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Le vie europee contro la strategia della fame di Putin

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Mosca vuole tagliare fuori l’Ucraina dall’esportazione del grano, l’Europa studia le alternative al Mar Nero inaccessibile. Il dilemma polacco

Se con comoda pigrizia e sfrontata mistificazione qualcuno era ancora propenso a definire lontana, non di nostro interesse la guerra russa contro l’Ucraina, ha avuto da Vladimir Putin una smentita: il conflitto è molto vicino e riguarda tutti. Mosca ha deciso di non rinnovare la Black Sea Grain Initiative, l’iniziativa che Russia e Ucraina avevano approvato siglando due accordi separati con l’Onu e con la Turchia. Oltre a garantire una forma di stabilità all’economia ucraina, consentendo ai mercantili carichi di cereali di passare per il Mar Nero, che è un mare di guerra, l’iniziativa aveva una valenza mondiale perché dai porti ucraini partono i cereali diretti in tutto il mondo. Se quei cereali non partono, il mondo ha un problema. L’equazione è semplice ed è per questo che l’accordo sul grano non era una questione soltanto ucraina. I dati sono molto chiari: tramite la Black Sea Grain Initiative, in un anno sono stati trasportati 33 milioni di tonnellate di grano e altri prodotti. Il 65 per cento del grano ha raggiunto paesi in via di sviluppo, e anche le Nazioni Unite si sono servite dei porti e del grano ucraini  per far arrivare  tramite il Programma alimentare mondiale 725 mila tonnellate di grano a Etiopia, Yemen, Afghanistan, Sudan, Somalia, Kenya e Gibuti. Questi dati danno l’idea della dimensione globale di un accordo che Putin ha preso in ostaggio. Dopo aver distrutto l’iniziativa, la Russia ha dichiarato la sua guerra al grano, ha iniziato a bombardare Odessa e tutti i suoi simboli, incluso il suo porto, le infrastrutture che servono al trasporto del grano e allo stoccaggio. Il Mar Nero è tornato a essere non navigabile, inservibile, un mare bersaglio. L’occidente è andato a caccia di alternative perché il grano deve uscire dall’Ucraina, ha proposto il trasporto attraverso il Danubio e Mosca ha colpito anche lì, i porti di Izmail e di Reni, noncurante della vicinanza alla Romania. E mentre distrugge, il Cremlino finge di proporre una soluzione, dice che l’accordo serviva soltanto a Kyiv e ai paesi più ricchi e, affamando il mondo, dice di avere la soluzione giusta per salvarlo. Siamo andate a vedere il bluff russo, parola a Putin molto cara, e abbiamo studiato le soluzioni non facili che l’occidente sta cercando per far ripartire il grano. 


La riunione di San Pietroburgo. Vladimir Putin ha pubblicato un manifesto su come intende risolvere il problema dell’approvvigionamento alimentare ora che ha bloccato il trasporto dei cereali. Dice di avere una proposta per la pace e per il progresso e oggi accoglierà a San Pietroburgo i leader africani che sono disposti ad ascoltarlo. Bloccando l’accordo sui cereali, il presidente russo vuole presentarsi come il liberatore dei paesi più poveri, fantasticare sulla costruzione di un nuovo mondo multipolare a guida russa. Oggi Putin accoglierà ventuno capi di stato e di governo provenienti dalle nazioni africane e non è un successo. Nel 2019 erano andati in 43. Il Cremlino si è lamentato del fatto che l’occidente ha esercitato una pressione scorretta sui leader africani affinché non partecipassero, ma la sua decisione di abbandonare la Black Sea Grain Initiative non è piaciuta. Non è piaciuta per esempio a William Ruto, il presidente del Kenya, che ha definito la fine dell’accordo “una pugnalata alle spalle” e infatti non sarà presente a San Pietroburgo. Il principale consigliere per la politica estera del Cremlino, Yuri Ushakov, ha detto che Putin ha reso la Russia la guida di una rivoluzione anticoloniale contro gli Stati Uniti. 


