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Sulle rive del Mar Nero brilla la stella della Nato
Mosca provoca, Washington non abbocca. Sul mare dove si decide il futuro della guerra (e del grano)
Le sue acque ossessionano il Cremlino e determineranno le future fasi della guerra. Il corridoio del grano e le regole che servono a vincere
Il Mar Nero è da sempre inquieto, storicamente inquieto. Lo dicevano persino i greci, viaggiatori instancabili che trovandosi davanti alle sue acque lo chiamarono “il mare inospitale”, pontos axeinos. Fosse solo per l’inquietudine delle sue correnti, però, non sarebbe oggi ancora al centro della storia. Il Mar Nero, nei secoli, è diventato un’ossessione per Mosca che perdura fino a oggi e che fa sì che le sue acque siano scosse non soltanto dalle correnti, ma anche dalla guerra scatenata da Vladimir Putin, che quel mare lo vuole per sé, tanto da bearsi ogni volta che viene chiamato “il lago russo”. Nulla di più sbagliato e, se proprio va trovato al Mar Nero un nome che non sia il suo, sarebbe più appropriato chiamarlo “lago atlantico”. Le sue acque lambiscono le coste di Turchia, Bulgaria, Romania, Ucraina, Russia e Georgia.
Di queste sei nazioni, Mosca è in minoranza perché se Ankara, Sofia e Bucarest sono già parte della Nato, Ucraina e Georgia vorrebbero anche loro stare dentro all’Alleanza, e lo vorrebbero talmente tanto da aver subìto l’invasione del Cremlino. Il Mar Nero si è ritrovato a essere il posto della guerra, il centro di molte delle ambizioni dell’invasione russa, il punto storico di rivendicazioni e prevaricazioni. Quando martedì un drone da ricognizione americano è stato intercettato da due aerei russi, due Su-27, ed è stato danneggiato tanto da costringere gli Stati Uniti ad abbatterlo in acque internazionali, lo scontro è avvenuto proprio sopra ai cieli del Mar Nero. Il velivolo americano compiva azioni di routine in un’area internazionale tutt’altro che contesa e che piuttosto la Russia cerca di prendere con la forza. Mosca attacca, provoca, gli Stati Uniti hanno invece tenuto i toni bassi, denunciando le mosse poco professionali dei piloti russi e preoccupandosi di recuperare al più presto i resti del drone prima che la tecnologia da trenta milioni di dollari possa finire, con tutti i suoi segreti, nelle mani del Cremlino, che naturalmente sta ora correndo per recuperare lui quei preziosi resti. Le mosse dei Su-27 contro il velivolo sono state una spallata e di queste spallate, dall’inizio della guerra, ce ne sono state molte. Questa è stata la più sconsiderata e volta a dire: spostatevi, il Mar Nero è roba di Mosca.
A questo mare interno in cui la storia ha spesso incontrato la guerra, in cui si sporge la Crimea, in cui si muovono le navi da guerra e quelle commerciali, guardano le future tappe delle controffensive di Kyiv e delle offensive di Mosca, l’aiuto degli alleati e i confini del diritto internazionale che Mosca rende instabili, perché non segue regole. Ma in queste acque funziona anche la prima forma di negoziato che Russia e Ucraina hanno chiuso separatamente e che riguarda l’export del grano. Con la guerra Mosca ha bloccato i porti ucraini e i mercantili internazionali che trasportavano i cereali in tutto il mondo. Dopo cinque mesi in cui il rischio di una carestia globale si è fatto più acuto, con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite la situazione è stata sbloccata. Ma non per sempre: gli accordi, firmati ad Ankara il 22 luglio del 2022, vanno rinnovati di scadenza in scadenza e a ogni nuova data, Mosca mette i suoi paletti. Anche questa volta ha detto che è pronta a rinnovare il patto soltanto per altri sessanta giorni: la prossima scadenza è il 18 marzo. Per capire il futuro di questo accordo, il cui nome corretto è “iniziativa sul grano”, ci siamo fatte accompagnare da Markiyan Dmytrasevych, viceministro delle politiche agrarie dell’Ucraina.
