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Perché la “carta igienica” deve far paura al Cremlino
Il mandato d’arresto della Corte penale crea un muro attorno a Putin, e lui lo sa bene. Il punto di partenza e quello di arrivo della giustizia internazionale
Volodymyr Zelensky è arrivato per la seconda volta in pochi mesi a Bakhmut, l’unico fronte della guerra della Russia in Ucraina in cui il Novecento non sembra finito. I racconti e le testimonianze da questa cittadina rasa al suolo e quasi completamente svuotata sono strazianti, i numeri dei morti, dei feriti e dei mutilati sono grandi e si fondono con la domanda più ricorrente e più drammatica: questa carneficina vale la pena? La risposta ormai è nei fatti, Bakhmut è poco strategica ma altamente simbolica, e quindi il presidente ucraino ci è ritornato, per dare senso e onore a chi combatte lì per difenderci tutti – ogni fronte della difesa ucraina è un fronte della difesa occidentale – e anche per rispondere con la sua palpabile umanità alla visita posticcia a Mariupol del disumano Vladimir Putin.
Il presidente russo, fresco di mandato di arresto dal Tribunale penale internazionale dell’Aia, è andato nella città conquistata dopo tre mesi di assedio, ribattezzata “un piccolo pezzettino di paradiso”. C’era buio, forse per ragioni di sicurezza o forse (più probabilmente) per non mostrare la distruzione della città, c’erano due famiglie-comparse (già utilizzate peraltro) a ringraziare Putin di averle liberate dai nazisti ucraini, c’era l’urlo nella notte “è tutto falso!” da perfetto Truman Show, c’era solo la volontà di dire a tutti: questa terra è mia e non la riavrete mai. Zelensky è arrivato di giorno vicino a Bakhmut, ha incontrato i soldati, li ha ringraziati, li ha onorati, è andato all’ospedale e di nuovo ha detto grazie. Grazie che ci state proteggendo tutti, ha ribadito Zelensky, osservando un minuto di silenzio per i soldati rimasti uccisi e mostrando ancora una volta quel calore e quella partecipazione che sembrano sempre genuini e veri. Il contrasto con la furia e la ferocia di Putin si vede anche da lontano, ma il mandato d’arresto del Tribunale internazionale nei confronti del presidente russo e di Marija Alekseevna Lvova-Belova, commissaria per i Diritti dei bambini presso il Cremlino, permette e permetterà di misurare tale e tanta disumanità. I due sono accusati di aver violato l’articolo 8 dello Statuto di Roma su cui si fonda la Corte penale internazionale in due comma: deportazione illegale di una popolazione e trasferimento illegale di una popolazione – in questo caso di bambini. I mandati specificano che la Lvova-Belova è accusata di avere la responsabilità penale per “aver commesso gli atti direttamente, congiuntamente con altri e/o attraverso altri”; Putin ha la stessa accusa più un’altra che si riconduce alla dottrina della “responsabilità superiore” che ha un capo rispetto ai suoi sottoposti.
Come è noto, il mandato di arresto è soltanto l’inizio di un procedimento che sarà lungo e che potrebbe anche essere inefficace, ma non è né la “carta igienica” di cui parla il Cremlino né un’azione dissennata che allontana la pace, come sostengono molti filorussi. Lo ha dimostrato lo stesso Putin che, come prima cosa dopo la notizia del mandato, ha messo tra le sue tante e impresentabili condizioni per un negoziato – per di più per un dialogo che non desidera affatto – anche il sollevamento di qualsiasi accusa internazionale.
