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Che cosa cambia per l'Ue se Erdogan perde il potere

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Al voto del 14 maggio, il presidente turco è tallonato dall’opposizione di Kiliçdaroglu. La campagna elettorale sui camion e il futuro di un vicino influente

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ci ha abituati a vivere i nostri rapporti con la Turchia in un limbo, in un territorio fatto di alleanze necessarie e diffidenze sagge, di amicizie misurate e antipatie trattenute. Sulla carta, Erdogan è un nostro alleato, in realtà parecchio prezioso se si pensa alla  posizione della Turchia, alla sua potenza militare, alla sua abilità di trovarsi sempre al posto necessario al momento giusto. Con Erdogan e il Partito della giustizia e dello sviluppo, Akp,  abbiamo sviluppato il nostro vademecum di comportamenti, che spesso cambiano a seconda del profilo del presidente turco che vogliono vedere: quello interno o quello internazionale? La doppiezza la espose bene Mario Draghi, quando da presidente del Consiglio in conferenza stampa disse con una  consapevolezza che sembrò uno scivolone diplomatico, che con certi dittatori, intendendo Erdogan, purtroppo l’Ue è costretta ad avere a che fare. Volarono stracci, ma comunque contenuti, perché come noi abbiamo imparato a trattare con Erdogan, lui ha appreso con rapidità a trattare con noi.

 

Dopo ventuno anni al potere, il presidente turco alle elezioni che si terranno il 14 maggio sarà sfidato da un politico che sa su quale terreno può batterlo, sa anche in cosa è bene rimarcare le differenze e in cosa, eventualmente, è bene assomigliare al presidente in carica. Kemal Kiliçdaroglu ha ricucito le crepe tra i partiti di opposizione e composto una falange in grado di sfidare Erdogan mettendo a capo della coalizione, chiamata il Tavolo dei sei, il suo Partito repubblicano del popolo, il Chp. Kiliçdaroglu è nato nell’attuale villaggio di Tungeli, nella provincia di Dersim, da una famiglia molto povera. Curdo alevita, non piace a tutti e i sondaggi danno i due candidati principali testa a testa in una campagna elettorale che si concentra su diritti, costituzione, immigrazione e il terremoto di inizio febbraio. Sul fronte interno le divisioni sono molte e talmente grandi da far sperare con forza gli alleati occidentali nella vittoria di Kiliçdaroglu. Siamo andate a studiare i programmi, le aspirazioni, le differenze tra i due candidati e ci siamo chieste: quanto sarebbero grandi i cambiamenti in Turchia se Erdogan perdesse? Incominciamo dal terremoto.
 


Gli aiuti per il terremoto. Il sindaco di Samandag, Refik Eryilmaz, riceve i giornalisti in un complesso di abitazioni a un piano e container sulle rive del Mar Mediterraneo – è il nuovo quartier generale del municipio dopo i terremoti del 6 febbraio che hanno colpito il sud della Turchia e il nord della Siria. Secondo i numeri ufficiali, in questa città vicina al confine sono morte 850 persone, ma secondo lui sono molte di più, così come molte più di 56 mila sono per tutti le vittime totali del sisma. Oltre diecimila abitazioni sulle 23 mila di Samandag sono state o saranno demolite. “Oggi, la preoccupazione più grande è avere un tetto sopra la testa. Ci sono famiglie di otto o dieci persone che vivono nella stessa tenda, ma chiedono soluzioni  più concrete e a lungo termine, rivogliono delle case, insomma. Fino a oggi niente è stato fatto per garantirle e non si sa per quanto ancora debbano vivere così. E’ evidente però, se guardiamo a cosa è stato fatto in questi tre mesi, che è impensabile risollevare città intere in uno o due anni come era stato promesso”, dice il sindaco. In una riunione a marzo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva detto che sarebbero stati stanziati 7 miliardi di euro per i due paesi, ma secondo una valutazione congiunta del governo turco, delle Nazioni Unite, della Banca mondiale e dell’Ue i terremoti hanno causato danni nella sola Turchia per circa 104 miliardi di dollari, l’equivalente del 9 per cento dell’intera economia turca  nel 2023. Il sindaco ci racconta che il ministero dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione e il ministero per gli Affari interni hanno indetto una gara di appalto per la gestione delle demolizioni che funziona più o meno così: le aziende che sono state scelte dal governatore locale e che hanno a disposizione furgoni e camion possono prendere le macerie dalle case e trasportarle in un punto di raccolta sul mare, una montagna di cemento, ferro e altri materiali che provengono dalle case distrutte dal sisma e abbattute. Due volte alla settimana i cittadini protestano per le condizioni di salute che potrebbero peggiorare e per l’impatto di questi detriti sui loro campi. Una volta lì, queste compagnie sono autorizzate a prendere materiali di scarto come il ferro che può essere rivenduto e quindi riutilizzato: ogni giorno ci sono almeno una decina di furgoni colmi di ferro, ognuno dei quali può trasportare 15 o 20 tonnellate di materiali – conti alla mano sono 2 milioni di lire turche al giorno, circa 93 mila euro. L’impressione è che gli aiuti dal governo non arrivino, molti cittadini non hanno ricevuto le tende e i container, ma hanno dovuto pagarli. Non è ancora chiaro quale via sia stata presa, se è il governo a ricevere il denaro dalla vendita del ferro o se i profitti siano condivisi con le compagnie appaltatrici, ma è stato annunciato dal governatore – la persona che decide il da farsi dall’8 febbraio, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza – che saranno consegnati appartamenti alle vittime senza interessi, con bassi interessi o a rate: ciò significa che dovranno comunque pagare per le nuove case. Il resto del cemento rimasto, invece, sarà  riutilizzato per sistemare le strade e altre costruzioni.


