La Grande inquisitrice d'Europa
Rifiutare il paradigma atlantico, per un'Europa egemonizzata da una Germania in piena fase neocolonialista, è un assurdo storico. L'unica via è mutare l'impianto istituzionale della «contrazione espansiva», del rigore insensato, e della svalutazione interna, per un'Europa della vera «convergenza», della solidarietà e della crescita.
Le parole di un uomo di Stato dovrebbero sempre essere misurate e prudenti. Altrimenti non vi sarebbe differenza alcuna tra colui che assurge alla guida di una nazione, e il folle e rabbioso mendicante di Dostoevskij che impreca, digrignando i denti, contro le miserie dell’umanità (quel sottosuolo metaforico) pur essendone egli stesso la più sublime espressione.
Ciò detto, non possiamo limitarci a inorridire innanzi alle istanze di un sottosuolo politico che, questa volta, per ironia della sorte, è rappresentato dalla massima potenza globale. Non possiamo fingere una ipocrita coscienza di unità politica Europea, ben sapendo che le ragioni del fallimento (per ora) dell’euro sono imputabili in via esclusiva alle nostre divisioni e ai nostri egoismi. E in modo prevalente ad un unico gioioso egoismo: quello della Germania.
L’incedere teutonico in tema di politiche economiche – memore di antiche suggestioni Bismarckiane, e della sua politica di potenza (quella vera: con gli eserciti) – s’è provato essere inarrestabile, e le classi dirigenti di quel Paese sono oggi in piena sindrome negazionista, irredimibili nella loro ideologia di rigore neoliberista.
Ma quali sono le ragioni delle ire americane nei confronti della Germania? Trump accusa Berlino di condurre una politica economica «distruttiva», essenzialmente attraverso il mantenimento di un tasso di cambio reale «artificialmente» sottovalutato (per la Germania). Che cosa significa?
L’immenso «avanzo commerciale» tedesco (la differenza fra esportazioni e importazioni) imporrebbe degli aggiustamenti nel tasso di cambio, cosa che la Germania non può fare avendo ceduto la propria sovranità monetaria alla Bce.
Senonché è pur vero che i salari tedeschi si sono mantenuti su livelli storicamente molto bassi (pur avendo margini per crescere), i quali non incentivano la domanda aggregata, e di riflesso le aspettative di inflazione. Congiuntamente, la Germania persevera in una politica del rigore fiscale che non stimola una crescita sana dell’economia: e difatti il Paese, nonostante la piena occupazione, cresce a ritmi per così dire anemici – in media dello 0,8% all’anno, negli ultimi cinque anni. Un livello considerato soddisfacente solo in relazione alle performance disastrose degli altri paesi aderenti alla moneta unica.
Ma quali sono gli effetti prodotti da tali politiche, in primo luogo sui partner dell’Eurozona? Dopo le crisi del debito in Spagna e Irlanda, generate in prevalenza da un afflusso eccessivo di capitali tedeschi - i quali, a loro volta, hanno posto in essere le condizioni per l’esplosione di una bolla immobiliare; e conseguente impossibilità per quei governi di finanziare i loro disavanzi pubblici attraverso emissioni obbligazionarie, vendute in misura significativa a banche estere (tedesche) – l’Europa delle «convergenze» è venuta progressivamente a mutare nell’Europa delle «divergenze».
Quei capitali (germanici) erano serviti a finanziare progetti di sviluppo immobiliare in Spagna – non di rado mai ultimati -, e contribuirono in maniera evidente a un significativo incremento della leva finanziaria (indebitamento) delle famiglie. Quest’ondata di liquidità - mai regolamentata dai governi (l’ideologia neoliberista predominante non l’avrebbe consentito) - permise di sostenere un elevato livello di consumi, che si orientava sovente verso prodotti tedeschi. Conseguenza: i deficit commerciali di questi paesi raggiunsero livelli insostenibili, incidendo considerevolmente sul livello di occupazione; il quale, a sua volta, contribuì a deprimere e i consumi e i redditi, trascinandoli in una depressione che non si è ancora arrestata.
