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Che ne sarà dei Paesi Bassi senza il pragmatico Rutte
Il “nuovo” Pieter Omtzigt (ben noto a Draghi) e l’asse con Timmermans. Cronache elettorali da un paese trasformato che non vive senza compromessi
Alla prima riunione del partito olandese Nuovo contratto sociale la settimana scorsa, gli ottocento presenti avevano al collo un badge con un ritratto di Pieter Omtzigt. Quando il loro leader è salito sul palco di un ex deposito di carrozze ad Amersfoort – appena nominata città europea dell’anno dagli urbanisti di Londra – una luce bianca si è accesa illuminandolo dall’alto per quaranta minuti interrotti da applausi continui. E’ grazie all’oratoria e al carisma di questo politico di quarantanove anni soprannominato “il pit bull” che un partito nato tre mesi fa con la propria essenza nel nome – il nuovo contratto sociale, appunto – è in cima ai sondaggi in vista delle elezioni olandesi che si terranno il 22 novembre, un mercoledì come vuole la tradizione per salvaguardare l’affluenza. Parlamentare indipendente, studi a Londra, Roma e Firenze, ex esponente dei cristiano-democratici del Cda, ex ministro del governo dell’attuale premier dimissionario Mark Rutte, quasi sconosciuto in Europa, ma popolarissimo in patria, Omtzigt si presenta come un moralizzatore della politica che rifiuta compromessi e inciuci, ma anche come un vigoroso difensore della democrazia e dello stato di diritto. La prima cosa che fece dopo aver lanciato il suo partito ad agosto fu escludere una coalizione con i due partiti dell’estrema destra, il Partito per la libertà di Geert Wilders e il Forum per la democrazia di Thierry Baudet. Nuovo contratto sociale lavorerà solo con chi rispetta “i princìpi fondamentali dello stato di diritto”, disse Omtzigt che mischia un istinto euroscettico con una prestante retorica anti sistema e anti establishment ma si vuole iscrivere nella tradizione moderata dei Paesi Bassi. Il pit bull vuole portare un cambiamento radicale nel paese che vada verso il centro, dice di voler “realizzare i nostri ideali e non cercare il potere per il potere” e a oggi non si sa nemmeno se voglia davvero, nel caso, fare il primo ministro. Questa immagine di purissimo è quel che sta stravolgendo la campagna elettorale olandese e pazienza se poi il compromesso è inevitabile per tutti in un paese in cui in Parlamento oggi siedono diciassette partiti.
Quella volta con Draghi. Se per molti di noi Pieter Omtzigt è mezzo sconosciuto, non lo è per Mario Draghi. Lo incrociò in un’audizione davanti al Parlamento olandese quando era presidente della Bce, nel maggio del 2017. Per dieci minuti Omtzigt fece domande contestando le basi legali del QE (che la Corte di giustizia dell’Ue aveva appena approvato) ed evocando il ruolo della Bce nella ristrutturazione del debito di un paese in default (sottinteso l’Italia). Alla fine Draghi – persino Draghi – sbottò: “Volete farmi dire cosa faremmo nel caso in cui alcune ipotesi irrealistiche si producessero? Non faccio congetture su cose che non hanno probabilità di accadere. Punto”. Ma per Omtzigt e i suoi non era abbastanza, e iniziarono ad accusare Draghi di voler far pagare il conto ai contribuenti olandesi. “Finora i contribuenti non hanno pagato nessun conto”, replicò Draghi: “Finora quello che vedo come reale è che la nostra politica monetaria ha sostenuto la ripresa della zona euro e ha creato quattro milioni e mezzo di posti di lavoro che non c’erano prima. Questa è la realtà. Il resto è speculazione”.