Il primo vertice del Consiglio Nato-Ucraina. Si è riunito per la prima volta ieri il nuovo Consiglio Nato-Ucraina: è nato dopo il vertice dell’Alleanza atlantica a Vilnius ed è la dimostrazione non soltanto della volontà della Nato di dare forma al futuro insieme con l’Ucraina ma anche della trasformazione enorme che c’è stata in questo secolo nei rapporti con Mosca, visto che nel 2002 la grande e promettente novità dell’Alleanza fu l’istituzione del Consiglio Nato-Russia. Volodymyr Zelensky ha chiesto al segretario della Nato, Jens Stoltenberg, di convocare questo primo incontro emergenziale per discutere della sicurezza del Mar Nero e del collasso inferto da Putin all’accordo sul grano che finora era stato l’unico esempio di possibilità di dialogo (e anche dell’efficacia del dialogo) con Mosca. Zelensky chiede che sia garantita la sicurezza dei suoi porti e la sicurezza delle esportazioni di cereali. Le alternative non sono molte: o si proteggono i convogli via mare o si crea una struttura di esportazione via terra anche questa naturalmente ben protetta. L’esportazione via terra – su rotaia e su strada – è stata garantita finora dalle cosiddette “solidarity lanes”, che sono state create lo scorso anno dall’Unione europea e che oggi l’Ucraina chiede di rafforzare e ampliare per poter garantire l’esportazione quest’anno di 69 milioni di tonnellate di grano e di semi di girasole. Washington ha sempre sostenuto queste strade della solidarietà e oggi sembra preferire l’alternativa via terra a quella via mare perché la sua tenuta è garantita dagli alleati e non è a rischio perenne della minaccia russa (negoziale, non militare, perché i depositi di grano e i porti sono invece un obiettivo privilegiato dei missili di Putin da quando è uscito dall’accordo sul grano). L’ex comandante della Nato in Europa, l’ammiraglio James Stavridis, ha ricordato un precedente che, dice, potrebbe essere utile ristudiare oggi  – e che lo coinvolge personalmente visto che allora era, con molti capelli in più ricorda lui stesso, a bordo dell’incrociatore americano Valley Forge. Faceva parte dell’operazione Earnest Will, che alla fine degli anni Ottanta aiutò a risolvere il tentativo iraniano di chiudere lo Stretto di Hormuz e tagliare così il 25 per cento del trasporto mondiale di idrocarburi. Allora gli Stati Uniti presero una decisione che Stavridis definisce “straordinaria”, di cambiare la bandiera delle petroliere del Kuwait registrandole come americane in modo da renderle un asset dell’America. Oggi, dice l’ammiraglio, non sarebbe necessaria una cosa tanto radicale, perché la possibilità di scortare le navi cargo ricadrebbe nell’ambito del diritto internazionale che permette di garantire la libertà delle acque internazionali a permette anche la protezione dei trasporti umanitari nelle zone di conflitto. Poiché le Nazioni Unite non potrebbero prendere la guida di questa operazione visto che la Russia porrebbe il veto, dovrebbe essere la Nato a farlo o, dice l’ammiraglio, una coalizione di volenterosi guidata dagli Stati Uniti, perché non tutti i paesi alleati vedono la questione allo stesso modo.

 

L’accordo che Putin ha preso in ostaggio ha una dimensione globale. I numeri, le dipendenze e un piano per scortare le navi


Il blocco dei paesi dell’est. La solidarietà della Polonia non conosce limiti, tranne uno: l’importazione del grano. Varsavia sta minacciando di chiudere il proprio confine con l’Ucraina per la seconda volta se Bruxelles non proroga la misura che aveva preso la prima volta per sventare la minaccia del confine chiuso: restrizioni all’importazione e un sostegno di 100 milioni di euro ai paesi che non vogliono vedere i loro mercati inondati di cereali ucraini che andrebbero a discapito della loro produzione e dei loro agricoltori. L’azione unilaterale della Polonia sarebbe in violazione delle regole del mercato comune europeo, ma Varsavia ha creato una coalizione di paesi che la pensano come lei e che include Romania, Bulgaria, Ungheria e Slovacchia. L’Ungheria è stata ovviamente prontissima a rinnovare la propria minaccia: ogni occasione è buona per Viktor Orbán per mettersi di traverso contro l’Ucraina, ma per la Polonia la questione è diversa. Il ministro dell’Agricoltura polacco, Robert Telus, ha detto a una riunione a Bruxelles che “le nostre decisioni non sono contro nessuno, sono prima di tutto a favore dei nostri contadini”. Varsavia chiede che le restrizioni siano prolungate oltre il 15 settembre, almeno fino alla fine di quest’anno, ma Kyiv dice che un’estensione è “assolutamente inaccettabile e assolutamente non europea”, in particolare ora che Mosca ha messo fine all’accordo, ha reimposto un blocco marittimo e ha fatto ripetuti attacchi sulle coste. Bruxelles non ha preso una posizione ufficiale sulla minaccia della Polonia: preferisce coordinare negoziati a porte chiuse tra i cinque paesi europei che vogliono le restrizioni e l’Ucraina. La Polonia che era già stata inamovibile in primavera a maggior ragione lo è in vista dell’autunno quando sono previste le elezioni: l’arrivo del grano ucraino sarebbe un danno per gli agricoltori che rappresentano un elettorato rilevante.
  

