Le ragioni della soft-Brexit
L'opposizione possibilista dei "remain", e il filo del cancelliere Hammond
La fragilità della maggioranza conservatrice nella Camera dei Comuni presta il fianco dell’esecutivo britannico al possibilismo del filone “remain” di coloro i quali, come il cancelliere Hammond, parteggiano per un periodo di transizione post-Brexit più lungo (circola l’ipotesi di quattro anni); e per un fronte collaborazionistico con l’Ue, in opposizione ai dogmi della più intransigente ideologia separatista dei “leave”. È indubitabile: il temporaneo deflettere britannico dalle posizioni più ottusamente manichee della Brexit archetipica diffonde una gradevole aria di vittoria a Bruxelles. Un compiaciuto senso di superiorità morale sull’inavveduto transfuga; su quell’antico regno terra del pragmatismo politico. E già, nelle élite, si argomentano – col fervore tipico del profetismo, delle utopie – improbabili teorie di una “relazione speciale” tra la Gran Bretagna e l’Unione europea. Quando tutto questo irritante contrattare sulla sede di talune agenzie comunitarie, sugli impegni finanziari, sui diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito sarà finito, si afferma, troveremo il modo di costruire, sulle macerie di duecento anni di storia Europea – a partire dal Congresso di Vienna –, un’intesa inscalfibile, un impenetrabile asse Londra-Bruxelles; argine estremo alle inquietudini delle “democrazie illiberali” dell’Europa orientale; precettore inflessibile, e dalle intonazioni vagamente paternalistiche, di una Russia sempre più autoritaria.
Ma quali sono i punti critici sui quali viene ad articolarsi la dialettica del processo negoziale giorno dopo giorno, e che terminerà con l’abbandono definitivo della Gran Bretagna dell’Unione europea nel marzo 2019? Il primo tema sensibile è quello dei diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito. La prima apertura della premier britannica in materia è stata accolta con gelido scetticismo, con malcelata irritazione dalla controparte, in quanto ritenuta sostanzialmente insufficiente. Sibillina sui diritti degli europei giunti in Gran Bretagna a partire dal marzo 2017, e durante tutto il periodo di transizione. Per costoro non v’è infatti chiarezza sull’effettiva possibilità o meno di vedersi mai riconosciuto il diritto a un permesso di soggiorno stabile (settled status). Tollerante e più accomodante, invece, verso gli europei giunti prima di quella data, con un’occupazione stabile o comunque autosufficienti sotto il profilo finanziario. Decaduta, o in procinto di decadere, l’assurda pretesa previgente, la quale imponeva la sottoscrizione di un’assicurazione sanitaria privata ai cittadini non britannici. Per costoro pare dunque vi siano in certo modo garanzie concrete di poter rimanere; se non fosse per il nodo critico della giurisdizione in materia di immigrazione. Londra insiste, con singolare veemenza, nel riottenere il controllo per le sue corti in materia; Bruxelles chiede, con non minore vigore, che il tutto passi sotto l’egida della Corte europea di giustizia. Istanze, entrambe singolari, e in parte bizzarre sul piano logico. Chi assicurerebbe ai cittadini europei, con regolare permesso di soggiorno, che il prossimo ministero non muti approccio e tenda verso atteggiamenti discriminatori? E d’altra parte, è concepibile una forma di sovranità giuridica permanente dell’Ue nei confronti di un paese che non vi fa più parte?
Sui temi dell’economia sono opportune alcune considerazioni. In primo luogo, non si è ad oggi riscontrato alcun segnale di panico, o fuga precipitosa di capitali dal mercato britannico. Tutt’altro: le emissioni di obbligazioni, denominate in sterline, da parte del segmento societario (corporate) si attestano da inizio anno a 19 miliardi: quattro volte il valore dello scorso anno. La divergenza in termini di politica monetaria con gli Stati Uniti – con una Fed già in fase restrittiva – ha sinora infatti inciso in maniera favorevole sui livelli dei tassi swap; rendendo conveniente anche per società non britanniche emettere in valuta.
Un secondo aspetto è d’altra parte legato a una sempre maggiore tendenza, evidente in numerosi esponenti politici, a protendere verso le posizioni – considerate a torto “ereticali”, in principio – del filone "realista" del cancelliere Philip Hammond; fautore delle ragioni di una versione “soft” della Brexit, e vicino al mondo imprenditoriale e finanziario. Posizioni sempre più lontane dall’intransigentismo primigenio, e dalle seduzioni ideologiche che avrebbero voluto una totale interruzione dei flussi migratori. Se non è possibile parlare di certezze, si può ragionatamente affermare che le probabilità di una hard-Brexit, o peggio dell’assenza di un accordo con l’Unione europea – in passato evocate dalla premier May – sono oggi del tutto irrisore. Attecchisce sempre più, giorno dopo giorno, ora dopo ora, l’idea che arrivare a un punto di rottura (cliff-edge) delle relazioni non giovi a nessuno; e che un periodo di transizione, il più lungo possibile, costituisca la soluzione ideale a gestire il processo in maniera ordinata. D’altra parte già corrono voci di un piano segreto per un accordo commerciale; tema che la Ue ha, in via ufficiale, perentoriamente subordinato al regolamento della disputa relativa ai 100 miliardi di impegni finanziari in capo a Londra.
Gli “equilibri di potenza” rimangono estremamente fluidi; ma iniziamo a osservare il formarsi di blocchi negoziali che favoriranno un dialogo più agile e concreto.
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