Accordi e progetti. Omtzigt punta a un accordo elettorale e di governo con l’eurocrate più eurocrate che c’è, quel Frans Timmermans che ha lasciato la vicepresidenza della Commissione europea per tornare a casa e governare il proprio paese. A un dibattito conviviale che i due hanno organizzato su YouTube dopo averlo deciso davanti a un caffè – con parecchio scorno dei media tradizionali e del loro format classico, ansiogeno e frettoloso – si sono cercati e corteggiati pur essendo nel merito molto distanti e si sono guardati sorpresi, forse fingendo, dicendosi: andiamo d’accordo su tantissime cose! In particolare una: escludere dal prossimo esecutivo il Vvd, il partito liberalconservatore che è stato di Mark Rutte e che ha gestito i Paesi Bassi per tredici anni. Omtzigt è di fatto un ex, nonché il pitbull che s’intestardì sullo scandalo sugli assegni familiari che tirò giù il governo Rutte nel 2021; Timmermans è un oppositore: l’alchimia perfetta.
Omtzigt prende applausi e attenzioni internazionali. I suoi alleati e quella volta che fece sbottare persino Draghi
L’effetto Omtzigt. I giornali raccontano che il dialogo tra Omtzigt e Timmermans è aperto da tempo, ma agli elettori è bene non far sapere che questa intesa esiste davvero. La complicità è dettata dall’andamento dei sondaggi che come sempre nei Paesi Bassi presentano una situazione che più frammentata di così non si potrebbe – del resto è da un secolo che il paese è governato da coalizioni che ci mettono mesi a essere costruite. Nella media delle rilevazioni, il Nuovo contratto sociale e il Vvd, oggi guidato da Dilan Yesilgöz-Zegerius, ministra della Giustizia che ha preso la leadership del partito dopo le dimissioni di Rutte, sono appaiati con percentuali attorno al 18 per cento, ma il Nuovo contratto sociale è sempre un soffio avanti. L’alleanza elettorale tra i Verdi e il Partito laburista guidata da Timmermans, padrino di questa convergenza, segue a circa il 16 per cento. Quel che è cambiato rispetto alle scorse elezioni – i sondaggisti lo chiamano “effetto Omtzigt” – è che i liberali del D66 e i conservatori del Cda potrebbero perdere due terzi dei loro seggi attuali: le loro percentuali di consenso si aggirano attorno al 5 per cento. Anche il Movimento civico dei contadini, il Bbb, che nel marzo scorso aveva fatto un exploit al voto provinciale per il Senato e che con i suoi trattori contro qualsiasi cosa sapesse di ecologico aveva allertato tutta l’Europa ora è attorno al 6 per cento, ben distante dal 22 per cento di sei mesi fa. Potrebbe però essere decisivo per trovare una maggioranza in Parlamento. Fra il trio in testa e gli altri partiti collassati c’è il solito Wilders, il nazionalista escluso dai governi precedenti ma che spera che il cordone sanitario che gli è stato cucito addosso si sfilacci.
Sui temi elettorali. L’alleanza di sinistra spinge per alzare il salario minimo, invoca una tassazione più aspra sulle imprese e una transizione ecologica che finora è stata descritta come ferrea – non potrebbe essere altrimenti essendo Timmermans il Mister Green d’Europa – ma che ora lo è molto meno: l’ex vicepresidente della Commissione europea ha lasciato intendere di essere pronto a rinunciare al 2030 come data entro la quale dimezzare le emissioni di nitrati – è questa misura che nel corso dell’ultimo anno ha alimentato la crescita del Movimento degli agricoltori. Nella grande manifestazione contro il cambiamento climatico del fine settimana, la più grande mai organizzata nei Paesi Bassi secondo gli organizzatori, Timmermans ha sfilato accanto alla beniamina degli ambientalisti Greta Thunberg. Il Nuovo contratto sociale si fa invece promotore di riforme economiche liberali, è più falco alle frontiere e apre all’energia nucleare. La visione condivisa davanti al caffè riguarda la sicurezza sociale, la lotta ai populismi, soprattutto la dimostrazione di ciò che dovrebbe essere la nuova cultura amministrativa: non il sovranismo di Wilders, non la rabbiosa dialettica di Yesilgöz né le caotiche istanze dei contadini-cittadini. Secondo una ricerca fatta dall’istituto Ad Nieuws, quel che tiene gli olandesi svegli la notte è: il potere d’acquisto, l’immigrazione e il sistema sanitario. All’inizio dell’anno, l’inflazione dei prodotti alimentari era quasi al 20 per cento, ora è attorno al 10 per cento, in calo ma sempre preoccupante. “Per mantenere il potere d’acquisto e finanziare il sistema sanitario, molti elettori vedono i tagli all’immigrazione come una soluzione valida per liberare fondi pubblici”, dice lo studio. Oltre il 40 per cento degli elettori intervistati crede che siano stati spesi troppi soldi per i richiedenti asilo, oltre ad altri costi finanziari associati all’immigrazione. La carenza di alloggi e la transizione energetica sono poi i temi citati tra quelli che guideranno il voto del 22 novembre.