Il pericolo Konfederacja. Non è un mero calcolo elettorale, o meglio, non solo. Al terzo posto nei sondaggi polacchi, a debita distanza dai principali contendenti, si è affacciato un partito che si chiama Konfederacja, il nome completo è Confederazione libertà e indipendenza. E’ un partito giovane, fondato nel 2019, di estrema destra  e rappresenta un’amenità nella politica polacca con le sue posizioni antiucraine e filorusse. La sua campagna elettorale si basa soprattutto su una violenta propaganda contro i profughi ucraini che vivono in Polonia, vengono dipinti come nemici, ladri di lavoro nel caso dei pochi uomini, ladre di mariti nel caso delle tante donne. Konfederacja non ha problemi a sfruttare  le proteste degli agricoltori che soffrono la competizione dei prezzi con il grano ucraino. Konfederacja ha così esacerbato il malcontento e attratto qualche elettore tra gli agricoltori, ma né la Polonia né l’Europa né l’Ucraina possono permettersi la crescita di un consenso filorusso in un paese che finora è stato un baluardo dell’atlantismo. Tra gli esperti c’è chi sostiene che uno dei calcoli che ha fatto Putin quando ha deciso di far saltare l’accordo riguardava proprio la Polonia, le sue elezioni e il tentativo di creare delle crepe nella solidarietà europea. Dopotutto, non c’è giorno che passa senza che qualcuno al Cremlino non minacci Varsavia. 


Il mediatore /1. Mentre si cercano soluzioni via mare, via fiume, via rotaia, Recep Tayyip Erdogan è ancora l’uomo che tutti guardano per far rinascere l’accordo. Il presidente turco è stato l’unico ad aver ottenuto un successo negoziale in questo anno inoltrato di guerra, è stato il tessitore della Black Sea Grain Initiative, ed è stato anche l’ultimo leader internazionale ad aver parlato con Putin prima che decidesse, definitivamente, di stroncare il patto. Erdogan sta vivendo un periodo molto fortunato della sua presidenza, parla con tutti, ottiene tutto, anche la fiducia persa dei leader e forse anche quella dei mercati finanziari, ma finora non è riuscito a convincere Putin. Per lui la sicurezza del Mar Nero è anche un questione interna, la Turchia si affaccia sulle sue sponde, e per ridare forza all’accordo ha anche invitato Putin ad Ankara. Non ha perso la determinazione, Erdogan, che a Vilnius faceva battute con i giornalisti e si godeva il summit in cui era diventato l’uomo del momento. Ma a Putin è quel momento che proprio non è andato giù.
 

L’est europeo non vuole i suoi mercati inondati dai cereali ucraini e chiede protezione all’Ue. Gli intrecci nazionali 

 

Il mediatore /2. António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, continua a chiedere alla Russia di rientrare nell’accordo: “Con la fine della Black Sea Grain Initiative, i più vulnerabili pagheranno il prezzo più alto, ha detto. Russia e Ucraina sono garanti della sicurezza alimentare globale rappresentando il 30 per cento dell’esportazione di grano e orzo, un quinto di tutto il mais e più della metà delle esportazioni di olio di semi di girasole. Secondo una statistica dell’Onu, i paesi che più dipendono dal grano ucraino e che quindi pagheranno questo prezzo alto sono in particolare il Pakistan (che dipende per il 74 per cento), il Libano (dipendente al 59 per cento) e la Libia (49 per cento), che sono paesi che stanno già patendo una crisi politica oltre che finanziaria. Secondo il Fondo monetario internazionale, il prezzo del grano può salire fino al 15 per cento.

 

Odessa è il simbolo della guerra del grano, le sue strade colorate coperte di detriti sono l’avvertimento della capacità di Putin di modificare la sua strategia a seconda delle stagioni, degli obiettivi, dei suoi ostaggi. I porti distrutti, i silos devastati. Oggi colpisce la fame come a ottobre aveva iniziato a colpire la luce, il calore, bombardando la rete elettrica dell’Ucraina. Colpisce e distrugge quello che non può avere e più lo colpisce, meno lo avrà. Il sindaco della città, Gennadi Trukhanov, è un politico dal passato inquieto, è stato anche filorusso, e oggi in ucraino dice che Mosca non vincerà. Odessa in questi giorni d’estate sembra ed è il centro di tutto, con le sue acque minate e inaccessibili che rimangono  il ricordo sfocato di una meta vacanziera. Odessa è un crocevia dalle albe strabilianti, talmente strabilianti da aver ispirato le note di una canzone italianissima, “O sole mio”. Le cui parole sono sì dedicate al sole di Napoli, ma le sue note sono nate guardando il sole di Odessa che sorge, su quel Mar Nero che Putin vuole rendere inaccessibile. 
 

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