Per converso la Germania ha registrato un incremento straordinario nella bilancia dei pagamenti: oggi pari all’8% del Pil (un dato mostruoso). Ma c’è di più: con i proventi delle esportazioni le sue banche non erogano più credito ai paesi in difficoltà, incrementando i livelli interni di risparmio privato e, di riflesso, contenendo domanda aggregata e inflazione. Livelli pressoché nulli di quest’ultima rendono sempre più ardua la sostenibilità del debito per i paesi del sud dell’Europa, tra cui l’Italia.
La Germania – quella Prussiana di Sedan, della proclamazione dell’Impero tedesco nella sala degli specchi a Versailles (Macron dovrebbe tenerlo bene a mente) – si è imposta nel giro di quindici anni quale grande creditore d’Europa, sentendosi investita di quell’autorità che promana dalla sua egemonia economica, ad atteggiarsi a grande inquisitore d’Europa. Imponendo agli altri paesi del continente una linea di rigore economico e riforme strutturali follemente pro-cicliche (che aumentavano l’intensità della crisi piuttosto che controbilanciarla), e non solo! Spesso in piena distonia con gli ideali di sviluppo sociale e umano di quelle comunità. Si veda quanto accaduto in Grecia, ove il programma di aiuti impone un avanzo primario del 3,5%: è sostenibile, domandiamoci, una politica di questo tipo, in un paese con una disoccupazione di oltre il 24% - quella giovanile intorno al cinquanta - e uno spaventevole tasso di povertà infantile?
In Italia, grazie alla forza delle nostre esportazioni, siamo riusciti a contenere questo squilibrio esterno; ma il nostro debito rimane indefinibilmente elevato, e la crescita irrimediabilmente depressa. Ci viene suggerito rigore di bilancio e svalutazione interna (compressioni salariali), per aumentare la competitività attraverso le riforme strutturali. Altri paesi (Grecia e Portogallo), hanno seguito questo sentiero ingannevole e sono giunti a un passo dal baratro e alla completa rottura del contratto sociale. Privi di sovranità economica, quasi propaggini di un impero astratto che propugna un’ideologia neocolonialista.
La Germania pretende rigore nei conti, e rifiuta qualsiasi meccanismo di tipo federale di solidarietà tra i paesi dell’Eurozona. Impone la compressione nei salari, l’indebolimento dei diritti dei lavoratori, la «contrazione espansiva», ma sconfessa qualsivoglia idea di welfare europeo. Pretende ora il (giusto) coinvolgimento dei privati nelle crisi bancarie (bail-in) – dopo aver salvato le sue dagli eccessi della finanza allegra e dei prestiti irresponsabili -, e fa viso d’arme sugli Eurobond, ESBies e altre ipotesi, seppur lievissime, di mutualizzazione dei debiti. Pone condizioni dilatorie, e non lascia che attecchisca la possibilità di una bad bank europea per le sofferenze del sistema bancario. È questo il volto turpe della Germania che dice di volere più Europa, e si oppone a qualsiasi modifica dei Trattati.
Gli Stati Uniti, e il loro singolare Presidente, evidentemente non hanno timori di alcun tipo a far rilevare certi aspetti. Ma una considerazione di natura storica va fatta: dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e un immane sacrificio di vite, gli americani lanciarono una serie di programmi di aiuti ai paesi dell’Europa occidentale sprofondati sotto il peso delle macerie e della miseria (morale oltre che materiale). Se noi Italiani siamo oggi parte dell’Occidente libero lo dobbiamo in larga misura all’influenza degli Stati Uniti. Non occorre opporre altro a chi propugna un’Europa egemonizzata da una Germania che non ha mai, nella sua storia moderna, mostrato interesse ad assumere un ruolo di vera guida spirituale Europea. Per di più se quell’egemonia si pone in contrasto con i principi di un atlantismo che sarebbe atto di inconcepibile insensatezza abbandonare.
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