 
Il terremoto e il voto.
Nell’ufficio del sindaco c’è anche Erdal Celel Aksoy, coordinatore generale delle attività ad Antiochia del comune di Istanbul, che ci dice: “Nonostante tutto, questi sono ancora i giorni buoni, i peggiori devono arrivare. Le persone stanno ancora aspettando che qualcuno le aiuti, ma servono troppe cose, non hanno un tetto, non hanno cibo. La risposta del governo è stata un fallimento totale, per giorni interi non si è mosso nessuno, poi hanno realizzato che le elezioni erano vicine e allora hanno cominciato. Cinque milioni di persone hanno ancora bisogno di aiuto solo in questa regione”. Nei racconti delle persone qui ci sono due immagini che si ripetono: la prima è la descrizione di un processo di demolizione e spostamento delle macerie che è stato troppo veloce e per cui si teme che la conta delle persone che hanno perso la vita nei terremoti sia superiore a quella ufficiale, e molte famiglie dicono di non essere riuscite a recuperare i corpi dei loro cari. La seconda questione riguarda la distribuzione degli aiuti: la regione sud occidentale della Turchia è famosa per la sua agricoltura, i suoi terreni floridi e per essere storicamente anti Erdogan. “Guarda, ho un quaderno pieno delle richieste dei miei concittadini, sono pagine e pagine. Non è solo una questione di discriminazione sulla base di princìpi religiosi, ma anche relativa al partito politico che i cittadini scelgono di sostenere: questa è una regione in cui il 90 per cento delle persone è dalla parte dell’opposizione e al governo non interessano le aree abitate da chi non è d’accordo con le sue idee. Io sono un sindaco eletto con il partito di Kemal Kiliçdaroglu e il mio comune non ha ricevuto niente dal governo, ma se guardi ai sindaci pro Akp, loro sì che hanno avuto sostegno, aiuto e servizi”.

 

La politica europea dell’opposizione.   Il “patto autoritario” tra Erdogan e  la società turca sembra stia crollando mentre la nuova generazione, in particolare quella che si affaccia al voto per la prima volta, chiede un cambiamento anche internazionale.  Se dovesse vincere l’opposizione,  la Turchia si ritirerebbe dalla Libia e dalla Siria? Per quanto riguarda l’Ucraina, Ankara porrebbe fine alla sua politica di equilibrio per allinearsi alle posizioni del blocco occidentale e degli alleati della Nato? Che ne sarebbe della cosiddetta “diplomazia coercitiva” messa in atto dall’amministrazione turca nelle dispute con Grecia e Cipro nel Mediterraneo orientale? Come sarebbero i rapporti con Washington e con Bruxelles? L’Amministrazione Biden non ha mai nascosto la sua diffidenza nei confronti di Erdogan e preferirebbe un governo di opposizione ad Ankara. Non a caso Kiliçdaroglu aveva deciso di andare in visita in America prima dell’inizio della sua campagna elettorale. Questo fa credere che la politica estera plasmata dal presidente Erdogan nel suo ventennio potrebbe avere una brusca svolta se dovesse verificarsi un cambio di leadership alla presidenza della Repubblica. Kiliçdaroglu ha fatto promesse accattivanti a Bruxelles che hanno suscitato un ampio dibattito in Turchia, come quella di soddisfare tutti i parametri di riferimento richiesti dall’ordinamento europeo per la legge antiterrorismo che a oggi colpisce soprattutto l’opposizione e i dissidenti, per ottenere dall’Unione europea la liberalizzazione dei visti di ingresso nell’area Schengen per i cittadini turchi. Nella campagna elettorale, il leader repubblicano insiste su questo punto, lo ripete come un mantra: nel suo entourage si dice che abbia già assunto un impegno con Bruxelles. Nel memorandum di intesa del Tavolo dei sei, l’alleanza dei partiti di opposizione, è previsto il riallineamento dell’ordinamento turco ai parametri dell’Unione come prescritto dai 35 capitoli del negoziato di adesione, anche se, ancora una volta, l’Europa dovesse tenere la porta chiusa all’ingresso della Turchia. Inoltre, lo sfidante di Erdogan ripete spesso che sotto la sua amministrazione la politica estera turca si baserebbe sul “non intervento negli affari interni dei vicini, su una politica estera imparziale e sul rispetto delle norme internazionali”. Erdogan fino a poco tempo fa aveva operato una politica estera interventista e ideologica basata sulla forza militare in paesi come la Siria, dove l’esercito turco ha sostenuto i ribelli anti Assad, e la Libia, dove ha sostenuto un governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. “Tutto questo deve cambiare”, sostiene Kiliçdaroglu: “Daremo priorità alla diplomazia, al dialogo e a un approccio non interventista. Saremo un broker onesto in paesi come la Libia e parleremo con tutti gli attori in campo”. Il leader dell’opposizione vuole porre fine alla “diplomazia dei leader” tanto cara a Erdogan rimettendo al centro la diplomazia tra stati.