Il viceministro Dmytrasevych ci ha detto che il primo problema dell’accordo sono i mercantili in coda per le ispezioni
I risultati. L’effetto dell’iniziativa sul grano è stato senza dubbio positivo, un sollievo, e il viceministro Dmytrasevych ci ha confermato che ha “influenzato sia la situazione interna sia il mercato globale, quindi la sicurezza alimentare e i prezzi del grano, che si sono stabilizzati grazie al corridoio” in cui i mercantili percorrono il Mar Nero. Anche l’impatto sul mercato ucraino è stato positivo: “L’iniziativa ha permesso agli agricoltori di esportare e avere i soldi per la stagione della semina primaverile”. Mentre alcuni settori dell’economia ucraina sono stati colpiti in modo drastico dalla guerra, quello agricolo è rimasto stabile e “la quota del pil agricolo nell’economia ucraina è cresciuta fino al 40 per cento”. Dmytrasevych ci ha detto che sono 400 milioni, esclusi gli ucraini, le persone che in tutto il mondo dipendevano prima della guerra dai prodotti agricoli di Kyiv. Con l’invasione gli approvvigionamenti sono stati messi a rischio ma l’Ucraina rimane uno dei principali paesi esportatori di grano al mondo: se Mosca si ritirasse dall’iniziativa, le conseguenze sarebbero mondiali. “Durante questo anno di guerra – ci ha detto il viceministro – abbiamo spedito quasi 51 milioni di tonnellate di cereali, semi oleosi e prodotti trasformati, di cui 11,4 milioni di tonnellate di grano. Attraverso il corridoio sono stati spediti 22,5 milioni di tonnellate di prodotti agricoli, di cui 6,4 milioni di tonnellate di grano e il 22,5 per cento del grano è stato spedito ai paesi bisognosi”. Le navi salpate dai porti ucraini sono state 850 e si sono dirette verso 43 paesi.
I miglioramenti. L’iniziativa del grano è stata preziosa, per l’Ucraina e per il mondo, ma rimane comunque migliorabile. Il primo problema sono le ispezioni dei mercantili – è una condizione che fa parte degli accordi – che rallentano e creano code che mettono in attesa fino a cento a navi. Dmytrasevych ci ha spiegato che ora vengono ispezionate 2-3 navi al giorno, invece delle possibili 7-8. “Le navi restano in coda e i danni sono principalmente a carico degli agricoltori ucraini”. Il primo obiettivo per migliorare la situazione sarebbe rendere il corridoio permanente e non soggetto a continue ratifiche e scadenze. Inoltre, al di là dei porti occupati dai russi, non tutte le strutture ucraine sono tornate in funzione. Mykolaïv, per esempio, “era il leader delle spedizioni prima della guerra” e riaverlo operativo alleggerirebbe il carico di altri porti e aumenterebbe le esportazioni. Il viceministro cita dei numeri importanti: “Prima della guerra, più dell’85 per cento del grano e più del 90 dei semi oleosi venivano esportati via mare, ma adesso i porti marittimi costituiscono soltanto il 44 per cento delle esportazioni, il resto si muove per via fluviale, su rotaia e su strada”. L’Ucraina ha cercato di diversificare, di spostare e smistare e riguardo al Danubio si è anche aperta una piccola disputa.
