Oltre la Renzinomics
La visione economica invocata dal segretario ha un suo indiscutibile valore. Ma è possibile migliorarne le basi.
Traspare una sottile astuzia strumentale, opportunamente dissimulata, nel non aver compreso (o voluto comprendere) che quel numero: 2,9%, riferito al disavanzo, non sia da intendersi quale parametro fisso e immutabile nel tempo (cinque anni); peraltro del tutto indipendente dal ciclo economico o da fattori geopolitici esterni. Sarebbe impossibile. Ma lasciare che dalle ceneri dell’austerità e della “contrazione espansiva” si sollevi il tema capitale della crescita, è un fatto incontestabilmente positivo. È vero: considerato il profilo potenzialmente dirompente della proposta (dal carattere essenzialmente politico, e non solo economico), era giusto invocare una maggiore chiarezza nei dettagli. Nella struttura, ad esempio, di quella operazione di dismissione degli attivi pubblici congegnata con il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti. Si tratta forse del trasferimento delle partecipazioni statali quotate (Eni, Enav, Leonardo, Poste, Enel) – oggi in capo al Ministero delle Economia – sui bilanci della Cassa? Valore potenziale, in termini di risorse liberate, pari a 13 miliardi, e da destinare a progetti di investimento pubblici (e privati) ad elevato moltiplicatore. O forse ancora, si sta pensando di porre mano a ulteriori piani di cartolarizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato? Qual è l’entità dell’abbattimento del debito conseguente a queste operazioni di finanza? È essa sufficiente a porre la dinamica del debito su di una curva discendente? Insomma, sono numeri che occorre conoscere e valutare. E sinora il dibattito è impostato su basi squisitamente ideologiche.
Ma veniamo al paventato veto sull’inserimento nei trattati del Fiscal compact. Quest’ultimo presenta natura giuridica di trattato intergovernativo, esterno alla cornice fondamentale dei trattati istitutivi (TUE e TFUE). Firmato nel marzo 2012, e recepito nel nostro ordinamento nazionale attraverso una norma di rango costituzionale (modifica dell’art 81), esso è entrato definitivamente in vigore nel gennaio del 2013. Un veto Italiano (e occorrerebbe definire in quale sede: considerato che non v’è ancora un iter formale di inserimento nei trattati), varrebbe a segnare una chiara quanto legittima volontà politica di revisione di quei parametri di convergenza delle politiche economiche. E non è detto che saremmo isolati in Europa: la grande maggioranza dei paesi dell’Unione si trova oggi nel “braccio correttivo” del Patto di stabilità (Psc) per squilibri macroeconomici.
Senonché, esiste un ulteriore elemento giuridico per così dire di disturbo all’azione Italiana. Nel 2011, furono approvati dal Parlamento europeo una serie di atti normativi di modifica del Psc (cinque regolamenti e una direttiva), conosciuti come Six-pack; direttamente applicabili e cogenti negli ordinamenti nazionali. Nella sostanza, si stabiliscono i medesimi criteri di convergenza, in materia di debito pubblico e disavanzo, sanciti poi successivamente dal Fiscal compact. Di più: nel 2013, furono inoltre approvati due ulteriori regolamenti – il cosiddetto Two-pack –, i quali essenzialmente trasferiscono nell’ordinamento comunitario i principi normativi (già stabiliti nel Fiscal compact), e che attribuiscono alla Commissione poteri di sorveglianza e di controllo nei processi di formazione delle leggi di bilancio nazionali. Domandiamoci, concludendo, se porre il veto sull’integrazione del Fiscal compact nell’ordinamento comunitario, abbia un senso economico-giuridico effettuale, oltre che un impatto a questo punto squisitamente di natura morale. Altra cosa sarebbe invece impostare un dibattito serio, concreto, realistico, sulla modifica di quel quadro normativo nel suo complesso (TSCG, Six-pack, Two-pack, ecc.).
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