Le visite in parallelo di Zelensky a Bakhmut e Putin a Mariupol mostrano il contrasto tra il calore e la furia
Non è affatto “carta igienica”. L’ex presidente Dmitri Medvedev ha espresso il concetto con un disegnino, per lui, il mandato d’arresto ha il valore della carta igienica. Poi ha suggerito di bombardare direttamente l’Aia. E’ pur vero che a lui toccano le minacce roboanti, le accuse di complotti, i piani fantascientifici, ed è anche vero che parla con poco senno, per fare rumore, ma il mandato ha infastidito e preoccupato perché restringe le aree in cui il presidente russo potrà recarsi, lo degrada a livello internazionale e limita anche i suoi interlocutori. Un esempio: non che Emmanuel Macron di recente alzasse il telefono volentieri per parlare con Putin, aveva perso questo costume già qualche mese fa, ma ora chiamare un ricercato per crimini di guerra è impensabile. Eppure, quanto facevano piacere quelle chiamate assidue al Cremlino. In 123 paesi il presidente russo non potrà più andarci, a meno che non intenda sfidare il rischio di essere arrestato, tra questi ci sono paesi amici quali il Brasile, il Venezuela e anche il Tagikistan. Questi 123 hanno l’obbligo di arrestarlo, i restanti che non hanno sottoscritto lo Statuto di Roma potranno comunque farlo. Se Mosca ha chiesto la rimozione del mandato come prerequisito di un negoziato futuro è anche perché da questo momento Putin non è più un interlocutore: un dialogo che preveda Vladimir Putin come controparte e mediato da un paese terzo sarà di difficile realizzazione con lui come presidente. Un trattato di pace futuro, con questo mandato, non potrà portare la firma di Vladimir Putin. Il Cremlino lo sa e ha reagito in due modi: per vie legali e per insulti anche contro il procuratore generale della Corte, contro il quale ha avviato un’indagine – e questa è la parte legale – e ne ha approfittato per prendersela con suo fratello – e questa è la parte dell’insulto.
Il procuratore della Corte internazionale. Karim Khan, cinquantatreenne avvocato britannico di origini pachistane, è stato eletto procuratore capo della Corte dell’Aia nel febbraio del 2021, dopo uno scrutinio segreto, il primo della storia della Corte. Khan non era nemmeno presente nella rosa finale dei candidati, ci è arrivato per l’insistenza del Regno Unito ma anche del vicepresidente del Kenya, William Ruto, che Khan aveva difeso quando era stato accusato di crimini contro l’umanità per le violenze scoppiate nel paese dopo le elezioni del 2007, in cui erano morte milleduecento persone. Molti paesi avevano fatto resistenza a questa nomina, proponendo altri candidati, poi sconfitti nello scrutinio segreto che ha lasciato ancora oggi un alone di sospetto su Khan, che pure ha fama di essere un uomo duro e intelligente, che era già stato scelto nel 2018 dal segretario generale dell’Onu, António Guterres, per guidare il team di investigatori sui crimini commessi dallo Stato islamico. Soprattutto Khan è stato scelto perché si muove bene nei palazzi del potere e della diplomazia e il suo compito è dare legittimità a una Corte penale che non ne ha avuta tantissima per molte ragioni che, a ripercorrerle, hanno molto a che fare con le guerre e le responsabilità delle guerre che hanno scandito i decenni scorsi. Nel Regno Unito, dove Khan è molto conosciuto e anche generalmente apprezzato, si chiacchiera parecchio non soltanto della testardaggine con cui il governo conservatore lo ha imposto come capo procuratore dell’Aia ma anche di suo fratello, Imran, che è stato parlamentare dei Tory ma si è dovuto dimettere l’anno scorso, dopo essere stato accusato di aggressione sessuale a un ragazzino di 15 anni nel 2008 – ha sempre negato di aver commesso il fatto.
