L'Emergenza delle Venete e quella sorda intransigenza
Le trattative sulla ricapitalizzazione preventiva, arenatesi sullo scoglio di una assurda richiesta da parte della Dg Comp, lasciano evincere una disposizione di spirito profondamente avversa al salvataggio dei due istituti veneti e alla loro continuità. Che cosa deve fare il governo in risposta a questa sorda opposizione.
Alla luce delle recenti indiscrezioni, rese pubbliche a margine dell’incontro a Bruxelles tra i vertici degli istituti veneti, Commissione europea e Tesoro, una cosa appare ormai quasi certa: il piano di ricapitalizzazione precauzionale, che prevede l’intervento dello Stato nel capitale, è destinato fallire.
La richiesta di reperire un miliardo aggiuntivo di capitali privati (riducendo di eguale importo il coinvolgimento pubblico), nella sua assurda inflessibilità, lascia cadere il velo dietro al quale i vertici della Direzione generale per la concorrenza dissimulavano, ormai da tempo, i loro più intimi propositi in relazione alle due banche. E cioè che la loro sorte è inevitabilmente la Risoluzione: con preventivo bail-in (salvataggio interno) di almeno l’otto per cento delle passività complessive. In tale ipotesi l’aiuto dello Stato – secondo quanto previsto dalla direttiva – verrebbe necessariamente a limitarsi a un massimo del 5% delle passività totali, forzando per conseguenza (si presume) una condivisione delle perdite sino addirittura ai conti correnti bancari superiori ai cento mila euro.
Che cosa può fare il governo dinanzi a un esplicito diniego da parte della Commissione, o a un suo eventuale rifiuto a venire a patti? Potrebbe per esempio procedere in maniera unilaterale alla ricapitalizzazione preventiva, una volta appurato che non esistano capitali privati disposti a sacrificarsi. È questo un punto la cui comprensione è di importanza capitale. La Commissione insiste nell’affermare che le risorse dei contribuenti non possono essere utilizzate per la copertura di perdite già realizzate, o ragionevolmente prevedibili. Per conseguenza quei capitali privati verrebbero a essere immessi con la certezza di andar perduti. Ipotesi destituita di qualsiasi coerenza logica. Quei soldi non si troveranno. Il governo deve allora ignorare l’insensata presa di posizione della Commissione e procedere mettendo in sicurezza i correntisti (aziende e persone fisiche).
A quel punto si aprirebbe una indagine da parte dell’esecutivo Europeo, che in caso di riscontro negativo (come si può facilmente prevedere), condurrebbe a una “Procedura di recupero”, la quale si esplicherebbe, nel concreto, nell’effettiva richiesta di restituzione – a carico delle banche - delle somme più interessi. L’Italia potrebbe in quel caso appellarsi alla Corte di giustizia Europea.
L’irrigidimento di Bruxelles in una posizione di totale intransigenza rischia di tramutarsi (se non lo ha già fatto) in una questione di natura squisitamente politica, alterando in maniera significativa i già delicati equilibri elettorali. E non ha valore ricordare che la Commissione e i suoi membri agiscono in “piena indipendenza”, come stabilito dai Trattati (libertà che peraltro nessuno intende negare). Senonché va tenuto conto – specie in questa situazione - che le loro decisioni producono conseguenze tangibili sul piano sociale, e che l’esercizio di quegli ampi poteri non può meccanicamente circonfondersi di un ottuso empirismo indifferente a qualsiasi altro aspetto della vita dei popoli che non sia un numero privo di senso.
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