Gli istinti euroscettici, le speranze dei Contadini e di Wilders, il caffè dell’accordo e le preoccupazioni del sud
L’eredità di Rutte. Mark Rutte è stato un leader molto detestato tra i paesi del Mediterraneo. Falco dell’austerità, signor “no”, inflessibile olandese, con lui premier ci sono stati ministri delle Finanze che hanno accusato il sud indebitato di spendere tutto “in donne e alcol” (il socialista Jeroen Dijsselbloem) o hanno rifiutato ogni forma di solidarietà finanziaria nei primi giorni del Covid (il cristiano-democratico Wopke Hoekstra). Rutte è sempre riuscito a piazzare degli olandesi nei posti chiave delle istituzioni dell’Ue, come lo stesso Timmermans, senza dimenticare gli olandesi nell’ombra – i segretari generali, i capi gabinetto, gli alti funzionari – che tirano le fila della macchina politica e burocratica a Bruxelles. Se c’è un’accusa che non può essere rivolta a Rutte è quella di essere un euroscettico. A lui l’Ue è sempre interessata: la considera strategica per gli interessi dei Paesi Bassi, gli piaceva essere al centro delle trattative, ha saputo approfittare della Brexit per rafforzare l’influenza del suo paese. E ha sempre giocato il gioco europeo, quello in cui si possono fare grandi battaglie preannunciando un potenziale veto, ma poi si scende sempre a compromessi pragmatici. E se c’è una cosa che Rutte incarna è il pragmatismo. Aveva lanciato la Lega Anseatica, prototipo del gruppo dei paesi frugali, tutta concentrata sulla riduzione del debito, l’austerità sul deficit, il bail-in bancario e la libera circolazione delle merci e dei capitali del mercato interno. Ma poi ha anche accettato gli Eurobond con il primo e più grande piano di debito comune mai realizzato dall’Ue: i 750 miliardi di NextGenerationEu per rilanciare l’economia dopo il Covid e salvare l’Italia da un potenziale default. E lo ha fatto in cambio di un gesto meramente simbolico, cioè l’approvazione di un freno di emergenza per avere la possibilità teorica di bloccare i fondi ai paesi che non fanno le riforme promesse. Lui sapeva che il suo governo non l’avrebbe mai azionato, quel freno di emergenza, ma gli serviva quella piccola concessione, da poter vendere al suo Parlamento come un successo dello spirito calvinista olandese in Europa. La grande arte di Rutte è stata anche quella di sperimentare alleanze politicamente improbabili. Come quella con il premier socialista spagnolo, Pedro Sánchez, sulle regole fiscali, che alla fine ha portato a un documento ispano-olandese che è servito da base per la riforma del Patto di stabilità e crescita. O come quella con Giorgia Meloni, che ha portato per due volte Rutte a Tunisi per far firmare il memorandum di intesa sui migranti fra l’Ue e la Tunisia.
Il pragmatismo europeista è ciò che rischia di mancare a tutti i suoi potenziali successori. La liberale Yesilgöz-Zegerius è molto più rigida di Rutte sui temi europei. Appena arrivata alla leadership del Vvd, la cui base flirta con l’euroscetticismo, non può permettersi slanci europeisti. Timmermans è un politico umorale, capace di grandi slanci, ma con un approccio rigido e ideologico quando si tratta di negoziare con i suoi pari. Omtzigt non è in grado di fare il gioco di squadra che serve all’Ue ed è molto più euroscettico del premier uscente. I nuovi Paesi Bassi saranno molto meno prevedibili per i partner europei, e chissà che tra un anno o due, pure i paesi indebitati che spendono tutto “in soldi e donne” non finiscano per rimpiangerlo, Rutte.
(hanno collaborato David Carretta e Francesco Gottardi)