Contro l'Unione degli Stati promossa dal Consiglio europeo
Nel Consiglio europeo vi è un’assenza ingiustificabile di pratiche democratiche fondamentali per il buon funzionamento delle nostre democrazie liberali.
L’Unione europea sta attraversando una fase di profonda crisi. “Crisi” non nel significato usato e strabusato di deterioramento di una determinata condizione, bensì inteso nel senso etimologico del termine, dal verbo greco krìno: “separare”. Utilizzato originariamente in campo agricolo per indicare la fase finale del raccolto — quando si separa la granella del frumento dalla paglia e dalla pula — acquistò poi diversi significati secondari, tra cui quello di “scelta”, “giudizio” o più largamente di “capacità di giudizio”. Dunque crisi come momento di scelta, attimo di decisione. Uno stato potremmo dire permanente nella vita delle istituzioni democratiche, che hanno la responsabilità intrinseca di adattarsi al mutare delle condizioni e dei contesti da cui sono circondate, nel perseguimento costante del bene comune. Inutile dire inoltre che le istituzioni sono degli uomini, a cui spetta di governarle e di indirizzarle al meglio. Esattamente qui sta la crisi — leggi scelta — dell’Unione europea, il cui percorso di integrazione non può prescindere da alcune constatazioni fondamentali. Anzitutto, mai prima d’ora i cittadini dell’Unione hanno condiviso un destino tanto comune e tanto indissolubilmente legato, con la necessità e l’urgenza di un’architettura istituzionale che declini al meglio tale contingenza. Gli anni di depressione economica, di trasformazione tecnologica e di mutamenti geopolitici hanno difatti consolidato un’ancor maggiore interdipendenza tra i paesi europei, da cui non è auspicabile, per non ripetere la triste storia del XX secolo, tornare indietro. Eppure gli Stati membri, con le loro leadership politiche, sembrano andare nel senso opposto, verso una tendenza, purtroppo non nuova nel vecchio continente, a ripiegarsi sui propri egoismi, gelosi dei propri confini e della propria sedicente sovranità. Sovranità che, come ricorda Sabino Cassese, è stata ceduta con la stessa adesione di uno Stato nazionale all’Unione europea; appartenenza attraverso la quale uno Stato è passato da “nazionale” a, appunto, “Stato membro”. Letteralmente: “la sovranità non può essere condivisa, perché se lo è, non è sovranità”. Nel bel mezzo della frenesia populistica che attraversa l’Europa — sbaglia chi dice che i populismi hanno perso — ci si chiede quindi a quale sovranità si faccia così miseramente appello: forse quella economico-monetaria che i paesi dell’Eurozona hanno di fatto ceduto? Quella che permetterebbe a una Stato membro di gestire da solo tutti i flussi migratori provenienti dal continente africano? Quella in grado di gestire i rischi e i benefici della digitalizzazione? O forse quella in grado di proteggere i cittadini dalle minacce del terrorismo? Quest’ultimo sì, per niente geloso dei propri confini. Vi è così la percezione, forse paradossale, di un’ampia divergenza tra gli interessi dei cittadini europei e quelli degli Stati membri. I primi sono desiderosi di essere protetti e serviti, in termini economici, di sicurezza e ambientali, dalle istituzioni dell’Unione, indipendentemente che si tratti di Roma o Berlino; i secondi, che per natura sono al contrario portatori di interessi limitati al confine nazionale, puntano al consenso interno e alla garanzia di un buon risultato alle prossime elezioni. Allora ci si domanda se, in un preciso momento storico in cui la politica domestica è a tutti gli effetti politica europea, la strada puramente intergovernativa intrapresa dai capi di Stato nel Consiglio europeo, l’istituzione che rappresenta esclusivamente gli interessi nazionali, sia giusta e adeguata ai tempi in cui viviamo. In particolare, nelle conclusioni dell’ultimo summit di fine ottobre, il Presidente Donald Tusk ha ulteriormente rafforzato la posizione del Consiglio europeo nella sua funzione di principale agente politico, che muovendosi tra esecutivo e legislativo si fa decisore di prima e ultima istanza di ogni riforma e sviluppo dell’Unione. Secondo Tusk, questa pare essere l’unica via possibile per una maggiore integrazione, al di fuori della quale sarebbe impossibile fare passi avanti. Pertanto, sembra esserci poco o nessuno spazio per quelle istituzioni, quali Commissione, Corte e in particolare Parlamento, che sono invece la sintesi dell’interesse veramente europeo. Il cuore dell’Unione, la granella del frumento, ovvero i cittadini, membri di una comunità e vincolati ad essa da interessi comuni, sono in ultimo lasciati da parte e mal rappresentati nei meccanismi decisionali ormai di primaria importanza che coinvolgono il Consiglio europeo e il Consiglio, sempre meno trasparenti, legittimati e controllati. In altre parole, vi è un’assenza ingiustificabile di pratiche democratiche fondamentali per il buon funzionamento delle nostre democrazie liberali. In tali circostanze, diventa vitale ribilanciare l'assetto istituzionale dell'Ue e scegliere la strada del metodo comunitario, a cui si possono ascrivere a pieno titolo i grandi successi del mercato unico, oggi neanche lontanamente comparabili ai piccoli compromessi al ribasso della politica interna e esterna dell’Unione. I cittadini, come dimostra la crescente disaffezione per l’Europa unita, che è il più grande conseguimento del ‘900, non sono difatti più disposti a tollerare un’Unione europea incapace di prendersi le proprie responsabilità politiche.
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