua occupazione di parte del territorio di Tbilisi, lanciò missili anche contro la città di Stalin, Gori, e oggi tra l’Ossezia del sud e il resto del paese i confini si spostano, cannibali, dividono famiglie, terre, storie, persone. Ci si guarda da una parte all’altra, dall’occupazione alla libertà e Mosca non fa passi indietro: ne fa avanti e quando può rosicchia un po’ di territorio. La Georgia è la storia prima dell’Ucraina, le sue ferite sono quelle che vanno evitate a Kyiv, a Tbilisi c’è questa consapevolezza che convive con la paura di poter essere ferita di nuovo: dalla Russia o dalla politica russa del Sogno georgiano.
Da quando Putin ha annunciato la mobilitazione in Russia, migliaia di russi si sono trasferiti in Georgia, dove da tempo vive anche una diaspora russa che si oppone a Putin. Con gli arrivi sempre più intensi di uomini russi in fuga dall’esercito, Tbilisi si è trovata ad affrontare molte domande: chi sono? cosa vogliono? hanno paura di morire in guerra o sono davvero contrari? Poi c’era sempre l’ansia di fondo: più russi ci sono, più Putin può usare la scusa della loro presenza per attaccare in loro difesa. Questa è una paura a lungo termine, e i georgiani hanno pensato di risolvere prima quelle a breve termine: prima di tutto assicuriamoci che questi russi non siano putiniani. Così hanno iniziato a riempire Tbilisi non soltanto di bandiere europee e ucraine, ma anche di qr code con la scritta: se cerchi lavoro, inquadra qui. Basta inquadrare per ritrovarsi davanti agli occhi bombardamenti, morti, fosse comuni, i segni tangibili della guerra da cui stavano fuggendo. Il messaggio era chiaro: se sostieni questo, non sei il benvenuto. La Georgia ha trasformato le sue città in segnali, simboli, sa che la la sua storia nazionale è una lettera aperta scritta all’occidente da almeno trent’anni: conviene leggerla bene.