La via difficile del genocidio. “Putin e il suo regime hanno parlato apertamente dei trasferimenti di bambini, anche in alcune trasmissioni televisive: in tribunale, è una prova molto facile da utilizzare”, ci ha detto Azeem Ibrahim, direttore del Newlines Institute e autore dell’analisi legale indipendente “sulle violazioni alla Convenzione del Genocidio in Ucraina da parte della Federazione russa e sul dovere di prevenirle” che è stato presentato martedì in Senato. Provare il genocidio è molto difficile perché bisogna dimostrare l’intenzione genocidiaria dei perpetratori, ma Ibrahim, che di mestiere si occupa proprio di questo, precisa che “l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio è un crimine distinto, indipendentemente dal fatto che il genocidio sia concretamente commesso. I funzionari russi di alto livello e i commentatori della tv pubblica che negano ripetutamente e pubblicamente l’esistenza di un’identità ucraina distinta, insinuando che coloro che si autoidentificano come ucraini minacciano l’unità della Russia o sono nazisti, e sono quindi meritevoli di punizione, rappresentano già un indicatore specifico di genocidio secondo la guida delle Nazioni Unite”. L’anno scorso Ibrahim è andato in Ucraina, racconta di aver fatto molte indagini, di aver creato un team dedicato e di aver concluso che “la guerra russa è genocida per sua natura e vuole cancellare l’identità ucraina, usando questo obiettivo come motivazione della guerra”. Tutto questo materiale è ora a disposizione della Corte internazionale, che con il suo mandato d’arresto ha inviato un messaggio forte al Cremlino: i tuoi crimini non saranno ignorati, “anche se è piuttosto improbabile che Putin possa essere arrestato”.
Nel 2005 all’Aia, il presidente russo enfatizzava l’importanza storica della giustizia internazionale
I prossimi passi. In aprile la Russia assumerà la presidenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu e pensare a un sistema di giustizia internazionale in un mondo in cui le organizzazioni sono state messe su contando su una pacificazione con Mosca è molto complicato e anche sconfortante. La Corte penale internazionale non è un organo delle Nazioni Unite e la sua decisione è storica perché mostra una luce e mette un punto fermo, ma da qui bisogna andare avanti. In Italia i Radicali italiani avevano raccolto le firme per chiedere il mandato d’arresto internazionale per Putin e tra i firmatari c’era anche il nome di Akhmed Zakayev, primo ministro della Repubblica cecena in esilio, che spera adesso che all’Aia vengano esaminati anche i crimini commessi da Putin a Grozny. Igor Boni, presidente dei Radicali italiani, ci ha detto che la decisione della Corte è la fine politica di Putin. Poi ci sono gli aspetti pratici, per esempio: “La Corte non può fare un processo in contumacia, quindi alla cattura di Putin bisognerà arrivarci, ma il mandato apre anche ad altri mandati che sono da estendere a tutta la catena di comando”. La Corte può indagare i crimini di guerra, ma non ha giurisdizione per perseguire il crimine di aggressione della Russia. Per questo il 19 gennaio scorso, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che invita gli stati membri a sostenere la creazione di un tribunale speciale per giudicare i crimini russi commessi in Ucraina, in particolare il crimine di aggressione, e alla raccolta di prove stanno collaborando più di trenta paesi. “Il lavoro della Corte e quello del Tribunale speciale devono andare in parallelo, coesistere”, ci ha detto Boni. L’istituzione di un tribunale speciale servirebbe a evitare di passare attraverso il Consiglio di sicurezza, che non è all’apice della sua credibilità, “non l’ha persa per demerito, ci ha detto Boni, ma per la sua architettura”, che ormai non sta più in piedi.
A proposito di architetture ormai archeologiche, ci è capitato di ascoltare il discorso di un Putin di altri tempi ma della stessa pasta. All’Aia, parlando davanti alla Corte di giustizia sottolineava nel 2005 con forza e ostentata convinzione la sua importanza, il suo rilievo storico, internazionale, le sue responsabilità per migliorare il mondo. Sono trascorsi diciotto anni, Putin è più imbolsito, parla con meno audacia e più violenza, chissà se avrebbe mai immaginato, all’epoca, di non poterci più mettere piede in quella sede della giustizia, se non con un mandato d’arresto.
(ha collaborato Maurizio Stefanini)