La strategia con i vicini. L’opposizione turca ha da lungo tempo chiesto di riprendere i legami con Assad per rendere possibile il ritorno dei rifugiati siriani dopo essersi lamentata della “politica delle porte aperte” praticata da Erdogan soprattutto nei primi anni della guerra civile in Siria – politica diventata sempre più impopolare tanto da aver contribuito alla sconfitta del Partito della giustizia e dello sviluppo in tutti i maggiori centri urbani del paese. Ora è lo stesso Erdogan a voler raggiungere un accordo con Damasco, ma fino a quando le truppe turche rimarranno nel nord della Siria, per sostenere i gruppi ribelli che combattono Assad e per impedire la formazione di una regione autonoma curda ai confini sud orientali con la Turchia, sarà improbabile la normalizzazione delle relazioni tra i due vicini. “Non ci ritireremo immediatamente dalla Siria, non è possibile dare una tempistica precisa, ma discuteremo su come preparare il ritiro”, si dice nel quartier generale del leader dell’opposizione. La politica estera turca negli ultimi mesi ha abbandonato la sua impostazione di forte rivalità con i suoi vicini e si è avviata verso la normalizzazione delle relazioni con tutti i paesi della regione, in particolar modo con le monarchie del Golfo. Dopo un decennio di forti tensioni, Erdogan ha riallacciato buoni rapporti con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e ora anche con l’Egitto, dopo averli ripristinati con Israele. Il leader turco vuole presentare la sua politica estera come un insieme di successi dopo aver invece litigato con tutti. 


La guerra. L’invasione russa dell’Ucraina, sotto questo aspetto, ha rappresentato per Erdogan una grande opportunità. Riuscendo a mantenere una posizione di equilibrio tra Mosca e Kyiv, il presidente turco si è presentato come l’unico leader al mondo in grado di dialogare sia con Putin sia con Zelensky, da una parte rifiutandosi di applicare contro Mosca le sanzioni occidentali e dall’altra sostenendo la resistenza ucraina, con la fornitura di armi a Kyiv. E’ nello scenario ucraino e nei rapporti con la Russia che non dobbiamo aspettarci molto di diverso da Kiliçdaroglu rispetto alla strategia adottata da Erdogan: Mosca è per la Turchia un prezioso partner economico-commerciale ed è un vicino potente del Mar Nero.


Sui rifugiati siriani, Kiliçdaroglu vorrebbe firmare un protocollo con il regime di Assad che garantisca la sicurezza di chi torna. A questo protocollo, il politico turco vorrebbe aggiungere come garanzia le firme degli europei e dell’Onu, e visto che già gode dei sospiri degli occidentali, c’è chi pensa che potrebbe anche riuscirci. Ha dalla sua i paesi del Golfo e anche le posizioni di Unione europea e Stati Uniti riguardo alla normalizzazione dei rapporti con la Siria  sono molto meno solide di un tempo.  Così ci ritroveremmo a guardare, senza più sospiri, i siriani fuggiti dal regime di Assad che ritornano nelle grinfie di Assad che, protocollo o no, sono feroci. 

(hanno collaborato dalla Turchia Claudia Cavaliere e Mariano Giustino)