(Dis)elogio della follia: le norme europee sul bail-in e la loro inconcepibile schizofrenia
Come le norme europee sul bail-in, e l'approccio regolamentare delle autorità di supervisione bancaria favoriscono la finanza internazionale e scapito dei contribuenti. Lo Stato abdica al suo ruolo di garante del benessere collettivo in virtù di un'astratta ideologia autocratico-finanziaria.
Le proposte avanzate relative alla risoluzione del problema delle sofferenze bancarie sono tutte – nessuna esclusa – prive di quel valore organico che solo può coagulare il necessario consenso politico. E’ indubbio che una certa sensibilità sul tema sia venuta a poco a poco sviluppandosi, e abbia prodotto provvedimenti che sebbene di incontestabile valore giuridico, nella sostanza non siano poi stati utilizzati dagli istituti – sui quali, è bene ricordarlo, ricade la fetta maggiore di responsabilità dell’attuale dissesto.
Non si discute l’ispirazione riformista dell’esecutivo – soprattutto del precedente – il quale, come dicevamo, ha mostrato buone intenzioni. Il problema rimane forse di una natura tale da sfuggire al controllo normativo a livello di singolo Stato. Non si può pensare ad altro; a meno di non voler fabbricare, nei confronti della nostra classe politica, accuse di remissività e cessione di sovranità su questioni fondamentali relative al benessere economico collettivo.
Ma tentiamo di tracciare uno schema tipico di come una banca ammorbata da un insostenibile carico di crediti deteriorati possa di fatto agire. La cessione ad operatori terzi (specializzati) costituisce l’opzione privilegiata delle autorità regolamentari europee. La più rapida, ma la più dolorosa. Un istituto di credito il quale fosse giunto nella deprecabile situazione di vedersi costretto a cedere (a sconto) i suoi attivi (prestiti ormai inesigibili) a un fondo speculativo – il quale spera naturalmente di trarne profitto (e non poco) –; siamo veramente certi che sia tutto normale? Proviamo per un momento a ragionare: la banca nella sua attività di raccolta del risparmio, sotto forma di depositi, ha concesso credito a imprese e individui evidentemente privi di affidabilità. La crisi stessa ha eroso il merito creditizio di questi soggetti – non si discute qui l’incidenza di fattori esogeni, che pure hanno una loro rilevanza. Il problema è quella concentrazione tale di prestiti deteriorati, in alcuni istituti, da obbligare nei fatti la banca a cederne una quota significativa sul mercato: pena una progressiva erosione del patrimonio, conseguenza di perdite accumulate e rettifiche di valore. All’essenza rimane un problema di mala gestio, di assenza di diversificazione nel portafoglio crediti, di pratiche istruttorie spesso caratterizzate da scarsa diligenza e da logiche corporative quando non squisitamente clientelari.
La banca è dunque costretta a cedere per fare pulizia. Vende a forte sconto, e si trova nella necessità di dover ricapitalizzare. Come sovente accadde non si trovano investitori privati disposti a rischiare; e se l’istituto ha un’importanza sistemica o rilevanza territoriale notevole, lo Stato si vede costretto a intervenire. Qui entrano in gioco le norme europee le quali impongono il bail-in (salvataggio interno), che in caso di “risoluzione” può giungere sino a toccare i depositi oltre i centomila euro per assorbire le perdite. Un vero elogio alla follia, e non nel senso di Erasmo.
L’effetto è sostanzialmente pro-ciclico: la situazione già difficile viene resa impossibile da norme pregiudizievoli. A pagare, senza che vi sia alcuna loro responsabilità sono i contribuenti. A guadagnarci sono quei fondi che a monte hanno acquistato a prezzi per dir così stracciati, con la complicità di una regolamentazione che veniva intensificando le sue pressioni, impedendo d’altra parte che il governo potesse intervenire in una maniera tale da consentirgli un’uscita proficua in futuro. Con ciò intendendo la costituzione di una bad bank a gestione pubblica, centralizzata, nella quale venisse a confluire una significativa massa di esposizioni deteriorate, e il cui valore fosse massimizzato nel tempo. In questo senso, e con ottimi risultati per i loro contribuenti, hanno agito: Tarp, Nama, Sareb, eccetera. Programmi e Amc (asset management companies) pubbliche di altri paesi. Non in Italia! Le norme europee non lo consentivano: ancorché consentivano invece i salvataggi degli istituti regionali tedeschi ricolmi di titoli greci e portoghesi in default. Una situazione che non può non evocare il principe Myskin, l’Idiota di Dostoyevsky, nella sua meravigliosa bontà e ingenuità, che si confronta con il Grande inquisitore dei Fratelli Karamazov. Con quale esito?
E in effetti tutto ciò ha costituito un classico esempio di privatizzazione dei guadagni e socializzazione delle perdite. I soli a trarne vantaggio sono i fondi, allo Stato sovrano viene concesso di intervenire solo su ciò che ormai è irrimediabilmente tossico. Una soluzione che pesa sui pubblici bilanci senza possibilità alcuna di profitti futuri. Un’assurda inversione dell’ordine di priorità, dove l’interesse privato viene prima di quello collettivo.
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