Mosca vuole un rinnovo sul corridoio del grano di sessanta giorni. La Turchia prova a negoziarne centoventi
La disputa sul delta del Danubio. A fine febbraio, il governo di Kyiv ha annunciato di aver dragato il canale di Bystre, un corso d’acqua lungo dieci chilometri che collega il Mar Nero con il braccio di Cilia, uno dei tre bracci che formano il delta del Danubio creando un confine naturale tra l’Ucraina e la Romania. La profondità del canale navigabile è stata portata da 3,9 a 6,5 metri, e fa parte del piano dell’Ucraina di trovare vie alternative alle sue esportazioni da quando la Russia ha deciso di considerare anche l’interno Mar Nero un campo di battaglia: questo piano è concordato assieme all’Unione europea all’interno del programma “Solidarity Lanes” che è stato studiato apposta per compensare i blocchi navali arbitrariamente decisi da Mosca. La Romania non ha preso bene il dragaggio voluto dall’Ucraina: è stato convocato l’ambasciatore ucraino a Bucarest e gli è stato chiesto di fermare tutti i lavori che vanno oltre l’ordinaria manutenzione del canale e che sono in violazione del programma di solidarietà (che secondo la Romania non comprende questo canale), portando anche rimostranze ambientaliste, poiché il delta del Danubio, che è patrimonio dell’Unesco, è una riserva naturale protetta di cui va conservata la biodiversità. L’ambasciata ucraina in Romania ha detto che i lavori sono stati fatti per conservare l’attuale navigabilità del canale, ma il mondo prorusso in Romania ha rimesso grandemente in circolo la propaganda del Cremlino denunciando “la provocazione” ucraina nei confronti del paese (e dei tanti uccelli che vivono nel delta del fiume). Il presidente romeno Klaus Iohannis, un gran sostenitore di Kyiv, incontrando il presidente americano Joe Biden e altri leader della regione a Varsavia alla fine di febbraio ha detto: “Non penso che sia appropriato attaccare gli ucraini sulla base di informazioni incerte. Non hanno bisogno di essere rimproverati, hanno bisogno di essere sostenuti”. La settimana scorsa c’è stato un incontro organizzato dalla Commissione europea a Izmail, una cittadina portuale dell’Ucraina a sessanta chilometri dal canale di Bystre, in cui Romania e Ucraina si sono accordate per fare delle misurazioni idrografiche e chiarire così la natura dei lavori avviati dal governo di Kyiv. A gennaio, le ferrovie ucraine avevano fatto partire il primo treno che collegava l’Ucraina alla Romania, costruendo i binari su una linea che era chiusa da diciassette anni. Il presidente delle ferrovie, Alexander Kamyshin, aveva detto che così era stato raggiunto un obiettivo importante per le esportazioni ucraine ma anche per le relazioni tra Ucraina e Romania, che devono restare strette e funzionanti e solide. Non soltanto a livello di governi: la Romania ha accolto molti rifugiati ucraini (98 mila secondo le stime di dicembre), nelle regioni al confine vivono trentamila ucraini: restare uniti e collegati è necessario. E poi, diceva Kamyshin, so che i romeni non hanno paura, possono venire a sciare sui Carpazi oppure con la bella stagione a fare delle scalate.
Che succede se Mosca blocca il corridoio. La guerra ha colpito tutti i settori dell’agroindustria e la portata, come abbiamo visto, è stata mondiale. Mosca ha rubato il grano ucraino nei territori occupati e il furto ammonta a circa sei milioni di tonnellate per un valore di un miliardo di dollari. E’ stato il viceministro Dmytrasevych a citare queste cifre, parlando di una stima prudente e ponendo un esempio di rischi che, oltre alla carestia, il blocco dei porti causa nel mondo: “All’inizio del conflitto è emerso un deficit mondiale nel petrolio ucraino poiché quasi un terzo dei semi oleosi necessari per la lavorazione era irraggiungibile. Nei territori occupati sono rimaste indietro le imprese impegnate nella lavorazione delle materie prime e nella produzione di petrolio, ora queste strutture sono inaccessibili e la capacità di lavorazione delle materie prime dell'Ucraina si è quasi dimezzata”. A questo si aggiunge che “gli ispettori russi deliberatamente ostruiscono il corridoio del grano, provocando ingiustificati ritardi nelle ispezioni e code persistenti. Di conseguenza, solo a gennaio le esportazioni sono crollate a 2,9 milioni di tonnellate”. La Russia usa come arma il cibo, il mare, i porti, il petrolio e attorno alla questione del grano rimane un problema: “Non ci sono sanzioni sulla vendita dei prodotti agricoli russi – ci ha detto il viceministro – Chiunque può acquistare grano russo e Mosca ha esportato più grano rispetto all’anno precedente”. Se l’iniziativa è ancora in piedi, con le sue lungaggini, blocchi, pericolosità, è perché a Mosca non conviene farla fallire, e perché ha dei mediatori molto motivati.
