Manifesto per la crescita: siamo ancora in tempo!
Linee programmatiche e suggerimenti di policy per un rilancio di crescita e occupazione. Qualsiasi politica economica del prossimo esecutivo non può prescindere da un programma organico di privatizzazioni, di riduzione del peso della burocrazia, di delegificazione e deregolamentazione, nonché di stabilizzazione del debito pubblico.
È sinceramente increscioso osservare come lo straordinario potenziale creativo, imprenditoriale e storico-culturale del nostro Paese si stia progressivamente assottigliando fino a rendersi del tutto evanescente. Da un punto di vista squisitamente economico la virtuosa attitudine al risparmio privato degli Italiani (accumulatosi a partire dagli anni Sessante attraverso periodi di rapida crescita) rende questo declino percepibile (non v’è dubbio), ma in una maniera forse attenuata da quella che può a tutti gli effetti essere definita come una “riserva di ricchezza”. Ciò che è maggiormente insidioso è invece l’incremento patologico delle disuguaglianze: in modo particolare a livello generazionale. Questa riserva – principalmente tesaurizzata in beni immobili e in piccole imprese spesso poco competitive – è purtroppo destinata a esaurirsi nel giro di meno di un decennio. A quel punto gli effetti di quella che pare una inarrestabile perdita di competitività del nostro sistema produttivo (congiunta di riflesso a deprimenti livelli occupazionali e a salari sempre più stagnanti), inizierà a produrre i suoi effetti sociali.
Ciò che preoccupa in misura rilevante è invece l’incremento patologico delle disuguaglianze: in modo singolare a livello generazionale. Questa riserva (principalmente tesaurizzata in beni immobiliari e in piccole imprese spesso poco competitive) è purtroppo destinata a esaurirsi nel giro di meno di un decennio. A quel punto gli effetti di quella che pare essere una inarrestabile perdita di competitività del nostro sistema produttivo (congiunta di riflesso a deprimenti livelli occupazionali e a salari sempre più stagnanti), inizierà a produrre i suoi devastanti effetti sociali.
Fermare questa discesa verso gli inferi si può. È un dovere morale delle nuove generazioni al pari di quelle vecchie. Una logica conflittuale innestata sul tronco di un vacuo giovanilismo o di un’ancor più dozzinale “teoria generale della Rottamazione” elevata a sistema di verità assoluta, si è mostrata essere di scarsa utilità, producendo non di rado risultati imbarazzanti sul piano dell’esperienza politica, quando non disdicevoli su quello morale. “La porta d’ingresso che conduce al declino economico e all’impoverimento è ampia e sontuosa, quanto n’è angusto e intricato l’uscirvi”. Noi ci stiamo dirigendo verso quella porta: ma siamo ancora in tempo per ritrovare la forza interiore che ci aiuti a mutare percorso. Che fare allora? Come riacquistare il controllo sul nostro avvenire nazionale?
Ebbene, la risposta, per una parte, risiede nel riprogrammare l’impianto di politica fiscale orientandola maggiormente verso la crescita del prodotto interno lordo. Denominatore del fatidico rapporto in relazione al debito pubblico. Può apparire come un’ovvietà ormai metafisica - concediamolo pure. Ma sorprenderà osservare come, terminata l’ultima esperienza di governo del centrodestra - segnata dall’aberrante evoluzione della crisi del debito sovrano –, le politiche economiche messe in campo dai governi di centrosinistra si siano irrimediabilmente caratterizzate per un inane sforzo di rilancio dei consumi (lato della domanda). Ripresa che non è mai giunta – almeno a livello strutturale - in quanto a mancare erano e sono le basi di una stabilità occupazionale che può derivare solo da un incremento significativo degli investimenti da parte del ceto produttivo.
Le raccomandazioni della Commissione europea indicano – nel solco di un riscoperto neo-keynesismo – nel rilancio degli investimenti pubblici la strada verso una ripresa che non sia solo di natura ciclica. Purtroppo la condizione di elevato indebitamento pubblico del Paese rende difficile - al netto delle concessioni di flessibilità in sede europea – strutturare una proposta d’intervento pubblico a forte impatto occupazionale; e va inoltre notato che, ove presenti, quegli incentivi non sono stati utilizzati.
Occorre dunque ripartire dal necessario percorso di riforme strutturali per il vitale rilancio di competitività e produttività; congiunto a piani mirati di deregolamentazione di alcuni settori produttivi, e a programmi di semplificazione legislativa o addirittura di delegificazione tout-court. La nostra attenzione volge verso la formulazione di un piano organico di privatizzazioni e dismissioni pubbliche, piuttosto che a una maggiore intrusione dello Stato e della burocrazia in settori che non presentino esternalità o evidenti “fallimenti di mercato”.
Va riscoperto – soprattutto nei giovani – il valore dell’iniziativa economica e del rischio imprenditoriale. Nella classifica doing business della Banca mondiale siamo al cinquantesimo posto su 190 nazioni, nonostante quegli imprenditori (autentici eroi) che combattono battaglie in completa solitudine. Agire sul sistema fiscale e su quel groviglio di adempimenti che oggigiorno rende estremamente difficoltoso (e costoso) fare impresa, è quanto mai essenziale. Ridurre il peso della burocrazia, intensificare la lotta alla corruzione, migliorare il sistema di giustizia civile, rappresentano ulteriori linee programmatiche e di policy sulle quali concentrare gli sforzi di riforma.
Infine una parola sull’Europa. L’Italia è parte integrante del grande Concerto europeo, così come l’Euro è irreversibile. Ciò detto, la sovranità nazionale esiste e l’indipendenza, i costumi, e le tradizioni storiche degli Stati vanno rispettate. Il rischio di un integralismo di stampo europeista va contenuto nella consapevolezza che più Europa deve necessariamente significare maggiore crescita economica e maggiori libertà individuali; ma soprattutto una più profonda coscienza etica e storica del concetto di Europa e del suo ruolo globale.
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