Il «pregiudizio Italiano» e la sindrome di Lutero
La Riforma dell’Uem e le insidie ideologiche dell’ancien régime tecnocratico
L’attuale discussione pubblica in materia di riforma dell’Unione economica e monetaria lascia non di rado emergere un fondo di grottesco stravolgimento del principio di realtà. L’orrore (e non l’errore), di natura squisitamente concettuale, nasce e trae alimento dalla stessa dottrina, dalla stessa impostazione del tutto ideologica del problema: l’insuperabile pregiudiziale a ragionare in termini di disavanzo piuttosto che di crescita.
Antico terrore, «animus» predominante nelle nostre élite tecnocratiche, le quali temono che possa un giorno esser disvelata la nostra ineluttabile «inadeguatezza genetica» come nazione, la nostra (in fondo paradossale) insufficienza di titoli storici, ad esser parte della moneta unica. Memori delle indicibili pene di Prometeo, il quale ebbe l’arroganza di sfidare gli dei, avrebbero volentieri dissuaso Lutero dal tentare la Riforma: suprema offesa all’universalismo del dogma, sovvertitrice dell’antico ordine sociale della «civitas» Europea, e distruttrice della pace corporativa.
E domandiamoci cos’altro esso rappresenti, in fondo, se non il tentativo storico, mascherato da complesso di inferiorità collettivo - e neanche troppo dissimulato -, di perpetuare un’innaturale forma di ancien régime istituzionale (prima ancora che ideale) che la Grande crisi ha inappellabilmente delegittimato.
In questo contesto si delinea il problema della conformità alle detestabili norme (due regolamenti, sostanzialmente tradotti in un trattato: il celebre Fiscal compact) che definiscono gli obiettivi strutturali (intermedi) di convergenza economica. Al di là della torturante complessità dei precetti in questione, è opportuno notare come quei parametri vengano assurdamente intesi in quanto valori assoluti e statici: nessun conto si tiene, ad esempio, del profilo dinamico del debito, aspetto che i mercati finanziari osservano con rigorosa continuità: e non vi sarebbe altrimenti spiegazione al caso del Giappone.
Analisi, questa, che necessariamente obbliga a chiamare in causa anche il dato della crescita nominale: parametro affatto ignorato dalle matrici di convergenza (salvo che nella oscura e direi alquanto contesa determinazione del divario con la crescita potenziale).
In tale irrazionalismo logico affonda le sue radici il «pregiudizio Italiano»: un paese con un saldo primario positivo (1,5 per cento del Pil), tra i più alti in Europa, e un costo del debito che la politica monetaria della Bce contribuisce a mantenere su livelli minimi. Nella sostanza: disciplina fiscale sì, ma un debito eccessivo (sebbene sostenibile). Su quest’ultimo punto, indulgere in astratte figurazioni in ordine a potenziali operazioni straordinarie relative ad una sua rapida riduzione, possiede indubbiamente un irresistibile potere di suggestione, non privo però delle insidie dell’illusione.
Si ragioni su un punto cruciale. Se è vero che esiste ancora un forte divario congiunturale nei confronti della crescita potenziale; e se è parimenti vero che esiste una significativa «capacità inutilizzata» nel tessuto produttivo: se ne deve necessariamente dedurre che vi sono spazi considerevoli per incrementare quel tasso di crescita reale, alla base delle (pur buone) recenti previsioni (+1,5%). In quest’ambito le politiche fiscali nazionali devono esser poste nelle condizioni di poter svolgere un ruolo cardinale di stimolo, attraverso interventi che eventualmente contemplino la possibilità di moderati disavanzi transitori. Se tale leva viene giuridicamente sottratta da norme desuete e prive oggettività storica oltre che economica, maldisposte a distinguere tra risorse in conto capitale (generatrici di crescita) e spesa corrente improduttiva, si pone allora un’inevitabile questione di confronto politico che non può essere ignorata.
Dovrebbe questa essere la posizione Italiana nei consessi europei, i quali vengono già prendendo corpo intorno a una quanto meno anomala (e per noi vantaggiosa) intesa franco-tedesca. Consacrarsi alle ragioni della crescita economica. Modificare quel coacervo insondabile e contradditorio di norme. Attenuare, o in parte estendere nel tempo, in una logica programmatica (non esclusivamente annuale), quei bizzarri piani di aggiustamento strutturale ai parametri del Patto di stabilità sanzionati, verrebbe fatto di dire, quasi per «diritto divino».
Domandiamoci quale senso abbia un quadro normativo che forzi un paese nel braccio preventivo del Patto di stabilità (ma in sostanziale avanzo primario), verso uno sforzo di consolidamento del debito pubblico del 5 per cento l’anno, in vista del «sacro mito» del 60 per cento. Domandiamoci quale inintelligibile «teologia» giustifichi una tale astrazione, se non quella della paura e del rifiuto pregiudiziale del «principio di solidarietà»?
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