I mediatori. La Turchia è l’unico paese della Nato che ha conservato una buona relazione con la Russia ben dimostrata da un dato preciso: nel 2022, le esportazioni turche in Russia sono state di 9,3 miliardi di dollari, contro i 5,8 miliardi dell’anno precedente. E’ per questo che la decisione di Ankara di bloccare il transito sul suo territorio di prodotti sotto sanzione diretti in Russia ha fatto un certo scalpore: l’Unione europea si è congratulata, visto che fa pressioni su molti paesi da tempo, compresa la Turchia, perché non vengano violate le sanzioni. Mosca si è preoccupata tant’è vero che i toni del ministero del Commercio russo sono stati particolarmente concilianti: si troverà una soluzione, ha detto. Erdogan s’è conquistato in modo sapiente questo ruolo da mediatore, parlando (e armando) Kyiv ma coltivando indefesso i suoi rapporti con Putin: s’è intestato l’accordo sull’esportazione del grano – e ora sta cercando di convincere Mosca che un rinnovo di 60 giorni non basta, deve essere almeno di 120 giorni – e ha anche ospitato uno scambio di prigionieri di guerra a gennaio, mettendo le basi per uno successivo. Erdogan non s’è costruito mediatore per generosità: chiede in cambio mano libera in Siria e contro i curdi; chiede aiuti economici avendo in Turchia una situazione finanziaria disastrosa; chiede aiuti militari e di fatto qualche free pass nelle regioni e nei paesi ai suoi confini. Per alzare il prezzo, il presidente turco tiene anche in sospeso l’intera Nato sull’allargamento: ieri ha dato il suo formale assenso all’ingresso della Finlandia nell’Alleanza (a maggio), ma non alla Svezia, creando così un altro problema all’occidente. Tutti sanno che il cinico bazaar di Erdogan è pericoloso, ma sono altrettanto consapevoli di quanto sia difficile emanciparsi da questa strategia del baratto che sconfina talvolta nel ricatto. Anche Erdogan ha però le sue preoccupazioni: le prossime elezioni, il 14 maggio, dove c’è uno sfidante, Kemal Kiliçdaroglu, che è riuscito a compattare tutti i partiti di opposizione al presidente e quindi è ben più solido del previsto; la competizione della Cina mediatrice, che con il suo cosiddetto piano di pace in dodici punti, la sua visita a Mosca, la sua prima conversazione (forse) con Zelensky rischia di scalzare la Turchia come interlocutrice privilegiata e quindi potente. Tutto questo ovviamente senza considerare la reale affidabilità dei mediatori che ambiscono al riconoscimento del loro potere più che all’efficacia dei loro interventi (e a rimetterci è sempre l’Ucraina).
Il Mar Nero rimane uno dei punti di tormento, dolore e pericolosità. Una superficie di circa 440 chilometri quadrati da cui dipendono i destini di buona parte del mondo. Certo è che se Mosca non avesse attaccato l’Ucraina e non avesse trasformato il mare in un territorio di scontro, nulla sarebbe a rischio, e le sue acque movimentate sarebbero il centro di scambi e commerci e non di sfide pericolose tra droni, aerei e missili. I greci, dopo aver chiamato il Mar Nero “mare inospitale”, ebbero un ripensamento, lo ribattezzarono “mare ospitale”: pontos euxeinos. C’è chi sostiene lo fecero come forma di buon auspicio, affinché le sue acque si facessero meno ribelli. Fidandoci del genio greco, abbiamo pensato a un cambio della toponomastica: potremmo chiamarlo il Mare Blu, che sembra scontato, ma questo è il colore della Nato.